Quella sera lui è arrivato in perfetto orario nel luogo stabilito, ma poi ha cercato un posto dove provare a togliersi quel qualcosa che gli era entrata nell'occhio.
Uscito dal pub ha incontrato i primi due, ancora in macchina a cercare parcheggio, ed è andato con loro.
Poi la cena, con risate distese e conti che da lì a breve non sarebbero tornati. Euro che volano via come se per davvero, quella notte, fossero solo carta.
Piccoli bicchieri di carta, bianchi, riempiti di liquidi dai colori vivaci che scendono giù per la gola.
Valeria e Viola, sconosciute dai nomi con qualcosa in comune, partner per pochi minuti di una bevuta corale che non lascia il segno.
Per quel momento.
Poi la ragazza di Perugia farfuglia e barcolla (ma lei sì che lo regge bene, l'alcool), poi una donna sposata si struscia in continuazione (però cavolo, non fa sesso da 4 settimane!), un'altra non sposata propone la "mossa del koala". Da lì a breve irrompe Dante ("che è sbucato dal nulla e c'aveva ragione" - commenterà qualcuno), vestito di tutto punto, e poi all'improvviso un rospo di legno si mette a suonare davanti a un cerchio di ubriachi.
È la fine, e il cielo buio abbastanza da convincere tutti. Ci salutiamo, ci auguriamo un futuro assieme e ci incamminiamo per strade diverse, che forse mai più si rincontreranno.
Al ritorno lui ha preso aria, ha camminato cercando di tenere una linea dirirtta sul marciapiede. Si è fermato a bere a ogni fontanella. Non ha riso né pianto, come quel suo ultimo giorno. Si è limitato a fissare il cielo ogni tanto, e ha respirato a fondo un po' dell'aria notturna, non facendo caso allo smog. Si è fermato davanti a piazzale Aldo Moro, si è seduto ai margini di una vasca e ha letto un capitolo di "Australian cargo". Poi ha preso due appunti, scarabocchiato qualcosa e infine scritto dei versi. L'ha scritti con perfetta grafia tra le righe dell'agenda che gli ha regalato il "Capitano", l'ha scritti a cuor leggero, ispirato, quasi nel buio. Tanto quel qualcosa, dall'occhio, se n'era andato via. Poteva di nuovo rimettere a fuoco le parole.
venerdì 30 luglio 2010
mercoledì 28 luglio 2010
THE DINNER
Non avrei mai pensato che una volta saremmo stati in dodici. Che saremmo entrati tutti alla stessa tavola, e che la pasta fredda sarebbe pastata "pelo pelo".
Dodici persone arrivate lì per colpa della vita. Chi per lavoro, chi per vacanza, chi semplicemente per caso.
Tutte con un invito, ricevuto già da una settimana o in altri casi nemmeno due ore prima.
Roma, Sydney, Bruxelles, Messina.
Londra che è, che è stata e che sarà. Berlino che ci pensa, Buenos Aires che vorrebbe essere qui e Cadiz che si prepara a ospitare qualcuno con la testa già al viaggio.
Si ride, si brinda, si parla: c'è ognuno di noi, a questa cena.
Parole multilingue escono, colpiscono, sorridono e cadono nelle orecchie. Alcune solo sentite, altre persino capite. Parole che creano atmosfera, che fanno catena, che sulle note frizzanti di una Barley scivolano sulla lingua e poi in gola, e un po' finiscono al cuore.
Il sudore per il caldo infernale, la doccia veloce mentre gli altri già vivono, gli scarpini per tornare a calciare. La tanto improvvisata quanto attesa "scopa australe-boreale", vinta dalla piccola Daisy, e cosce e mutandine che fanno la loro improvvisa comparsa tra un divano e una sedia.
Poi quelli che vanno, e infine quelli che restano. Veglio sulla loro notte, mi preparo ad accogliere il loro risveglio dell'indomani. Tra qualche giorno partiranno anche loro, in attesa della prossima cena.
GRAZIE di cuore.
Dodici persone arrivate lì per colpa della vita. Chi per lavoro, chi per vacanza, chi semplicemente per caso.
Tutte con un invito, ricevuto già da una settimana o in altri casi nemmeno due ore prima.
Roma, Sydney, Bruxelles, Messina.
Londra che è, che è stata e che sarà. Berlino che ci pensa, Buenos Aires che vorrebbe essere qui e Cadiz che si prepara a ospitare qualcuno con la testa già al viaggio.
Si ride, si brinda, si parla: c'è ognuno di noi, a questa cena.
Parole multilingue escono, colpiscono, sorridono e cadono nelle orecchie. Alcune solo sentite, altre persino capite. Parole che creano atmosfera, che fanno catena, che sulle note frizzanti di una Barley scivolano sulla lingua e poi in gola, e un po' finiscono al cuore.
Il sudore per il caldo infernale, la doccia veloce mentre gli altri già vivono, gli scarpini per tornare a calciare. La tanto improvvisata quanto attesa "scopa australe-boreale", vinta dalla piccola Daisy, e cosce e mutandine che fanno la loro improvvisa comparsa tra un divano e una sedia.
Poi quelli che vanno, e infine quelli che restano. Veglio sulla loro notte, mi preparo ad accogliere il loro risveglio dell'indomani. Tra qualche giorno partiranno anche loro, in attesa della prossima cena.
GRAZIE di cuore.
martedì 27 luglio 2010
Tiburtina Mon Amour
Tiburtina
che ogni volta che dalla stazione venivo verso di te sul ponte
il sole in faccia
sembrava davvero una nuova volta
Tiburtina
di strade nere vuote la sera
di anni passati e negozi nuovi
Tiburtina serrande abbassate
Tiburtina popolana dagli occhi spenti
sospesa tra illecito e povertà, e studenti
che tornano con buste piene
che finiranno in poco
Tiburtina di anziani
che vanno a morire senza fretta
in un appartamento che dà su altri appartamenti
Tiburtina alberi grigi e casalinghi che diventano banche
e facce scure intorno alla stazione
che non c’è più
così come quelle risate
quel tempo
quella giovinezza di noi tutti
Tiburtina e quella casa
angolo Bertarelli
che potrebbe raccontare molte storie
dove le storie hanno cominciato ad essere raccontate
messe su carta
segno di giorni scivolati via
Tiburtina e sudore, Tiburtina e gelo
e sirene di ambulanze, incidenti, gente che passa
edicola all’angolo sprovvista di porno
kebabari e mercatini, mendicanti, gente che se ne va
e tra gli alti palazzi
nessun riparo dal sole e dalla pioggia
Tiburtina che non si vede la fine
Tiburtina mille ricordi
barcollanti e sinceri
Tiburtina quando tornavo, Tiburtina quando partivo
Tiburtina quando tutto
sembrava fermo
e l’Australia era miraggio
Tiburtina io e il compare
e grazie per quelle sere a far finta che andasse bene
Tiburtina spietata
e noi a resistere
Tiburtina
e io che ho consumato
i tuoi marciapiedi
luridi e banali
Tiburtina
che ogni volta che andavo verso la stazione
sul ponte
il sole ormai alle spalle
ero felice di andare
via
da te.
(Marco Zangari, 2010)
che ogni volta che dalla stazione venivo verso di te sul ponte
il sole in faccia
sembrava davvero una nuova volta
Tiburtina
di strade nere vuote la sera
di anni passati e negozi nuovi
Tiburtina serrande abbassate
Tiburtina popolana dagli occhi spenti
sospesa tra illecito e povertà, e studenti
che tornano con buste piene
che finiranno in poco
Tiburtina di anziani
che vanno a morire senza fretta
in un appartamento che dà su altri appartamenti
Tiburtina alberi grigi e casalinghi che diventano banche
e facce scure intorno alla stazione
che non c’è più
così come quelle risate
quel tempo
quella giovinezza di noi tutti
Tiburtina e quella casa
angolo Bertarelli
che potrebbe raccontare molte storie
dove le storie hanno cominciato ad essere raccontate
messe su carta
segno di giorni scivolati via
Tiburtina e sudore, Tiburtina e gelo
e sirene di ambulanze, incidenti, gente che passa
edicola all’angolo sprovvista di porno
kebabari e mercatini, mendicanti, gente che se ne va
e tra gli alti palazzi
nessun riparo dal sole e dalla pioggia
Tiburtina che non si vede la fine
Tiburtina mille ricordi
barcollanti e sinceri
Tiburtina quando tornavo, Tiburtina quando partivo
Tiburtina quando tutto
sembrava fermo
e l’Australia era miraggio
Tiburtina io e il compare
e grazie per quelle sere a far finta che andasse bene
Tiburtina spietata
e noi a resistere
Tiburtina
e io che ho consumato
i tuoi marciapiedi
luridi e banali
Tiburtina
che ogni volta che andavo verso la stazione
sul ponte
il sole ormai alle spalle
ero felice di andare
via
da te.
(Marco Zangari, 2010)
giovedì 15 luglio 2010
ADDIEVEDERCI, anzi CIAO
Il primo "addievederci" (una forma mista di addio e arrivederci che sembra governare i saluti più o meno definitivi nell'ambiente professionale) lo provai che ero arrivato da poco. Nemmeno una settimana che ero in agenzia e il ragazzo che mi aveva accolto, F., mi stava stringendo la mano per salutarmi. Mi diede il suo biglietto da visita, che poi in realtà era un biglietto da visita dell'agenzia sul quale aveva scritto i suoi contatti con una penna nera, e ci scambiammo un "in bocca al lupo". Dopo pochi istanti sparì dietro al portone.
In seguito partì anche S., e dopo fu la volta di altre persone. Io continuavo a stringere mani, a spargere abbracci e ad augurare buona fortuna a tutti quelli che se andavano, sempre con meno sorpresa. Mi stavo abituando agli "addievederci".
Il lavoro è duro, il lavoro è tosto. Roba da uomini veri, con le palle quadrate.
Il segreto? Chiudere a doppia mandata, serrare bene ogni spiraglio d'affetto, impedire che piccoli raggi di luce filtrino e impressionino quella preziosa pellicola che abbiamo dentro. Perché di gente passare ne vedi molta, forse troppa, e se non facessi così non potresti più vivere.
Ieri è stata la volta sua, quella del buon E.
Se ne è andato felice, con lo stesso sorriso che aveva il primo giorno che lo vidi e che per tutto il tempo in cui ha lavorato al mio fianco non ha mai tolto. Sarà che qualcuno ancora riesce a sorridere con la faccia sua, senza doversi mettere una maschera per l'occasione. Saluti, abbracci, strette di mano e "addievederci" a tutti. Davanti una festa, una caccia al tesoro, e poi Salento.
E ci siamo salutati col sorriso, guardandoci negli occhi, con quell'inchino nato per gioco e diventato così inaspettatamente il simbolo, per un istante, del nostro addievederci.
Poi sono tornato al mio posto, ho rimesso gli occhi sul monitor e le dita sulla tastiera. Ho spinto lettere, numeri e simboli, sperando di riuscire, con essi, a spingere lontano anche un po' di quella malinconia che sentivo strisciarmi alle spalle. Ho fatto come fanno tutti, sicuro che non appena ne avessi avuto il tempo, avrei fatto a modo mio.
Sono qui a farlo. Adesso.
E per qualcuno non dovrei.
Me ne fotto.
Guardo alla mia sinistra e ci trovo il nulla, poi penso che da lunedì qualcuno siederà al tuo posto, e che per quanto sarà bravo non avrà il tuo sorriso. Non sarà il " King dell'animazione", il ragazzo che mi salutava con "ciao Capitano".
Ciao...
In fondo, sto pensando, il nostro non è stato un comune "addievederci". Il nostro è stato un più onesto "ciao", in attesa che un mese o poco più ci rimetta di fronte a ridere e a scherzare.
Tra una settimana toccherà anche a me, amico mio.
Immagino di darti la buona notizia mentre tu starai in spiaggia a goderti il sole, la brezza e il rumore delle onde. Immagino di ridere qualche minuto assieme per l'ebbrezza della libertà.
Intanto brindo alla tua, come si deve. Butto giù questo cocktail neanche troppo fresco di parole improvvisate, e shakerate con la tecnica e la destrezza di un contadino.
Butto giù e mi disseto, che qui intorno le mura si stringono e fa sempre più caldo.
Fuori c'è la brezza, e praterie sconfinate dove costruire tutto quello che ci piace.
Salute.
In seguito partì anche S., e dopo fu la volta di altre persone. Io continuavo a stringere mani, a spargere abbracci e ad augurare buona fortuna a tutti quelli che se andavano, sempre con meno sorpresa. Mi stavo abituando agli "addievederci".
Il lavoro è duro, il lavoro è tosto. Roba da uomini veri, con le palle quadrate.
Il segreto? Chiudere a doppia mandata, serrare bene ogni spiraglio d'affetto, impedire che piccoli raggi di luce filtrino e impressionino quella preziosa pellicola che abbiamo dentro. Perché di gente passare ne vedi molta, forse troppa, e se non facessi così non potresti più vivere.
Ieri è stata la volta sua, quella del buon E.
Se ne è andato felice, con lo stesso sorriso che aveva il primo giorno che lo vidi e che per tutto il tempo in cui ha lavorato al mio fianco non ha mai tolto. Sarà che qualcuno ancora riesce a sorridere con la faccia sua, senza doversi mettere una maschera per l'occasione. Saluti, abbracci, strette di mano e "addievederci" a tutti. Davanti una festa, una caccia al tesoro, e poi Salento.
E ci siamo salutati col sorriso, guardandoci negli occhi, con quell'inchino nato per gioco e diventato così inaspettatamente il simbolo, per un istante, del nostro addievederci.
Poi sono tornato al mio posto, ho rimesso gli occhi sul monitor e le dita sulla tastiera. Ho spinto lettere, numeri e simboli, sperando di riuscire, con essi, a spingere lontano anche un po' di quella malinconia che sentivo strisciarmi alle spalle. Ho fatto come fanno tutti, sicuro che non appena ne avessi avuto il tempo, avrei fatto a modo mio.
Sono qui a farlo. Adesso.
E per qualcuno non dovrei.
Me ne fotto.
Guardo alla mia sinistra e ci trovo il nulla, poi penso che da lunedì qualcuno siederà al tuo posto, e che per quanto sarà bravo non avrà il tuo sorriso. Non sarà il " King dell'animazione", il ragazzo che mi salutava con "ciao Capitano".
Ciao...
In fondo, sto pensando, il nostro non è stato un comune "addievederci". Il nostro è stato un più onesto "ciao", in attesa che un mese o poco più ci rimetta di fronte a ridere e a scherzare.
Tra una settimana toccherà anche a me, amico mio.
Immagino di darti la buona notizia mentre tu starai in spiaggia a goderti il sole, la brezza e il rumore delle onde. Immagino di ridere qualche minuto assieme per l'ebbrezza della libertà.
Intanto brindo alla tua, come si deve. Butto giù questo cocktail neanche troppo fresco di parole improvvisate, e shakerate con la tecnica e la destrezza di un contadino.
Butto giù e mi disseto, che qui intorno le mura si stringono e fa sempre più caldo.
Fuori c'è la brezza, e praterie sconfinate dove costruire tutto quello che ci piace.
Salute.
martedì 13 luglio 2010
GIROTONDO
Se giro su me stessa
vedo sempre le stesse cose,
ho l'impressione che si muovano con me
ed invece sono sempre li,
ferme, immobili, statiche.
Ancora non ho capito se mi piacciono o no.
Di solito trovo una posizione per ogni cosa,
non amo spostare gli oggetti
ogni cosa ha il proprio spazio nel “Mio Universo”.
Allo stesso tempo però
odio ciò che non è dinamico,
mi annoia, mi deprime.
Se invito gli altri a girare con me
le cose cambiano:
anche le tanto odiate cose statiche
diventano un po' più accettabili.
Non tutti i bambini di sempre però
vogliono ancora giocare a Girotondo:
alcuni sono andati via da un po';
altri sono ancora qui e vogliono continuare a giocare con me;
e poi ci sono quelli che hanno dimenticato di essere bambini,
di cui ho molta nostalgia.
Spero che un giorno questi bambini,
sfogliando le pagine dei ricordi,
abbiano ancora voglia di tornare a far parte del mio cerchio.
vedo sempre le stesse cose,
ho l'impressione che si muovano con me
ed invece sono sempre li,
ferme, immobili, statiche.
Ancora non ho capito se mi piacciono o no.
Di solito trovo una posizione per ogni cosa,
non amo spostare gli oggetti
ogni cosa ha il proprio spazio nel “Mio Universo”.
Allo stesso tempo però
odio ciò che non è dinamico,
mi annoia, mi deprime.
Se invito gli altri a girare con me
le cose cambiano:
anche le tanto odiate cose statiche
diventano un po' più accettabili.
Non tutti i bambini di sempre però
vogliono ancora giocare a Girotondo:
alcuni sono andati via da un po';
altri sono ancora qui e vogliono continuare a giocare con me;
e poi ci sono quelli che hanno dimenticato di essere bambini,
di cui ho molta nostalgia.
Spero che un giorno questi bambini,
sfogliando le pagine dei ricordi,
abbiano ancora voglia di tornare a far parte del mio cerchio.
martedì 6 luglio 2010
Pescatore di parole
Vi ricordate il libro che ho scritto? Sì, sempre quello. Ci siete? Comunque, lo sto riscrivendo. Per la terza volta. L’ho riletto la prima volta e non mi è piaciuto. L’ho riletto su carta e ho chiesto chi fosse stato il responsabile di tutto quello spreco d’inchiostro. Adesso cerco semplicemente di dare un senso a quell’ammasso di parole, decine centinaia migliaia di caratteri che rischiano di travolgermi ed inghiottirmi se appena mi distraggo un attimo. È un compito lungo, ingrato, senza fine. E bellissimo.
Perchè le parole in sè e per sè sono corpi inerti, ombre, spermatozoi e ovuli in attesa. Sei tu che devi farle incontrare bene e portarle fino alla gravidanza e al parto, o quantomeno a farle divertire per una notte.
Non c’è sensazione più bella di quella che nasce quando vedi le giuste parole nel giusto ordine. Il corpo inerte che acquista vita. Perle che s’incastrano in una collana irripetibile.
Le parole, quando trovano il loro posto, poi un posto lo danno anche a tutto quello che le circonda. Durante i tre anni di lavorazione di questo libro, il periodo più prolifico è corrisposto a uno dei più difficili, personalmente parlando. Tutto barcollava e le nuvole aumentavano, così l’unica cosa era alzarmi presto ogni mattina (doposbronza permettendo), colazione leggera, poi mettevo il portatile in una borsa e indossavo una giacca marrone che mi faceva sembrare un pescatore. Ogni tanto, mentre così imbacuccato mi dirigevo verso la biblioteca pubblica di Gladesville (un sobborgo di Sydney), mi sentivo davvero un po’ pescatore. Sapevo che, una volta arrivato a destinazione, avrei scelto una postazione tranquilla dove i bambini asiatici mi lasciassero tranquillo, avrei attaccato il portatile alla presa e per le successive ore me ne sarei stato paziente e attivo a portare a galla tutte le parole che potevo. Sapevo anche che sarebbe arrivato il giorno in cui quelle stesse parole sarebbero dovute essere ripulite, liberate da tutte le spine e poi cotte insieme a tutto il resto. Per il momento mi bastava solo accumulare parole e frasi e paragrafi finchè la barca non sembrava sprofondare sotto il loro peso. Tutto intorno a me stava crollando e io pescavo paziente. Mi permetteva di restare sano nello sfacelo.
È sempre stato così.
Che poi la vita dello scrittore è strana (e il termine scrittore appiccicato a me è pura licenza poetica). Qualcuno ha detto (forse Bukowski) che scrivere ti getta in spazi troppo ariosi, che alla fine sono difficili da gestire. Che poi, scrivere di che? Scrivere cosa? Non si sa mai fin quando non si comincia, che è cosa sublime e terribile. Lo scrittore si caccia in guai che si crea lui stesso, e che in fondo è l’unico a capirli davvero. Lo scrittore è un uomo terrorizzato da sè stesso, e che in fondo ha solo sè stesso come alleato per combattere quel terrore. È una lotta che non si vince mai, e forse questa mancanza di vittoria e sconfitta mantengono la necessaria tensione per poter affrontare un lungo cammino senza meta e senza premi. Pubblicazioni ed elogi sono solo un ostacolo per quelli che stanno camminando davvero, perchè sono trappole fottutamente seducenti. E’ tutta questione di equilibrio personale. Io non ne ho nessuno ma capisco che gli amici non ti diranno mai che fai schifo. Stanno elogiando te, non la tua storia –come probabilmente è anche giusto che sia. Poi qualche volta capita quella persona che ti dice che l’hai emozionata e sta parlando delle tue parole, non di te.
È per momenti del genere che uno si butta solo le ruote di questo giochino che vuole tutto o niente. Che ti fa rischiare di parlare sempre di vita e di non viverla mai.
Ma non fraintendetemi: sono una persona con pochissima fantasia. Quello che vedo, scrivo. La scrittura non è mai stata una fuga dalla realtà, la creazione di un’altra dimensione, un mondo parallelo. Se c’era anzi un momento in cui sentivo di più che stavo toccando la vita reale, quella del qui e ora, era davanti a questo benedetto Word.
Che poi è un giochino, solo questo. Un tictictic che sembra facile ma non lo è. Che ti disciplina più di una moglie. Che ti responsabilizza e ti apre altri occhi mentre gli altri due sono fissi sullo schermo. Che ti fa fare domande senza darti un cazzo di risposta. Che, quando non è scrivere per scrivere ma stai davvero dicendo qualcosa, allora è perfetto. Perchè di cose da dire ce ne sono. Ne ho un bel po’ e ho ancora un pezzo di notte, il computer acceso e qualcosa da bere.
Non è un gran bel cazzo di giochino?
Perchè le parole in sè e per sè sono corpi inerti, ombre, spermatozoi e ovuli in attesa. Sei tu che devi farle incontrare bene e portarle fino alla gravidanza e al parto, o quantomeno a farle divertire per una notte.
Non c’è sensazione più bella di quella che nasce quando vedi le giuste parole nel giusto ordine. Il corpo inerte che acquista vita. Perle che s’incastrano in una collana irripetibile.
Le parole, quando trovano il loro posto, poi un posto lo danno anche a tutto quello che le circonda. Durante i tre anni di lavorazione di questo libro, il periodo più prolifico è corrisposto a uno dei più difficili, personalmente parlando. Tutto barcollava e le nuvole aumentavano, così l’unica cosa era alzarmi presto ogni mattina (doposbronza permettendo), colazione leggera, poi mettevo il portatile in una borsa e indossavo una giacca marrone che mi faceva sembrare un pescatore. Ogni tanto, mentre così imbacuccato mi dirigevo verso la biblioteca pubblica di Gladesville (un sobborgo di Sydney), mi sentivo davvero un po’ pescatore. Sapevo che, una volta arrivato a destinazione, avrei scelto una postazione tranquilla dove i bambini asiatici mi lasciassero tranquillo, avrei attaccato il portatile alla presa e per le successive ore me ne sarei stato paziente e attivo a portare a galla tutte le parole che potevo. Sapevo anche che sarebbe arrivato il giorno in cui quelle stesse parole sarebbero dovute essere ripulite, liberate da tutte le spine e poi cotte insieme a tutto il resto. Per il momento mi bastava solo accumulare parole e frasi e paragrafi finchè la barca non sembrava sprofondare sotto il loro peso. Tutto intorno a me stava crollando e io pescavo paziente. Mi permetteva di restare sano nello sfacelo.
È sempre stato così.
Che poi la vita dello scrittore è strana (e il termine scrittore appiccicato a me è pura licenza poetica). Qualcuno ha detto (forse Bukowski) che scrivere ti getta in spazi troppo ariosi, che alla fine sono difficili da gestire. Che poi, scrivere di che? Scrivere cosa? Non si sa mai fin quando non si comincia, che è cosa sublime e terribile. Lo scrittore si caccia in guai che si crea lui stesso, e che in fondo è l’unico a capirli davvero. Lo scrittore è un uomo terrorizzato da sè stesso, e che in fondo ha solo sè stesso come alleato per combattere quel terrore. È una lotta che non si vince mai, e forse questa mancanza di vittoria e sconfitta mantengono la necessaria tensione per poter affrontare un lungo cammino senza meta e senza premi. Pubblicazioni ed elogi sono solo un ostacolo per quelli che stanno camminando davvero, perchè sono trappole fottutamente seducenti. E’ tutta questione di equilibrio personale. Io non ne ho nessuno ma capisco che gli amici non ti diranno mai che fai schifo. Stanno elogiando te, non la tua storia –come probabilmente è anche giusto che sia. Poi qualche volta capita quella persona che ti dice che l’hai emozionata e sta parlando delle tue parole, non di te.
È per momenti del genere che uno si butta solo le ruote di questo giochino che vuole tutto o niente. Che ti fa rischiare di parlare sempre di vita e di non viverla mai.
Ma non fraintendetemi: sono una persona con pochissima fantasia. Quello che vedo, scrivo. La scrittura non è mai stata una fuga dalla realtà, la creazione di un’altra dimensione, un mondo parallelo. Se c’era anzi un momento in cui sentivo di più che stavo toccando la vita reale, quella del qui e ora, era davanti a questo benedetto Word.
Che poi è un giochino, solo questo. Un tictictic che sembra facile ma non lo è. Che ti disciplina più di una moglie. Che ti responsabilizza e ti apre altri occhi mentre gli altri due sono fissi sullo schermo. Che ti fa fare domande senza darti un cazzo di risposta. Che, quando non è scrivere per scrivere ma stai davvero dicendo qualcosa, allora è perfetto. Perchè di cose da dire ce ne sono. Ne ho un bel po’ e ho ancora un pezzo di notte, il computer acceso e qualcosa da bere.
Non è un gran bel cazzo di giochino?
lunedì 5 luglio 2010
VIAGGIO
A volte conta il viaggio, più della meta.
Perché ci sono volte che esci di casa e non sai neppure dove andare. Semplicemente ti chiudi il portone alle spalle e di colpo sei sul marciapiede.
Puoi camminare, puoi decidere.
Puoi prendere la direzione di quel posto dove hai quel bellissimo ricordo, puoi andare a trovare un amico che non vedi da tempo, oppure puoi mirare a quel luogo che da sempre ti fa paura.
Incontri persone.
Alcune le eviti, ad altre sorridi. Altre ancora vorresti semplicemente abbracciarle. Così, dal nulla: fermarle e abbracciarle.
Quell'uomo sui quaranta, con la faccia rugosa e abbronzata, che ha i capelli biondi che sembrano finti la camicia blu messa dentro al pantalone bianco. Lui ti farà ridere.
Quella ragazza mora con la pelle bianchissima, con toppino di pelle, minigonna rossa e belle gambe imbrigliate in graffianti calze a rete. Lei ti carezzerà l'istinto.
E così via.
Il bambino che fa cadere la grata appoggiata e che chiede "Chi è stato?", i musicanti spagnoli che ti portano il pensiero nostalgico di Cadiz e Buenos Aires, le birre numerose che si incolonnano come addendi senza mai dare il totale.
Poi accade che il viaggio, anche se solo per quella volta, finisce. E t'accorgi che sei di nuovo davanti a quel portone.
Il viaggio conta sempre più della meta, specialmente quando il punto di arrivo coincide con quello di partenza.
Per quanto poco un viaggio possa valere, può sempre servire almeno a raccontare una storia. Persino a raccontarla male, che va bene lo stesso.
Perché ci sono volte che esci di casa e non sai neppure dove andare. Semplicemente ti chiudi il portone alle spalle e di colpo sei sul marciapiede.
Puoi camminare, puoi decidere.
Puoi prendere la direzione di quel posto dove hai quel bellissimo ricordo, puoi andare a trovare un amico che non vedi da tempo, oppure puoi mirare a quel luogo che da sempre ti fa paura.
Incontri persone.
Alcune le eviti, ad altre sorridi. Altre ancora vorresti semplicemente abbracciarle. Così, dal nulla: fermarle e abbracciarle.
Quell'uomo sui quaranta, con la faccia rugosa e abbronzata, che ha i capelli biondi che sembrano finti la camicia blu messa dentro al pantalone bianco. Lui ti farà ridere.
Quella ragazza mora con la pelle bianchissima, con toppino di pelle, minigonna rossa e belle gambe imbrigliate in graffianti calze a rete. Lei ti carezzerà l'istinto.
E così via.
Il bambino che fa cadere la grata appoggiata e che chiede "Chi è stato?", i musicanti spagnoli che ti portano il pensiero nostalgico di Cadiz e Buenos Aires, le birre numerose che si incolonnano come addendi senza mai dare il totale.
Poi accade che il viaggio, anche se solo per quella volta, finisce. E t'accorgi che sei di nuovo davanti a quel portone.
Il viaggio conta sempre più della meta, specialmente quando il punto di arrivo coincide con quello di partenza.
Per quanto poco un viaggio possa valere, può sempre servire almeno a raccontare una storia. Persino a raccontarla male, che va bene lo stesso.
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