domenica 20 novembre 2016
Elefante
Non so se ci avete fatto caso, ma ogni volta che siamo a terra e qualcuno ci chiede come va –qualcuno a cui frega davvero, s’intende- rispondiamo sempre: così. C’è un implicito dietro quella singola parola, unita all’incertezza tra il voler dire e il lasciar perdere e parlare d’altro. E’ strano come riusciamo a definire tutto, ad avere una parola pronta per ogni situazione e stato d’animo, perfino un emoji che possa esprimere al volo o chiarificare il tono, ma quando si tratta di descrivere come ci sentiamo quando ci sentiamo di merda, l’unica soluzione a cui riusciamo a pensare è quella parolina vaga e terribile.
Così.
Non credo sia un caso. In tempi fintamente ottimistici, dove i social sono una passerella dove mostrare il nostro miglior profilo e perfino il dolore sembra solo una strategia di marketing per attirare attenzioni e like, è normale avere difficoltà quando si tratta di parlare del lato oscuro, di quella fetta di sentimenti grigi e spaventosi che assomigliano alla malattia, e come la malattia vengono evitati.
Per questo, quando ce lo chiede un estraneo, diciamo: tutto bene, grazie, anche se di bene non c’è proprio un cazzo.
Per questo, quando ce lo chiede un amico, ci troviamo spiazzati, con troppo da dire e nessuna parola per farlo, e preferiamo solo ammiccare, far intuire: così.
C’è un problema di comunicazione. Abbiamo velocizzato tutto, semplificato tutto, e il pericolo di banalizzare eventi gravi e lieti è reale. Abbiamo lasciato che immagini e frasi fatte parlassero per noi, senza renderci conto che, andando bene per tutti, alla fine non andavano bene per nessuno. Perchè distruggevano l’esperienza personale, intima, in nome di un qualunquismo in cui tutti potessero indentificarsi, creando un senso di finta appartenenza alla Tribù dei Cuori Infranti. Abbiamo aderito ad opinioni brillanti sul fatto del giorno, e ci siamo dimenticati di formarcene una nostra. Abbiamo mostrato ciò che andava mostrato, e non ciò che ci andava di mostrare. Abbiamo mischiato figli e lutti, partite di calcio e guerre, gattini e rivolte, senza un ordine, un codice, una minima priorità. Abbiamo chinato la testa, dimenticandoci di parlare.
Per questo, quando viene il nostro turno, sappiamo dire solo: così.
Ma chiaramente, non si tratta solo di un problema di social o comunicazione. Quando si tratta di parlare del proprio disagio, si tocca una zona pericolosa. E’ facile mostrare le nostre vittorie –un po’ meno le nostre ferite. Non credo sia solo questione di machismo, orgoglio o insicurezza.
Probabilmente, è fottutamente complicato dire che ci si sente persi.
Paradossale, perchè tutti, prima o poi, per poco o troppo a lungo, si sentono così. Come se non trovassero la loro parte scritta in questa grande recita, il ruolo che rivestono in questa tragicommedia. Tutti, prima o poi, si ritrovano con un bicchiere in mano, una notte troppo lunga davanti, e l’assoluta incertezza sul cosa fare della propria vita.
E’ una sensazione così comunque che sarei tentato di sovvertire l’ordine: sono pochissime le persone che sanno sempre, costantemente, cosa fare della loro vita. Tutti gli altri si pongono in uno spettro tra gli idioti (che queste domande non se le pongono mai, dormono bene la notte, sono terrorizzati solo dal lunedì mattina, e ogni venerdì sono felici senza sapere perchè) e le anime perse, quegli essere così sensibili e tormentati che hanno dubitato fin dal primo momento, e che non hanno smesso mai fino alla fine. Tutti gli altri si sono trovati, in vari momenti, tra questi due estremi –ora irragionevolmente felici, ora depressi da far schifo. E’ la vita, baby. Tutto questo saprebbe di scontato, se non fosse che, quando si tratta del nostro culo a stare male, di scontato non c’è proprio nulla.
Come ci si sente, quando ci sente “così”?
Come se le certezze quotidiane diventassero futili. Come se le nostre nozioni –su noi, sul mondo che ci circonda- assolutamente inutili. Come se ci rendessimo conto che stiamo combattendo una guerra esterna di cui non ci frega nulla ma che dobbiamo combattere lo stesso, anche a scapito della nostra, intima, che non ci molla mai. Come se nessuno ci capisse, ma noi dovessimo sempre capire gli altri. Come se tutto fosse troppo, e noi volessimo solo una tregua, un breve attimo di pace da questo turbinìo ora apatico ora frenetico.
Come se alzare bandiera bianca e mandare tutto e tutti affanculo fosse l’ipotesi più affascinante.
Ma poi, in qualche modo, decidiamo di tenere botta (o di “guantare”, come dice G.). Lasciamo da parte la bandiera bianca, buona ormai solo per pulirci il culo. Non sappiamo nemmeno perchè lo facciamo –per masochismo, per inerzia, per abitudine, per i valori in cui crediamo, per l’amore che dobbiamo a chi ci sta intorno, per l’amore che ci da chi ci sta intorno. Non molliamo in barba a calcoli e ragionamenti logici, a facili fughe, a facili morti. Restiamo lì, un po’ eroi e un po’ coglioni, a prenderci tutto quello che le nuvole hanno deciso di rovesciarci addosso.
Ed è bello quando, passata la guerra, possiamo guardarci indietro e dire che l’abbiamo passata, che non abbiamo mai mollato.
E’ bello, ma in certi momenti è dannatamente dura.
L’altro giorno pensavo ad un racconto di Raymond Carver, “Elefante”. E’ la storia di un uomo che prova a vivere in pace la vita non esaltante che gli è capitata. Ci prova ma non ci riesce, perchè arrivano lettere. Gli scrive la figlia, che sceglie un uomo sbagliato dietro l’altro e ha bisogno di un aiuto per mantenere i due figli. Gli scrive il fratello, che si imbarca in diversi progetti finanziari, tutti fallimentari, e ha bisogno di una mano prima che i creditori lo assalgano. Gli scrive la madre, che vive da sola e ogni tanto dà i soldi della propria pensione all’altro figlio (che li investe male), e per caso non avresti qualcosa da mandarmi? Mi sento tanto sola qui. Mi servirebbe una sveglia perchè la mia si è rotta, poi non ti disturberò più.
L’uomo continua a scrivere lettere e a mandare soldi. Quando li finisce, comincia a fare gli straordinari al lavoro. Non spende più niente per sè, manda tutto ai suoi famigliari –così bisognosi, così dipendenti da lui. Ogni volta che pensa di aver finito, di aver pagato tutti i conti, ecco che arriva una nuova lettera, un nuovo imprevisto, altri soldi da rinchiudere in una busta. A volte vorrebbe arrabbiarsi con tutti loro ma non può, perchè subito pensa a quello che stanno affrontando. Ognuno sta passando una guerra. Solo che lui sta pagando i conti per tutti loro. Letteralmente.
L’uomo lavora e lavora per poter pagare i debiti. Non gli resta nemmeno più tempo per dormire a sufficienza. Non gli resta il tempo per la sua, di guerra.
Poi una notte dorme e sogna. Nel sogno, è di nuovo bambino ed è sulle spalle di suo padre. Per quanto sia in una posizione pericolosa, sa che è al sicuro. Qualcun altro si sta occupando di lui, gli sta dicendo di stare tranquillo. Non ha niente da temere. Ci sono qua io. Non pensare più a niente.
In quel sogno, l’uomo è felice.
Così.
Marco Zangari © 2016
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