In qualche libro si vede una foto come questa, ma in bianco e nero –e non è una macchina, ma una barca. C’era una moto, prima, ma a quel punto l’avevano già fusa e le avevano fatto il funerale. La Poderosa, si chiamava la moto. Loro si chiamavano Ernesto e Alberto. Il Fuser e Mial.
Nessun paragone –che suonerebbe solo ridicolo. Ci mancherebbe. Il Che era il Che, anche quando non era ancora il Che. Stavo solo pensando. Pensavo che dopo il libro, dopo il film, tutti erano là a dire che era stato quel viaggio lungo, pazzo, inventato lungo l’America Latina a fare del Fuser il Che. Come se il viaggio, le facce, i panorami, le città, tutto gli fosse entrato dentro fino a cambiarlo e a fare di lui quello che oggi vediamo in troppe magliette e in troppe bandiere.
E’ un luogo comune, il fatto che il viaggio sia qualcosa che ti cambia nel profondo. Non importa forse nemmeno che tipo di viaggio sia, basta che si vada, si vada, senza sapere dove, e senza nemmeno volerlo sapere. Passare i compleanni in movimento, spostarsi barcollando, inventare nuovi percorsi, lasciar perdere cartine e mappe illustrate. Tutto serve a non farsi prendere, ma anche a qualcos’altro. Si fugge, si torna, si trova sé stessi, si dimentica sé stessi, si va per lavoro, per amore, per soldi, per fortuna, per andare e basta.
Forse è vero che il viaggio ti cambia. Io non lo so. Credo che certi cambiamenti prima o poi arrivano lo stesso, dovunque ti trovi. Puoi magari non avere il coraggio o la voglia di vederli subito, ma i cambiamenti sono lì. magari il viaggio è solo l’elemento che accelera tutto. Passano i chilometri e tutto si muove dentro di te ome una centrifuga. Perdi i punti di riferimento, ne trovi di nuovi, tutto è in movimento.
Ecco la parolina magica: movimento.
Forse il Che sarebbe stato lo stesso il Che, senza quel viaggio e senza Mial. Chi lo sa? Di sicuro, però, sarebbe stato un Che diverso. Magari oggi non ne sapremmo nulla. Magari sarebbe invece diventato un ragioniere che per le vacanze portava la famiglia in vacanza in Perù. O in Bolivia, magari. Ragioniere Ernesto Guevara. Uno qualunque.
Cambi, nel viaggio, e resti te stesso, anche questo è verissimo. Sei sempre tu, anche in quei quadri nuovi, con colori che mai avresti immaginato. Sei tu che unisci tutti i quadri. Quello che sei stato, quello che sei in quel momento, e una vaga percezione di quello che sarai. Entri nel quadro nuovo, ma sei sempre tu. Ho conosciuto persone che dopo pochi mesi in una città nuova scordavano il loro accento, la loro parlata, e ne imitavano un’altra. Io non li capivo. Io sono sempre io, anche dall’altra parte del mondo. in questi quasi 5 mesi mi è capitato a volte di riprendere dal cassetto ricordi che non sapevo nemmeno più di aver conservato –a volte cose stupide, futili, piccole leggere cazzate. Mi fanno sorridere, anche quando c’è poco da sorridere. Qui posso pescare nel pozzo della mia memoria senza rischiare di caderci dentro. Non c’è nemmeno nostalgia, se non quella per un me stesso che da tempo non esiste più. Ma quel me stesso, qui, non sarebbe esistito comunque –quindi niente funerali, niente lacrime. Quel vecchio me stesso, coi suoi ricordi che ora fanno ridere, mi ha permesso di arrivare fin qui, e in qualche modo me lo fa anche godere di più. Mi tasto il polso, sento le vene, so cosa c’è dentro. Allora posso continuare, e andare dritto. Sono io dall’altra parte del mondo. Ma sarebbe più corretto dire che è il vecchio me stesso, ad essere dall’altra parte del mondo.
Ed è così, socio. Il viaggio, se lo sai prendere dal verso giusto, ti cambia lasciandoti uguale. Il Che sarebbe stato Che lo stesso, ma quel viaggio gli serviva. Prima o poi serve a tutti, inutile negarlo. Serve così tanto che quando finisce ti dici che è un peccato. Guardi indietro i chilometri fatti, pensi ai posti, a quella spiaggia dalla sabbia bianchissima, ai canguri che uscivano al tramonto per farsi guardare, pensi al liquore di 22 anni del nonno, al rosso pazzo che correva verso di noi, pensi al vecchio porco dell’Husky Pub e a quello che si è tirato fuori il cazzo, pensi alla sera che scendeva sui tetti di Melbourne mentre noi là in terrazza ne ordinavamo un altro, e ti dici che è un peccato che tutto questo debba finire, in un qualche punto. Anche se quel momento serve, serve a farsi i propri conti con una birra in mano, a vedere cosa si è guadagnato e cosa si è perso, vorresti che non arrivasse mai.
E in fondo, Mial, chi ha detto che deve finire?
Non esiste un bonus di viaggi che ti fai nella vita e stop. Così, metti su quel cazzo di cd che voi due sentite sempre, quello delle Waifs, mettiti la cintura, e aspetta di vedere in quali altri casini ci andiamo a cacciare –ottobre, domani, ieri, che importa?
Stiamo ancora passando. Questo è quello che conta.
La rivoluzione si fa anche così.
Hasta siempre, socio.
Nessun paragone –che suonerebbe solo ridicolo. Ci mancherebbe. Il Che era il Che, anche quando non era ancora il Che. Stavo solo pensando. Pensavo che dopo il libro, dopo il film, tutti erano là a dire che era stato quel viaggio lungo, pazzo, inventato lungo l’America Latina a fare del Fuser il Che. Come se il viaggio, le facce, i panorami, le città, tutto gli fosse entrato dentro fino a cambiarlo e a fare di lui quello che oggi vediamo in troppe magliette e in troppe bandiere.
E’ un luogo comune, il fatto che il viaggio sia qualcosa che ti cambia nel profondo. Non importa forse nemmeno che tipo di viaggio sia, basta che si vada, si vada, senza sapere dove, e senza nemmeno volerlo sapere. Passare i compleanni in movimento, spostarsi barcollando, inventare nuovi percorsi, lasciar perdere cartine e mappe illustrate. Tutto serve a non farsi prendere, ma anche a qualcos’altro. Si fugge, si torna, si trova sé stessi, si dimentica sé stessi, si va per lavoro, per amore, per soldi, per fortuna, per andare e basta.
Forse è vero che il viaggio ti cambia. Io non lo so. Credo che certi cambiamenti prima o poi arrivano lo stesso, dovunque ti trovi. Puoi magari non avere il coraggio o la voglia di vederli subito, ma i cambiamenti sono lì. magari il viaggio è solo l’elemento che accelera tutto. Passano i chilometri e tutto si muove dentro di te ome una centrifuga. Perdi i punti di riferimento, ne trovi di nuovi, tutto è in movimento.
Ecco la parolina magica: movimento.
Forse il Che sarebbe stato lo stesso il Che, senza quel viaggio e senza Mial. Chi lo sa? Di sicuro, però, sarebbe stato un Che diverso. Magari oggi non ne sapremmo nulla. Magari sarebbe invece diventato un ragioniere che per le vacanze portava la famiglia in vacanza in Perù. O in Bolivia, magari. Ragioniere Ernesto Guevara. Uno qualunque.
Cambi, nel viaggio, e resti te stesso, anche questo è verissimo. Sei sempre tu, anche in quei quadri nuovi, con colori che mai avresti immaginato. Sei tu che unisci tutti i quadri. Quello che sei stato, quello che sei in quel momento, e una vaga percezione di quello che sarai. Entri nel quadro nuovo, ma sei sempre tu. Ho conosciuto persone che dopo pochi mesi in una città nuova scordavano il loro accento, la loro parlata, e ne imitavano un’altra. Io non li capivo. Io sono sempre io, anche dall’altra parte del mondo. in questi quasi 5 mesi mi è capitato a volte di riprendere dal cassetto ricordi che non sapevo nemmeno più di aver conservato –a volte cose stupide, futili, piccole leggere cazzate. Mi fanno sorridere, anche quando c’è poco da sorridere. Qui posso pescare nel pozzo della mia memoria senza rischiare di caderci dentro. Non c’è nemmeno nostalgia, se non quella per un me stesso che da tempo non esiste più. Ma quel me stesso, qui, non sarebbe esistito comunque –quindi niente funerali, niente lacrime. Quel vecchio me stesso, coi suoi ricordi che ora fanno ridere, mi ha permesso di arrivare fin qui, e in qualche modo me lo fa anche godere di più. Mi tasto il polso, sento le vene, so cosa c’è dentro. Allora posso continuare, e andare dritto. Sono io dall’altra parte del mondo. Ma sarebbe più corretto dire che è il vecchio me stesso, ad essere dall’altra parte del mondo.
Ed è così, socio. Il viaggio, se lo sai prendere dal verso giusto, ti cambia lasciandoti uguale. Il Che sarebbe stato Che lo stesso, ma quel viaggio gli serviva. Prima o poi serve a tutti, inutile negarlo. Serve così tanto che quando finisce ti dici che è un peccato. Guardi indietro i chilometri fatti, pensi ai posti, a quella spiaggia dalla sabbia bianchissima, ai canguri che uscivano al tramonto per farsi guardare, pensi al liquore di 22 anni del nonno, al rosso pazzo che correva verso di noi, pensi al vecchio porco dell’Husky Pub e a quello che si è tirato fuori il cazzo, pensi alla sera che scendeva sui tetti di Melbourne mentre noi là in terrazza ne ordinavamo un altro, e ti dici che è un peccato che tutto questo debba finire, in un qualche punto. Anche se quel momento serve, serve a farsi i propri conti con una birra in mano, a vedere cosa si è guadagnato e cosa si è perso, vorresti che non arrivasse mai.
E in fondo, Mial, chi ha detto che deve finire?
Non esiste un bonus di viaggi che ti fai nella vita e stop. Così, metti su quel cazzo di cd che voi due sentite sempre, quello delle Waifs, mettiti la cintura, e aspetta di vedere in quali altri casini ci andiamo a cacciare –ottobre, domani, ieri, che importa?
Stiamo ancora passando. Questo è quello che conta.
La rivoluzione si fa anche così.
Hasta siempre, socio.
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