domenica 27 novembre 2016

Contro ogni probabilità


Quando avevo 16 anni, i miei genitori mi fecero per Natale due regali particolarmente azzeccati. Il primo era una giacca di velluto nera molto scicchettosa (negli anni ’90 bastava poco per essere scicchettosi).
Il secondo fu un libro.
Senza perdere la tenerezza”di Paco Ignacio Taibo II era una biografia iperdocumentata ed esaustiva (fin troppo) di Ernesto Guevara, detto il Che. Ogni tanto penso che questo fosse il regalo più sbagliato che potevano farmi, considerata la mia confusione totale di allora (su qualunque argomento, in qualunque direzione), e i rischi legati ad una lettura del genere erano tanti.
Poi invece capisco che era il regalo migliore che potessero farmi. Perchè dimostrava che, al di là dei (tanti) scontri che avevamo in quel periodo, vedevano la mia curiosità, la mia fame di pagine, la voglia di capire. In tempi pre-Google, raccoglievo e custodivo gelosamente gli inserti del “Corriere” sulla storia del Novecento –considerando che il nostro libro di testo finiva a malapena nel secondo Dopoguerra. La storia mi piaceva tantissimo, per qualche motivo. Forse, dal momento che non avevo alcuna idea di cosa mi aspettasse, del che cosa fosse il futuro, cercavo quantomeno di mettere ordine nel passato.
Ancora adesso rimpiango i tempi in cui il passato era solo quello dei libri, e non il mio personale.

Sapevo qualcosa del Che, la sua figura mi affascinava, ma a parte i documentari in seconda serata di Raitre, ne sapevo davvero poco. Cercavo di evitare gli slogan facili come molti miei coetanei, volevo solo capire –sempre se c’era da capire.
I miei devono aver captato questo bisogno, e grazie a loro mi immersi in quelle pagine. Il libro mi prese parecchio tempo. Le mie conoscenze politiche non erano sufficienti, ancora, per la prosa iperdettagliata di Taibo II (una sequela di partiti movimenti decreti alleanze ministeri accordi sotterfugi). Ammetto di aver fatto fatica in quelle parti. Per il resto, il libro fu davvero una rivelazione.
Anche coi miei 16 anni, capivo che il Che aveva tutto per diventare un’icona romantica e nostalgica. Dottore che da ragazzo gira il Sudamerica con mezzi di fortuna, poi una volta laureato molla tutto per andare a combattere le lotte di altri in Paesi di altri –senza mirare al potere, peraltro. A questo aggiungiamo il carisma, l’avvenenza fisica, un cervello che fumava (uno che leggeva i classici della letteratura nella Sierra Madre, tra uno scontro e l’altro), una favella lucida e brillante, un’ ostinazione che superava qualsiasi cosa (compresa l’asma), la fine tragica... insomma, gli ingredienti c’erano tutti. Forse la sua figura ha dettato inconsapevolmente la linea per il profilo dell’eroe moderno –una versione aggiornata di ciò che l’uomo ha sempre cercato, di cui ha sempre avuto bisogno, pur dicendoselo sempre di meno.
Una figura luminosa, rara, che per contrasto copriva anche tutti quegli angoli oscuri della Storia che inevitabilmente esistono. A 16 anni capii una cosa: c’è chi i 16 anni ce li ha una volta sola, e chi se li porta dietro da sempre. A quell’età è facile dire bene e male, bianco e nero, eroe o demone, e in fondo ci sta pure.
Dopo, no.
L’ironia è che fare la fine del santino non sarebbe piaciuto nemmeno al Che –che, come detto, era persona intelligente, e come tale sapeva prendersi anche poco sul serio. In fondo le definizioni servono a noi, che vogliamo ridurre tutto ad un’etichetta frettolosa per passare avanti. Eroi, folli, sognatori, dittatori... Erano uomini, nel bene e nel male.
Spesso nel male, che non riesce ad essere giustificato dal bene.
C’era una lezione preziosa per tutti noi, in ogni caso, in quei barbudos che entravano all’Avana prendendo a calci nel sedere gli yankee: la Storia non è mai una, e nemmeno le persone lo sono. Ho visto i social, ieri, affondare in questo concetto monoblocco. Ho visto tutti tornare ai propri 16 anni.
Il che è figo, se uno pensa alla giacca di velluto. Meno utile sotto altri aspetti, probabilmente.

Il Che è stato così sommerso di aggettivi, encomi, calunnie e definizioni, che sembrava non essere rimasto quasi niente per Fidel. A Cuba lo sapevano meglio di qualunque altro; per tutti gli altri, Fidel era quello che il potere, a differenza del Che, se l’era preso, e l’aveva usato come sappiamo. Era quello che aveva sognato una rivoluzione, e poi l’aveva tradita. Quello che mirava al paradiso, finendo per confonderlo con un altro tipo di inferno.
Per molti, era quello che era arrivato a rinnegare persino il Che –colpevole di essere personaggio troppo popolare, troppo amato dalla gente, identificato come la vera mente della rivoluzione appena conclusa.
Non essendo Saviano, non so cosa c’è di vero o falso in tutto questo –e nemmeno m’importa. Non ho difficoltà a definire dittatore Fidel, perchè ho evitato sempre di costruire santini, di credere che il mondo fosse quello dei miei 16 anni –per quanto affascinante e persino consolatorio. E un dittatore è un dittatore, non ci sono cazzi. Probabilmente la mia vita ha poco o nulla di rivoluzionario al momento, ma amo troppo la libertà –in forme più o meno astratte- per poter giustificare qualcuno che vuole sottrarla, impedirla. Svuotarla.
Quindi sì, alla notizia di Fidel ho avvertito la portata storica, il Nocevento, il comunismo e tutto il resto –ma non mi sono mai dimenticato di chi stavamo parlando.
In fondo fare la Storia vuol dire anche questo: gente che ti ama, altri che in un tweet riescono a buttare merda, e un giudizio che si dividerà in mille fino a perdere di ogni senso.

Quando avevo 16 anni, decisi di averli fino in fondo. Quando lessi quel libro sul Che, feci conto di non sapere come andasse a finire (e in fondo, ne sapevo così poco che era praticamente vero).
Così, quando arrivai allo sbarco della Granma, che portava gli esuli cubani sull’isola pronti a iniziare la rivoluzione, lo lessi come un racconto d’avventura, e pure bello tosto. Sapete già la storia: Fidel aveva organizzato una barca che poteva contenere 22 persone e in realtà ne portava 82. La barca era andata alla deriva, c’erano state tempeste, ma alla fine era arrivata a Cuba. Appena approdata, era stata immediatamente attaccata dall’esercito di Batista. Degli 82 passeggeri, si erano salvati solo in 12. Contro ogni probabilità, Fidel e il Che si trovavano tra quei 12, anche se feriti. Una dozzina di uomini, perlopiù feriti, con poche armi e nessun mezzo di sostentamento, e un esercito alle calcagna.
La Rivoluzione era cominciata così, con ogni sorta di imprevisto e incidente, con tutto contro e solo una flebilissima speranza a favore.
Probabilmente ogni tipo di rivoluzione comincia sempre in condizioni simili.
A 16 anni, inutile dirlo, andavo matto per queste storie. Quelle che non ci scommetteresti un soldo, imprese sostenute solo dai sogni e dagli ideali. Forse, ancora una volta, mi ci stavo identificando.
Fidel non mi stava particolarmente simpatico, ma capivo che solo un pazzo o un genio potevano concepire un’avventura così disperata e difficile, sperando di uscirne vincitore.
Quando, tre anni dopo quello sbarco, i barbudos entravano all’Avana a scacciare gli americani (per i quali nessuno aveva grande simpatia a 16 anni, e molti nemmeno dopo), era il trionfo contro ogni probabilità. Un’isoletta piazzata sotto il Grande Impero del Novecento diventava un’utopia. Qualcosa di imprevedibile, e altamente improbabile –se pensiamo alla longevità del governo di Castro, nonostante embarghi, attentati e falliti colpi di Stato. Se pensiamo agli americani, quelli sempre cazzuti potenti e arroganti dei film (e purtroppo non solo di quelli), la presenza di questa isoletta era uno schiaffo in faccia –e uno di quegli schiaffi che faceva godere buona parte del resto del mondo.
La Storia è stata anche questa.
Purtroppo, non è stata solo questa.
Nei miei 16 anni sognavo, e forse avrei dovuto chiudere quel libro lì, con l’ingresso all’Avana, il mondo che si stupiva per la prima volta dalla Rivoluzione d’Ottobre, il Che ancora vivo, e Fidel solo una testa dura che aveva portato avanti un piano a cui solo lui aveva creduto, e che adesso diventava reale.
Sarebbe stato bello.
Invece continuai a leggere, i miei 16 anni finirono e la giacca di velluto andò fuori moda.
Ma la conservo ancora.
Contro ogni probabilità.

Marco Zangari © 2016

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