Vi ricordate il libro che ho scritto? Sì, sempre quello. Ci siete? Comunque, lo sto riscrivendo. Per la terza volta. L’ho riletto la prima volta e non mi è piaciuto. L’ho riletto su carta e ho chiesto chi fosse stato il responsabile di tutto quello spreco d’inchiostro. Adesso cerco semplicemente di dare un senso a quell’ammasso di parole, decine centinaia migliaia di caratteri che rischiano di travolgermi ed inghiottirmi se appena mi distraggo un attimo. È un compito lungo, ingrato, senza fine. E bellissimo.
Perchè le parole in sè e per sè sono corpi inerti, ombre, spermatozoi e ovuli in attesa. Sei tu che devi farle incontrare bene e portarle fino alla gravidanza e al parto, o quantomeno a farle divertire per una notte.
Non c’è sensazione più bella di quella che nasce quando vedi le giuste parole nel giusto ordine. Il corpo inerte che acquista vita. Perle che s’incastrano in una collana irripetibile.
Le parole, quando trovano il loro posto, poi un posto lo danno anche a tutto quello che le circonda. Durante i tre anni di lavorazione di questo libro, il periodo più prolifico è corrisposto a uno dei più difficili, personalmente parlando. Tutto barcollava e le nuvole aumentavano, così l’unica cosa era alzarmi presto ogni mattina (doposbronza permettendo), colazione leggera, poi mettevo il portatile in una borsa e indossavo una giacca marrone che mi faceva sembrare un pescatore. Ogni tanto, mentre così imbacuccato mi dirigevo verso la biblioteca pubblica di Gladesville (un sobborgo di Sydney), mi sentivo davvero un po’ pescatore. Sapevo che, una volta arrivato a destinazione, avrei scelto una postazione tranquilla dove i bambini asiatici mi lasciassero tranquillo, avrei attaccato il portatile alla presa e per le successive ore me ne sarei stato paziente e attivo a portare a galla tutte le parole che potevo. Sapevo anche che sarebbe arrivato il giorno in cui quelle stesse parole sarebbero dovute essere ripulite, liberate da tutte le spine e poi cotte insieme a tutto il resto. Per il momento mi bastava solo accumulare parole e frasi e paragrafi finchè la barca non sembrava sprofondare sotto il loro peso. Tutto intorno a me stava crollando e io pescavo paziente. Mi permetteva di restare sano nello sfacelo.
È sempre stato così.
Che poi la vita dello scrittore è strana (e il termine scrittore appiccicato a me è pura licenza poetica). Qualcuno ha detto (forse Bukowski) che scrivere ti getta in spazi troppo ariosi, che alla fine sono difficili da gestire. Che poi, scrivere di che? Scrivere cosa? Non si sa mai fin quando non si comincia, che è cosa sublime e terribile. Lo scrittore si caccia in guai che si crea lui stesso, e che in fondo è l’unico a capirli davvero. Lo scrittore è un uomo terrorizzato da sè stesso, e che in fondo ha solo sè stesso come alleato per combattere quel terrore. È una lotta che non si vince mai, e forse questa mancanza di vittoria e sconfitta mantengono la necessaria tensione per poter affrontare un lungo cammino senza meta e senza premi. Pubblicazioni ed elogi sono solo un ostacolo per quelli che stanno camminando davvero, perchè sono trappole fottutamente seducenti. E’ tutta questione di equilibrio personale. Io non ne ho nessuno ma capisco che gli amici non ti diranno mai che fai schifo. Stanno elogiando te, non la tua storia –come probabilmente è anche giusto che sia. Poi qualche volta capita quella persona che ti dice che l’hai emozionata e sta parlando delle tue parole, non di te.
È per momenti del genere che uno si butta solo le ruote di questo giochino che vuole tutto o niente. Che ti fa rischiare di parlare sempre di vita e di non viverla mai.
Ma non fraintendetemi: sono una persona con pochissima fantasia. Quello che vedo, scrivo. La scrittura non è mai stata una fuga dalla realtà, la creazione di un’altra dimensione, un mondo parallelo. Se c’era anzi un momento in cui sentivo di più che stavo toccando la vita reale, quella del qui e ora, era davanti a questo benedetto Word.
Che poi è un giochino, solo questo. Un tictictic che sembra facile ma non lo è. Che ti disciplina più di una moglie. Che ti responsabilizza e ti apre altri occhi mentre gli altri due sono fissi sullo schermo. Che ti fa fare domande senza darti un cazzo di risposta. Che, quando non è scrivere per scrivere ma stai davvero dicendo qualcosa, allora è perfetto. Perchè di cose da dire ce ne sono. Ne ho un bel po’ e ho ancora un pezzo di notte, il computer acceso e qualcosa da bere.
Non è un gran bel cazzo di giochino?
martedì 6 luglio 2010
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2 commenti:
senti pescatore di parole, io non sono tua amica.
Non ti conoscevo. Ti ho conosciuto leggendoti. E posso dirti che mi piace molto quello che leggo.
Di te non conosco un cazzo se non le tue storie.
Quindi ti dico di continuarlo 'sto giochino. Ne vale proprio la pena.
Un bacio
Laura
Ciao,
piacere.
Si, è un gran bel giochino. Ma bisogna fare attenzione.
Un mio caro amico un paio di anni fa mi disse: "Emanuel, questa cosa dello scrivere ho paura che si riveli un'arma a doppio taglio".
E lo è veramente.
Se hai tempo, o voglia, guardati questo cortometraggio:
http://www.emanuelgavioli.com/2010/03/il-tempo-non-fa-il-suo-dovere.html
E' ispirato alla frase di Bukowski che hai citato.
A presto. ;)
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