domenica 21 febbraio 2016

Elogio della vita noiosa: di artisti, orari e tutti a letto presto


Ho da poco letto “Rituali quotidiani” (Vallardi), una raccolta ad opera del giornalista Mason Currey sulle abitudini di vita, ma soprattutto creative, di più di 150 tra artisti, scienziati e filosofi (potete leggere la mia recensione qui).
Il libro parte subito con W.H. Auden, che riferendosi alla proprie abitudini, dice: “Uno stoico moderno sa che il modo più sicuro per disciplinare la passione è disciplinare il tempo: decidi cosa vuoi o cosa devi fare durante il giorno, quindi fallo ogni giorno alla stessa ora, e la passione non ti darà alcun problema”.
Non sembra molto divertente, vero? Chiunque si immagini un’orgia ininterrotta di alcol, sesso, droghe, viaggi e figli illeggittimi, resterà deluso. Non perchè questi personaggi non abbiano fatto ANCHE questo –semplicemente, non è stato questo (o solo questo) a renderli quello che sono, a farceli conoscere per come sappiamo.
Di tutti i personaggi del libro, pochi hanno retto un ritmo di dipendenze, feste, incontri e ispirazioni all’improvviso –e tra questi, non sono in tanti ad aver superato la quarantina. Certo, ci sono sempre le eccezioni: per ogni Keith Richards nella musica, c’è sempre un Charles Bukowski che dissemina il suo cammino verso i 70 anni di bottiglie, sigari e letti sfatti.
E quella in fondo è l’idea che, volenti o meno, ci siamo fatti degli artisti, specie dei grandi. Una vita fatta di sregolatezze, eccessi, col genio che poi compariva magicamente a trasferire tutto su carta o su tela, a plasmare la creta o enunciare teoremi rivoluzionari.
La realtà che questo libro mostra, però, è ben altra.
Per chiarire subito il concetto, l’introduzione riporta una frase che V.S. Pritchett, scrittore e saggista americano, scrisse parlando dello storico inglese Edward Gibbon che, pure quando prestava servizio militare, riusciva a studiare Orazio o i classici della teologia tra una marcia e l’altra: “Prima o poi, i grandi uomini si dimostrano simili tra loro. Non smettono mai di lavorare. Non perdono mai un minuto. E questo è molto deprimente”.
E su questo, credo, possiamo essere d’accordo tutti.

Creare è un lavoro, e nemmeno di quelli facili.
Probabilmente è uno dei concetti più anti-romantici e ammoscianti che esista, ma è così. A meno che non siate tra coloro che si dilettano ogni tanto, per puro piacere, ed in quel caso queste righe non si riferiscono a voi. La creazione diventa passatempo, al pari di cucinare una cosa diversa ogni weekend o collezionare bottiglie di birra strane.
Per tutti gli altri, vale quello che ha detto Philip Roth, premio Pulitzer: “Scrivere non è un lavoro duro: è un incubo”.
D’accordo, io non la metterei così dura. Scaricare casse sotto il sole estivo per una miseria all’ora, è un lavoro duro. Fare l’infermiere in terapia intensiva, è un lavoro duro.
Scrivere –e creare in generale- richiede però un contributo a livello emotivo che è impossibile da quantificare –ed è tanto più opprimente, quanto più è indefinito. Quando fai qualcosa per lavoro, sai che ci sarà un inizio e una fine. Quando crei –perfino (oh miracolo!) su committenza- è tutto più indefinito, troppo vago per poter avere dei riferimenti.
Forse per questo la maggior parte degli artisti e uomini di genio di questo libro avevano bisogno di abitudini fisse, di rituali scaramantici e a volte persino un po’ folli. Dovevano ancorare alla realtà qualcosa che sembrava avere la consistenza di una nuvola, con tutto il pericolo del lampo.

La stragrande maggioranza di questi artisti, contrariamente a quanto ci aspetteremmo, faceva una vita ripetitiva, prevedibile, quasi noiosa. Si alzavano alle prime luci dell’alba –perfino quelli che, come Hemingway, avevano magari bevuto e fatto festa fino a notte fonda. In quella quiete sonnacchiosa, strafatti di caffè (di gran lunga la droga più comune tra loro, molto più che vino e aghi), si mettevano all’opera. Facevano poi una pausa per pranzo, per poi riprendere e non smettere finchè non era ora di cenare. A quel punto alcuni continuavano a lavorare dopo cena, altri vedevano un film con moglie o marito, leggevano un libro e andavano a letto ben prima della mezzanotte.
La mattina dopo si ricominciava daccapo.
Ed erano quasi tutti così. Per non parlare del tempo che ognuno di loro, tra un libro e un quadro, ha dovuto dedicare alle mogli lasciate sole tutto il giorno, o ai figli che chiedevano la loro parte di attenzione. Poi ovviamente c’erano le bollette, le file alla posta, le preoccupazioni finanziarie, i mutui, i problemi con l’alcol o col fumo, gli acciacchi della vecchiaia...

Forse aveva ragione Pritchett, quando parlava di situazione “deprimente”.
Forse no.
Da anni mi batto contro l’immagine dell’artista che crea solo sotto ispirazione, che è forzato a vivere da maledetto a costo della sua credibilità artistica.
Prima ci libereremo dell’artista maledetto, prima potremo tornare a respirare.
E credetemi, non lo dico perchè il concetto non mi affascini –tutt’altro- nè perchè credo che dobbiamo vivere tutti da ragionieri per poter creare.
E’ chiaro che l’Artista (quello maiuscolo) è qualcuno che pensa e vede in maniera diversa, ma è come se avessimo dato a questo concetto un significato di pura esteriorità, dimenticandoci che le più grandi rivoluzioni partono in una stanza male illuminata e nessuno nei paraggi. Di uomini di genio che spaccavano teste e svuotavano bottiglie ce ne sono stati parecchi, è chiaro: il malinteso nasce quando si comincia a pensare che erano uomini di genio proprio perchè spaccavano teste e svuotavano bottiglie. Non si capisce che quello era un sintomo della loro genialità, mica la causa. L’eccentricità non è genio, mentre il genio qualche volta è eccentrico.
Per questo non ci vedo niente di assurdo nelle routine così rigide di questi personaggi del passato. Sapevano benissimo che un’opera d’arte, un’invenzione, un teorema, non sono solo il frutto di illuminazioni improvvise. Ogni creazione richiede un impegno, un dispendio di ore e di energie, che sono difficili da immaginare.
Come ha detto uno degli scrittori di questo “Rituali quotidiani” (non ricordo più chi): “Se mi dovessi affidare solo all’ispirazione, creerei solo tre pagine l’anno”.
Ogni forma di creazione richiede un sacrificio che sì, la fa assomigliare ad un lavoro –ma di quelli massacranti e dolcissimi allo stesso tempo.
Indubbiamente l’ispirazione, l’idea, il talento, sono tutte cose importantissime se non fondamentali. Ma senza il lavoro giorno dopo giorno, l’impegno di ore grigie segnate da sfiducia e incertezza, il senso di fallimento che bussa alla porta come una nausea da doposbronza –non vedremmo mai l’opera conclusa.

Il tempo va rincorso. Il tempo va fermato.
E una volta fermato, bisogna mollargliene uno bello forte, per evitare che ci scappi via di nuovo.
Il punto è che andando avanti, di tempo se ne ha sempre di meno –mentre gli interessi diminuiscono sempre più. Cosa ne facciamo allora?
Lo sprechiamo, è evidente. Come? Ognuno ha la sua risposta.
Ha gioco facile il tempo, con noi. Viviamo tra trappole disseminate tutte intorno. Trappole che forse i grandi scrittori e artisti di un tempo non avevano, dagli smartphone al porno online, dalla reperibilità 24 ore su 24 alla mole di serie tv, libri, film, videogiochi che ci tendono agguati nella quiete di casa nostra. Loro vogliono sentire da te solo quella parolina magica una volta varcata la soglia di casa. Basta che tu dica “SVAGO” che tutto è finito ancora prima di cominciare. Le già scarse difese crollano di schianto.
D’altronde, abbiamo pur diritto, dopo una dura giornata, ad un po’ di SVAGO, no?
Così rimandiamo tutto al fine settimana –solo che nel fine settimana abbiamo bisogno di SVAGO perchè è stata una settimana di merda, sai com’è, e poi ci sono da fare tutte le cose lasciate in sospeso. Allora rimandiamo alle prossime ferie, ma una volta che sei in ferie, cosa te ne frega di creare? Lì c’è solo spazio per lo SVAGO.
E così via.
Lo SVAGO ci ha fregati. Ha consegnato nuove armi in mano ai nostri vecchi padroni. In fondo Huxley con il suo “Mondo nuovo” ci aveva azzeccato alla grande: le cose che amiamo sono quelle che finiranno per fregarci.
E in fondo nemmeno sono così sicuro che le amiamo. Certo, ci fanno sentire meglio. Viviamo in un’epoca dove la noia è stata soppressa.
E allora com’è che sembriamo sempre tutti così annoiati?

L’artista, a mio avviso, vive di noia e terrore.
Noia e terrore sono il suo limite, e sono anche l’unica arma che ha per affrontare questo limite.
Il punto di tutto questo discorso, in fondo, è legato al proprio equilibrio, e al coraggio che serve per farlo nostro e difenderlo.
Inutile contarcela: creare è fatica. Da giovane ti concentri sugli aspetti luccicanti, la fama, le donne, il tuo nome, i riconoscimenti. Poi mese dopo mese ti rendi conto –e questo libro ne è testimone- che gli artisti facevano, spesso, una vita del cazzo. Non si dovevano spaccare la schiena a trapanare strade e avvitare impalcature, ma lo stesso non era semplice. Hanno lottato per anni, chiusi in una stanzetta, con l’impossibilità di comunciare le proprie difficoltà a quasi tutti, a dover ricominciare da zero ogni giorno, camminando su un filo sottile tra follia e oblio.
Ognuno di quegli artisti si era allora trovato un proprio passo, una propria dimensione. Alcuni erano rigidi come impiegati di banca, altri magari restavano più flessibili, ma ognuno di loro aveva trovato un modo per trarre forza dal proprio essere.
Era questa, la loro eccentricità: non gli eccessi, non le scopate.
Avevano deciso di essere se stessi fino in fondo.
Sapevano bene che non era compito facile, e per questo cercavano di delimitarlo, di darsi delle regole proprie, col tempo scartando quelle inutili e trovandone altre che calzassero meglio. Si erano messi comodi dentro se stessi.
Le loro giornate così regolate erano tutt’altro che noiose, ai loro occhi. Tramite quegli orari rigidi e quelle pratiche consuete potevano sprigionare tutta la loro forza creativa. In un mondo che regola tutto sulla sperficialità, dove l’artista senza contatti sociali è finito ancor prima di cominciare, queste sono persone che si sono in qualche modo auto-recluse per portare a termine il loro compito –impilando parole e versi, giorno dopo giorno.
Compito che non era per niente semplice. Immagino solo quante volte, come diceva Roth, si siano seduti davanti a quello schermo bianco, odiandolo, odiando se stessi, sentendo le ore pisciate via mentre la Vera Vita è là fuori.
Avranno avuto la tentazione di lasciar perdere, di darsi anche loro allo SVAGO, di uscire a divertirsi, di andarsi ad ubriacare. Di dar ragione a tutti quelli che dicevano loro che dovevano uscire, che dovevano smettere di fare quella vita così noiosa.
Probabilmente si saranno pure alzati dalla sedia, con lo sguardo rivolto verso la porta.
Poi si saranno voltati, si saranno seduti nuovamente, e avranno ricominciato.
Per fortuna.

Tutto questo pippone per parlare a tutti, anche a me stesso –io che artista non sono, nè maiuscolo nè niente, ma provo a mettere qualche parola in fila sul foglio.
Ho rincorso me stesso per due anni, per sputare fuori il mio “Latinoaustraliana”, e adesso lotto a colpi di minuti strappati per completare il secondo romanzo. Mi faccio forza con la Yellow House insieme ad altri come me, procrastinatori, ostinati, un po’ fuori di testa. Gente che ha conti e orari a cui badare, ma ancora non si rassegna alla successione triviale di giorni e settimane, allo stillicidio di piaceri che spariscono subito.
Io stesso combatto giorno dopo giorno con questa tastiera, la evito persino col pensiero, a volte avvicinandomi solo nel cuore della notte, con la birra che fa il suo giro.
Quasi cedo, qualche volta.
Poi mi ricordo che ho una vita noiosa, ringrazio il Cielo per questo, mi siedo, e comincio.


Marco

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