martedì 16 febbraio 2010

Un autunno lungo un giorno

L’uomo accanto a me si guarda intorno, perplesso. Sa che è suo diritto, ma non capisce fino a dove si può spingere. Quando alla fine ordino il mio whisky on the rocks lui si fa coraggio e si fa dare lo stesso. Lo sorseggia piano, soddisfatto della scelta. Io invece faccio sorsate sempre più ampie finchè non resta solo il ghiaccio a farmi sentire vive le labbra e i denti. Non ho nemmeno guardato che film ci sono a disposizione. Non mi va di guardarli. Ma non mi va nemmeno di guardare fuori e vedere quel panorama allontanarsi. Così finisco per ordinare un altro whisky mentre l’uomo sorseggia ancora il suo, contento e ottuso.

A Kuala Lumpur scendo dall’aereo che ancora barcollo. L’hostess mi aveva preso in simpatia, o forse aveva solo capito. Non so quante volte mi aveva riempito il bicchiere. Ma non bastava. Ero solo, e non bastava. Per questo mi ritrovavo a barcollare nell’aereoporto ultramoderno di una città che non sapevo nemmeno com’era fatta. Era la terza volta che passavo di lì. Che cazzo, devo visitarla un giorno, mi dissi senza sorridere, con la tristezza che già faceva sgasare il whisky.

Barcollai fin dentro il cesso. Avevo, chissà come, dei soldi malesi. Non sapevo cosa farmene. Era notte, era Asia, ero stanco.

Ero partito che era estate, un’estate capricciosa e umida come sempre a Sydney, ma lo stesso stupenda da colpirti lo stomaco. Da allora ero immerso in questa temperatura sempre-la-stessa da condizionatore a palla, prima l’aereo ora l’aereoporto.

Mi trovavo a metà di un viaggio che non volevo fare, e già mi sembravano impossibili da credere quelle immagini che mi portavo dietro. Ero davvero stato su quelle spiagge, in quelle piscine? Avevo davvero mangiato ostriche nel tramonto della Gold Coast con la donna che amo? Avevo davvero bevuto un'altra VB col compare?

Capitava sempre così. Quando ero in un posto, l’altro sembrava lontanissimo, remoto ben più dei 10.000 km che non sono pochi certo. La mente cercava di colmare i vuoti, di rimettermi davanti agli occhi il panorama che vedo dal balcone del Bucodiculo o di quello a Messina, il freddo il mare le macchine, ma non ci riusciva.

Così in questa schizofrenia non risolta, in questa lotta tra estate e inverno, tra paradiso e inferno, alla fine di tutto questo restavo io, io barcollante in un aereoporto uguali a tutti gli altri e sospeso nello spazio, in mezzo a facce che non sapevo, io nella nera notte d’Asia piena di misteri e storie che forse non avrei mai saputo, io strappato al sogno che stavo facendo, io lontano da tutto quello che amavo e anche da quello che odiavo, io che viaggiavo e non sapevo mai dopo un certo punto dove stavo andando e perchè dio mio perchè ci stavo andando, io che forse era il caso di cominciare a vedere cosa fosse questo io a 30 anni suonati, io che stavo sempre a metà, in fuga eterna dalla morte e che però non riuscivo a beccare la vita, non ancora, io che ero arrivato tanto volte e tante volte ero ripartito, io che scappavo che non mi facevo prendere, io passenger nella notte che non finisce mai.

Mi risvegliai che eravamo sopra l’Afghanistan. Non so perchè avevo guardato la mappa. Non m’interessava. Non avevo alcun interesse in questo viaggio. Però guardavo l’aereo muoversi nella mappa, leggo i nomi. Muovermi mi piaceva.

Pigiai il tasto e lo schermo si divise nelle zone del mondo in cui era notte e quelle in cui c’era luce. Per ironia, il simbolino del sole si trovava proprio sull’Australia, in quel momento. Io me ne stavo allontanando alla velocità di vattelapesca nodi al minuto. Mi stavo andando a infilare in una notte che sembrava paurosa.

Mi stavo muovendo, ma nella direzione sbagliata.

Niente di nuovo.

All’arrivo a Catania tutti correvano a prendere le valigie. Si spingevano, imprecavano, poi si fermarono di botto. Fuori c’era una bufera. Il vento era sferzante, la pioggia ridicolmente fitta. Freddo. Piombai immediatamente nell’inverno, senza preparazione e senza voglia.

Il mio autunno era durato un giorno.

Un’altra estate diventava ricordo mentre lottavo con la pioggia e spingevo per salire sull’autobus.

Per non restare di fuori.

Per puntare dritto verso la prossima estate. Ovunque fosse.

1 commenti:

clelia ha detto...

sentirvi parlare delle stagioni (della vita?!) mi scalda l'animo... gracias