sabato 4 aprile 2015

"La fabbrica dell'obbedienza", Ermanno Rea

Ogni volta che torno in Italia per le vacanze, provo a passare qualche giorno a Roma. Ogni volta che mi trovo a Roma, ho un piccolo rito. Non è niente di che, e sicuramente potrei farlo anche altrove, ma chissà perchè, mi riesce solo lì. Il rito consiste nel ritagliarmi un pomeriggio (male che vada, qualche ora) per andare alla Feltrinelli su Via del Corso, nella galleria Alberto Sordi, e starmene lì da solo a sfogliare, scegliere, adocchiare, lasciar perdere. Non so quando è cominciato e non so perchè, ma mi sembra importante. Ovviamente compro pile di libri che poi mi faccio bastare per qualche mese (per il resto, leggo libri in inglese e per quelli italiani mi faccio salvare da quella benedizione che è bookdepository.com), ma non è solo questo. Forse è ritrovare quell’aria, quel nonsoche che manca a chi va via, quella differenza impossibile da spiegare e tradurre che c’è tra Italia e Australia, tra una cultura e un’altra –senza usare aggettivi come inferiore o superiore, ma solo diverso, magari solo più familiare, perchè attinge ad un immaginario, a delle costruzioni mentali, a degli “inside jokes” che sono solo nostri.
Ma non siamo qui per parlare di questo...
Insomma, ogni anno faccio scorta alla Feltrinelli, andando un po’ per conoscenza e un po’ (appositamente) a casaccio, per farmi sorprendere e qualche volta trovare qualcosa che mai avrei pensato (non capita spesso). La narrativa è il mio pane, ma provo sempre a infilarci qualche saggio, sia per spezzare il ritmo che per “studiare” un po’ (come diciamo sempre con Gianka, se non impari qualcosa di nuovo ogni tanto, che cosa campi a fare?).
Così mi è capitato per caso tra le mani questo “La fabbrica dell’obbedienza” di Ermanno Rea (Feltrinelli), con sottotitolo “Il lato oscuro e complice degli italiani”, che già mi piaceva molto. Ho dato un’occhiata alla descrizione in quarta di copertina e ho deciso che potevo anche far fare a quel libro 15.000 chilometri insieme a me.
Il tema è di quelli affascinanti, all’apparenza inspiegabili: perchè il popolo italiano ha da sempre preferito stare a pecorina? Cosa lo ha portato, nel corso della sua storia –sia lunghissima che relativamente breve- a farsi del male, a decidere sempre masochisticamente per la via più semplice e illiberale? Naturalmente è un discorso secondo me valido a livello antropologico e psicologico, quindi oltre il livello della semplice nazione, ma lo stesso è interessante notare come, anche in periodi storici contrassegnati da cambiamenti, rivoluzioni, guerre civili e rivolte, l’Italia sia sempre rimasta alla finestra, lamentandosi a gran voce ma senza fare poi molto.
Rea parte proprio dalla disamina storica: come ha potuto il popolo artefice del Rinascimento, che dava lezioni a tutto il resto del mondo, cambiare in maniera così drammatica da rendersi poi complice di fascismi e berlusconismi? Com’è stato possibile che Paesi, culturalmente più arretrati di noi secoli fa, adesso ci hanno di gran lunga superato, e possono ora guardarci quasi con tenerezza? Cos’è andato storto?
L’analisi portata avanti nel libro focalizza nella Chiesa, e in particolare nello spirito portato dalla Controriforma, una delle cause fondamentali che hanno portato l’italiano da genio a pecorone. Il clientelismo, la censura, la scelta del “male minore”, il tirare a campare, lo scarso rispetto per le regole, la diffidenza verso il pensiero originale, la connivenza, l’influenza dei poteri forti nel quotidiano, per Rea sono tutti nati in quell’epoca, che ha visto bruciare Giordano Bruno sul rogo ed etichettare Raffaelo come “deviante”.
Il libro, a dirla tutta, ha qualche sprazzo, ma non convince troppo. La scrittura scorre, ma per lo più sono cose che in qualche modo “già si sanno”, e aggiunge poco all’argomento, tanto più che, a metà del libro, se ne distacca quasi. Il tema dell’obbedienza e del conformismo (che era quello che mi aveva convinto a comprare il libro) pian piano scompare per lasciare spazio all’analisi delle debolezze italiane nel suo complesso (come, ad esempio, l’eterno problema tra Nord e Sud, e l’analisi di alcune possibili, opinabili soluzioni). Niente di male, per carità, ma se inizi un libro proponendoti di parlare di un certo argomento, non puoi poi divagare per metà di esso.
Questo, unito a delle fonti non sempre condivisibili e all’immaginaria arringa finale a favore di Raffaello (17 pagine sono davvero troppe), tradisce il proposito di riportare il discorso ai giorni nostri, e se da una parte mostra quanto antichi e quindi ancor più difficili da cambiare siano alcuni costumi italiani (la lettera con richiesta di raccomandazione, scritta da Giacomo Leopardi al Papa di allora, è un bel colpo), dall’altra resta un fluire disordinato e, in definitiva, confuso.
Da notare un piccolo effetto collaterale: il libro era stato pubblicato nel 2011, in piena era berlusconiana, della quale peraltro l’autore fa spesso riferimento nel libro. Rileggere quelle parole adesso, a soli 4 anni di distanza, fa un certo effetto –almeno a me l’ha fatto. Risentire lo sdegno per quel governo di nani e ballerine, che è come se fosse ormai per noi lontano anni luce, come se non ci avesse mai riguardato. Come se non fosse venuto a mangiarsi 20 anni delle nostre vite.
Come se non avesse mai lasciato qui e lì le sue uova marce, pronte ad aprirsi al momento giusto, e ancora per molto, molto tempo.
Rileggi quelle parole, scritte in quello che sembrava uno dei periodi più bui della nostra storia repubblicana (e lo era, cazzo se lo era!), lascia uno strano senso di oppressione.
Perchè?
Non credo serva un altro libro pieno di ovvietà a spiegarlo. Aprite la finestra, state a sentire. In tempi di eclisse, si passa da una notte all’altra senza vedere mai il sole. Non so se è colpa della Controriforma, del Papa, dei nostri geni, del sole e del mare e delle belle donne.
So che, come al solito, vedremo le colpe solo dopo molto tempo. E già allora non importerà, perchè saremo pronti per un altro ventennio.

Consigliato a:
gli amanti delle ricostruzioni storiche (anche quelle pasticciate); chi si è dimenticato quello che siamo stati; chi non ha capito dove stiamo andando.

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