domenica 22 marzo 2015

Dalla stanza 102: 2015. L'anno del futuro.

L’altro giorno è arrivato dal futuro mio nipote. Dice di essere il figlio di mia figlia. MIA FIGLIA? Ma scherziamo! A parte il fatto che non mi sembra ancora possibile che possa diventare madre un giorno (voglio dire non mi sembra realistica l’idea che possa accettare di rinunciare a questa sorta di indipendenza che faticosamente mi sono guadagnata in questi ultimi anni), ma poi come si può concepire l’idea che nel tempo l’uomo sia riuscito a raggiungere e, addirittura, a superare la velocità della luce e, senza smaterializzarsi, a viaggiare nel tempo? Fatto sta…
Non vi tedio con le varie discussioni familiari che sono intercorse in quelle poche ore in cui Luca, mio nipote, ha, per così dire, soggiornato nel 2015 (spiegarvi la dinamica del viaggio meriterebbe un altro post). Vorrei invece soffermarmi su quanto è emerso dai nostri confronti di natura politica-sociale.

Parlare della crisi del 2015 con lui mi ha fatto venire una gran nostalgia del ‘900 oltre che una gran rabbia nei confronti del fallimento di questo sistema economico (non che non fossi già incazzata di mio, intendiamoci, ma è stato tutto così intenso che inevitabilmente ne sono rimasta sopraffatta). Il progresso della seconda metà del secolo scorso ci aveva indotto a credere che, già dal primo decennio del nuovo millennio, la vita in Occidente sarebbe stata molto più facile di allora. Fortunatamente Luca ha visto “Ritorno al futuro II” per cui credo possa aver capito cosa si aspettava la mia generazione o quella precedente da questi anni. Pensavamo che avremmo avuto autovetture che, tac, in pochi istanti, ci avrebbero risolto il problema del traffico. Probabilmente avrebbero ridimensionato anche il dramma della disoccupazione che stiamo vivendo con tanta angoscia in questo momento: sarebbe stato possibile, infatti, prevedere l’impiego di centinaia di vigili urbani operanti in aria libera su delle specie di monopattini volanti a velocità moderata. Nessun semaforo, nessun dispendio di energia elettrica. Solo un protocollo che avrebbe comportato la gestione del traffico aereo tramite un costante monitoraggio delle posizioni puntuali degli oggetti volanti identificate mediante coordinate GPS. Ovviamente, nel ‘900 non avevamo temuto il problema del riscaldamento globale, dell’inquinamento e di tutta una serie di tematiche ambientali che il progresso avrebbe dovuto scongiurare, anziché alimentare.
Sfortunatamente le cose sono andate diversamente e, tra l’altro, le macchine e i monopattini volanti non sono mai stati inventati. Neanche nel 2085. Ecco, quello “sfortunatamente” rientra nello stato d’animo nostalgico che mi procura il parlare oggi di “crisi economica”. In verità, accidenti, le cose sono andate diversamente, stupidamente, e dovrei essere decisamente più incazzata che triste. La leggerezza degli anni ’80 e degli anni ’90 del novecento ha permesso che le innovazioni tecnologiche ottenute e i diritti sociali acquisiti andassero a farsi benedire in nome di ambizioni egoistiche di pochi selezionati potenti.
La cosa più triste del vivere oggi nel 2015 è sapere di aver perso quello stato di agio che mediamente le famiglie occidentali avevano raggiunto con il boom economico del dopoguerra e di averlo perso anche per i nostri figli. Non siamo riusciti ad organizzare delle rivoluzioni che potessero evitare tutto questo.

Luca fa parte di quella generazione che non ha mai avuto modo di vivere una forma di agio mediamente diffusa nel nostro Paese. Nel 2085, contrariamente a quello che pensiamo, la popolazione mondiale è diminuita, attestandosi a poco più di 5 miliardi di persone. L’aumento della povertà dei ceti, che una volta erano medi in Europa, ha creato un livello di anarchia e delinquenza tale da non essere più ritenuto sostenibile dai governi dei Paesi più sviluppati. I pochi selezionati potenti, sempre più ricchi, hanno studiato a tavolino un modo per risolvere il problema, pianificando dei veri e propri genocidi. Questa verità è emersa solo nel 2081. L’annientamento di milioni di persone, tali da arrivare a quasi due miliardi, era stato infatti sempre mascherato da fortuiti disastri ambientali.

Vi assicuro che non è facile arrivare al punto della questione. Luca è tornato in questi giorni per avvisarmi con un po’ di anticipo di lasciare Roma nell’ottobre del 2021. “Ci sarà un disastro per la caduta di un meteorite, vi diranno”. Luca mi ha messo i brividi. Dice che perderò una mano. Nonostante i brividi, ho  reagito con una fragorosa risata. A volte il corpo reagisce in modo esattamente contrario a quanto il nostro cervello vorrebbe. Ho avuto una sorta di crisi nervosa, insomma. La prima della mia vita. Poco dopo, Luca è andato in bagno e non ne è più uscito.

Insomma, ora so che ho solo sei anni di tempo per predisporre le basi di una rivoluzione che rimarrà nella storia del continente europeo, tale da poterne cambiare le sorti.






giovedì 19 marzo 2015

"L'idiota", Fedor Dostoevskij

C’è anche chi mi crede un idiota, non ho mai scoperto perché. In verità, sono stato talmente malato da non essere molto diverso da un idiota; ma com’è possibile che sia idiota anche adesso, quando, io per primo, mi accorgo che la gente mi considera tale? Io entro e penso: “Mi credono idiota, ma io sono intelligente, e loro non lo sospettano nemmeno.

Qualcuno di voi dava per spacciate le solite, non richieste recensioni, o pensava (sperava) che avessi deciso di rinunciare. La realtà è che ero alle prese con le 840 pagine de L’idiota di Dostoevskij (Mondadori).
Se, recensendo Bukowski, ero in imbarazzo perchè ad un compagno di sbronze vuoi bene a prescindere, senza stare troppo ad analizzarlo, con Dosto tutto questo è amplificato all’ennesima potenza. Io che scrivo di Dostoevskij è come un bambino che sa disegnare solo omini stilizzati e case col camino che fuma, che si mette a disquisire di Caravaggio. Siamo nel fantascientifico qui, e non lo dichiaro per complesso di inferiorità, ma come un puro semplice dato di fatto, che possa spiegare lo spirito con il quale mi appresto a questa ardua recensione.

Intanto, le basi. Visto che, come sanno tutti gli amici del Morgana, sono uno con cronici problemi di tempo (non ne ho mai abbastanza da sprecare come vorrei), perchè un tomo del genere?
Leggevo tantissimo Dostoevskij all’università. Adesso, provo a dilazionare i libri suoi che mi sono rimasti. Perchè questo è importante? Perchè Dostoevskij non è uno scrittore che si legge sempre, e non solo per la lunghezza e la (vera o presunta) difficoltà del testo. Per leggere e soprattutto apprezzare Dosto, vi sono momenti particolari. In questo, mi sono perfettamente rivisto nel saggio che Herman Hesse ha dedicato a questo libro: “(...) Dobbiamo leggere Dostoevskij quando ci sentiamo a terra, quando abbiamo sofferto sino ai limiti del tollerabile e tutta la vita ci duole come un’unica piaga bruciante e cocente, quando respiriamo la disperazione e siamo morti di mille morti sconsolate. Allora, nel momento in cui –soli e paralizzati in mezzo allo squallore- volgiamo lo sguardo alla vita e non la comprendiamo nella sua splendida, selvaggia crudeltà e non ne vogliamo più sapere, allora, ecco, siamo maturi per la musica di questo terribile e magnifico poeta (...)
Ecco, direi che ho scelto il momento giusto.
E questo spiega anche come mai ho letto tanto Dosto nei mie vent’anni –ma questa, come si dice, è un’altra storia...
Questo passaggio rivela uno dei punti di forza della scrittura di quest’autore: il coraggio, l’intuizione, la potenza con cui, attraverso le sue parole, ci fa discendere in un inferno che è allo stesso tempo estremamente personale e del tutto universale. E’ una forza che ti cattura, pagina dopo pagina, e che ti attira facendo appello ad un livello ben al di sotto della coscienza. Qualcuno ha detto che è incredibile come uno scrittore che, a prima vista, scrive così male –con le sue iperdescrizioni, i suoi tempi lenti e dilatati, la sua mania per i dettagli- poi abbia in sè tutto quello che serve.
E Dostoevskij, indubbiamente, ce l’ha.

Tornando all’ “Idiota”, è importante, come spesso nella sua produzione, dare un’occhiata anche al percorso biografico che l’ha portato a maturare quest’opera. Il Dosto pre-Idiota è uno scrittore che ha già pubblicato quelli che diverranno capolavori assoluti come “Delitto e castigo” (della serie: e scusate se è poco), ma lo stesso è attanagliato dai debiti. La sua vita personale è stata costellata da fughe, ritorni, amanti, dalla sua passione per la roulette, e soprattutto dall’esperienza del carcere in Siberia e della quasi-fucilazione (era già stato messo al muro, col plotone pronto a sparare, quando era arrivata la notizia del tramutamento della pena di morte in quella carceraria). Insomma, roba da riempirci libri interi solo con le sue memorie. Il buon vecchio Dosto avrebbe avuto di storie da raccontarne, al bar del Morgana...
Immerso nei debiti e con l’epilessia che andava aggravandosi, Dosto si preparò a scrivere questo romanzo. Lo fece come sempre nella sua vita: aveva bene in mente il messaggio di fondo, ma sapeva poco e niente dello sviluppo della trama. Semplicemente, cercava di mettere insieme più pagine possibili (come da contratto) da mandare alle riviste che l’avrebbero pubblicato (il che spiega anche parzialmente il perchè di tanti passaggi che sembrano allungare inutilmente). Nel frattempo, si giocava alla roulette l’anticipo che gli era stato dato dalle riviste, sperando di vincere abbastanza per non dover sottostare alle regole del contratto. Ovviamente, non faceva che perdere ed invischiarsi sempre più, con le scadenze vicine e nessuna idea sul come andare avanti.
Dosto aveva diversi demoni, come tutti noi, e li conosceva anche parecchio bene, anche se spesso faceva finta di non saperne niente. Non riusciva a scrivere se non sotto quella pressione, con la spinta di adrenalina (ma ve lo immaginate Dostoevskij con l’adrenalina a mille?) che gli dava il trovarsi con le spalle al muro. Forse perchè ci si era già trovato, con i fucili puntati addosso, e tutto quello che ne era seguito sembrava sempre smorzato, poco importante. Forse perchè, semplicemente, era un modo per incastrare i suoi demoni e permettergli di fare quello che voleva. Per arrivare alla libertà, doveva trovarsi incatenato nelle sue più profonde prigioni. Per gustarsi un cielo limpido, doveva sempre partire da un sottosuolo.
Così Dosto decise di scrivere “L’idiota” in sei mesi, un tempo che sembrerebbe folle per un lavoro di questo genere. Avrebbe potuto prendersi tutto il tempo che voleva, eppure faceva sempre in modo, incosciamente, di trovarsi in queste situazioni (dovrei imparare da lui...).
“L’idiota” segue le vicissitudini del principe Myskin dopo il suo arrivo a Pietroburgo in seguito ad una misteriosa malattia che lo riduceva, appunto, ad un idiota. In una tipica giornata da romanzo dostoevskijano, che dura qualcosa come 450 pagine (meno di 24 ore!), incontra una serie di personaggi, dal suo “rivale” Rogozin, alla bella Nastassja, alle Epancin... Nel dramma di Dosto entrano tantissime figure, che spesso sembrano meno che marginali all’inizio, ma una alla volta prendono il centro del palcoscenico mostrando quello che l’autore vuole farci vedere: i loro sogni infranti, le loro aspirazioni fuorvianti, i loro demoni. Nelle oltre ottocento pagine incontriamo un circo intero di persone che vorticano intorno alla figura del principe-idiota, tra lunghi dialoghi e improvvisi colpi di scena. L’azione, a dire la verità abbastanza statica per gran parte del libro, diventa frenetica nelle ultime 80 pagine, fino ad una conclusione in sè non difficile da immaginare, ma che lascia aperte mille porte su tutto quello a cui abbiamo assistito fin lì. Chi era davvero il principe? Qual era il suo rapporto con Rogozin? Che ruolo aveva la bella Aglaja?
Se pensate che starò ad ad avventurarmi nell’analisi del significato dei personaggi e dei vari passaggi del libro, siete decisamente fuori strada. Questo non è un saggio, e in fondo nemmeno una recensione, ma qualche pensiero in libertà su quello che, indubbiamente, è un libro ricco e carico di significati come qualunque cosa che abbia scritto quest’uomo, pace all’anima sua e alla sua barba. Sulla figura del principe-idiota, l’intento di Dostoevskij era quello di dare una vita ad un personaggio “assolutamente buono”. Tra i suoi appunti, lo indica come una rappresentazione del Cristo –come spesso indicato nelle varie analisi del romanzo. Il compito che si era preposto era, quindi, ambizioso e per niente semplice. Posso solo dire che il Cristo di Dosto, un Cristo al quale arriva dopo essere quasi morto, dopo aver guardato l’abisso fino a poterlo descrivere, dopo aver sfidato costantemente i suoi limiti, è un Cristo interessante come pochi, e che si lascia ascoltare con piacere.
Come faccio ad uscirmene da questa recensione, accidenti? Mmm... proviamo a chiuderla... Cosa ho pensato di questo libro, dite (come se ve ne fregasse qualcosa)?
Non l’ho amato particolarmente, e non credo sia al livello di altre sue opere. Non è ricco come I fratelli Karamazov (il mio preferito, di una complessità tale che lo rende uno dei libri che dovreste portarvi su un’isola deserta insieme alla vostra Playstation), non ha la carica sociale dei Demoni, nè la poesia estrema delle Memorie dal sottosuolo. Si lascia leggere, ma meno di un Delitto e castigo, e per lunghi tratti ci sono personaggi e situazioni che non rivestono, a mio parere, particolare interesse. Alcuni personaggi sono molto riusciti, altri meno. Il principe, che era il compito più difficile da realizzare, credo sia uno dei personaggi più azzeccati tra tutti quelli creati da Dosto, seppur immerso in un libro dove non si parteggia per qualcuno come si faceva nei Karamazov o altrove. Abbiamo la sensazione di scoprire insieme all’autore cosa succederà, le varie svolte della trama, e questo da un bel senso di freschezza. Lo stesso autore abbatte spesso la “quarta parete”, rivolgendosi direttamente al lettore, come se entrambi stessero assistendo allo stesso spettacolo. Inoltre ci sono dei passaggi notevoli. L’idiota è uno dei romanzi più autobiografici di Dosto. Non per niente il protagonista soffre di disturbi simili all’epilessia e si trovava all’estero come Dosto mentre scriveva il libro (per fuggire dai debiti, finì poi il manoscritto a Firenze). Il pezzo in cui descrive la sensazione che prova un condannato a morte che si avvicina al patibolo è monumentale, soprattutto perchè sappiamo che non si tratta, nel suo caso, di fiction.
In ultima, un libro che, nonostante i difetti, dà sicuramente parecchie piste a molti classici dell’epoca (e non solo). Non lo sceglierei come primo libro se vi state accostando a Dosto, e sicuramente è importante che le corde della vostra anima vibrino ad una frequenza simile a quella evocata dall’autore (che stiate passando un periodo un po’ di merda, insomma).
Ok, basta così. Chiedo umilmente scusa, Maestro, ed esco a capo chino e pronto a inginocchiarmi sui ceci e a scrivere ancora le mie storielle sconce e le mie recensioni sottosopra.
Abbia pietà per noi che non siamo degni, Maestro, e ci metta una buona parolina se può.
Distinti saluti,
Zango

Consigliato a:
chi ama Dostoevskij, i grandi scrittori dell’Ottocento, specie i russi; chi non si stanca mai dei grandi classici; chi si trova in un umore “da Dostoevskij”



mercoledì 4 marzo 2015

Retrogaming

Avevo resistito ad ogni tipo di nostalgia. Mi faceva un po’ senso e un po’ ridere, pensare che stavano cercando di vedermi il mio passato spacciandomelo per buono, con qualche fiocco piantato qui e lì. Di ricordi belli e brutti ne ho come tutti, ma ho assistito troppe volte alle degenerazioni a cui porta l’idealizzazione dei giorni che furono. Gente che allora sopravviveva giorno per giorno, maledicendo l’adolescenza e tutto quello che comportava, e adesso si incontra e dice –AH, QUELLI SI’ CHE ERANO BEI TEMPI!
Ma ognuno si sceglie la sua morte, e se riscrivere il passato serve loro a dormire la notte, amen.
Per quanto mi riguardava, resistevo ad ogni tipo di revival, di rigurgito vintage. Non me ne fregava niente di Beverly Hills o dei pantaloni a vita bassa. Soprattutto, non vedevo un NOI con cui identificarmi: i miei anni Novanta erano stati diversi, tutto lì.
Poi, qualche giorno fa, il mio amico Miky ha postato un articolo riguardante The Games Machine, la SECONDA rivista di videogiochi dei primi anni ’90. L’ho letto, ne ho parlato con lui, un discorso tira l’altro, e qualche ora dopo ero davanti al computer guardando tutorial su Youtube, per capire come minchia far funzionare l’emulatore (che, per chi non lo sapesse –come me prima- serve a far andare i vecchi giochi sui nuovi computer). Anche solo vedere il led del Dos, in attesa di istruzioni, è stata una scossa di –ahimè- nostalgia.

E dire che il Dos arrivava per me in una fase avanzatissima della mia intensa vita passata da videosmanettone. Ho vaghi ricordi di come il Commodore 64 fece la sua comparsa a casa mia, ma ricordo benissimo che sconvolse completamente il mio tempo libero. Era come se quel futuro visto tante volte in tv, fosse finalmente arrivato. Le ore infinite passate ad aspettare che caricasse la cassettina (e spesso non caricava bene e bisognava ricominciare daccapo). La tv che da un certo punto in poi impazzì e mi costrinse a giocare a International Soccer con lo schermo in varie tonalità di rosa. I floppy grossi come banconote degli anni Cinquanta. Le cassettine comprate all’edicola, con dentro 100 giochi 100, di cui 99 facevano assolutamente cagare, ma poi trovavi quell’unico giochino che sembrava essere stato messo lì dai programmatori solo per te, come un segreto condiviso con lo schermo rosa, e allora te lo portavi dietro per anni.

Alle medie arrivò l’Amiga, che sembrava andare anche oltre il futuro. Ricordo quel giorno di giugno, mio padre che sollevava la scatola ed io che vedevo quella tecnologia facendo oooh come i bambini di Povia.
Con l’Amiga, la mia carriera da videogiocatore entrò nella fase da scimmia in spalla. Con Miky, Gaetano e Giampiero passavamo i pomeriggi da Office al Duomo, a comprare floppy su floppy di giochi vecchi e nuovi stampati su liste in perfetto ordine non alfabetico. Passavamo così tanto tempo lì dentro che avevamo dato un nomignolo ad ognuno: il Rossino, il Gellaro, Dentone... Dopo il dominio delle console, erano arrivati gli anni del boom dei videogiochi per home computer. Per capirci qualcosa, un giorno all’edicola comprai il mio primo numero di K, poi Miky mi seguì a ruota.
K non era solo una rivista di giochi, ma parlava di un’intera filosofia di vita –quella che, senza saperlo, ci eravamo scelti al momento. Il mondo dei videogiocatori nei primi anni ‘90 si divideva tra chi aveva l’Amiga e chi il Pc, chi preferiva i platform e chi le avventure grafiche, perfino tra chi leggeva K e chi TGM (a tutt’oggi non ho capito come la gente potesse leggere quella merda di TGM), eppure avevamo tutti in comune due cose: una quantità ENORME di tempo libero, e la curiosità.
Avevamo resistito alle peggiori schifezze che ci avevano propinato, e adesso entravamo in un mondo fatto di Monkey Island, Populous e Sensible Soccer. Non giocavamo solo per occupare il tempo, e non ci concentravamo solo su un gioco. Volevamo scoprire, vedere, provare. Dieci anni prima non esistevano nemmeno, gli home computer, e adesso sulle schermo si vedevano delle opere d’arte.
Mentre la Russia cadeva, la Germania si univa e la Prima Repubblica in Italia si sfracellava sotto gli inizi di Tangentopoli, noi giocavamo. Tutto stava cambiando intorno, in un'epoca ingenua che stava imparando per la prima volta la malizia, e noi giocavamo. Nonostante le accese dispute sulle pagine di K tra video-alienati, noi non stavamo fuggendo. Sentivamo che tutto mutava, anche nelle nostre vite –piano, ancora molto piano- ma noi eravamo tutti presi dallo schermo. Non era solo un hobby. Ricordo la sensazione del provare un nuovo gioco, del non sapere cosa aspettarmi, di confrontarmi poi con gli altri. Era la stessa che provavo quando compravo un cd musicale -e a quel tempo, con zero moneta in tasca, li compravi col contagocce, prendevi solo QUELLI che volevi, e te li ascoltavi e riascoltavi fino a consumare il disco. Era una sensazione di SCOPERTA, di trovare qualcosa che fosse TUO e che parlasse direttamente a TE.
Alla fine pero' cedetti a quelli che dicevano che dovevo fare qualcosa di piu' serio della mia vita e smisi di giocare.

Eppure adesso, nel 2015, risfogliando online i vecchi numeri di K o giocando ai vecchi giochi sull’emulatore, vedo le cose in altra maniera. Forse abbiamo davvero passato troppe ore davanti allo schermo (e ancora nelle orecchie sento mia madre urlare che la cena è pronta da mezz’ora ed io, dieci minuti mamma, solo dieci minuti e arrivo...). Però sapete cosa? Ci stava. Quelli eravamo noi, o meglio, noi siamo stati ANCHE quello. Abbiamo solo fatto giochetti del cazzo, se volete, o abbiamo anche vissuto un momento stimolante della tecnologia mondiale.
E poi, in fondo, voi facevate qualcosa di più furbo?
No, non mi sentirete dire AH, QUELLI ERANO BEI TEMPI. Ma come detto prima, ho ricordi belli e brutti. Ricordo le ore passate con mio fratello, ipnotizzati da Populous o a scannarci con Dynablaster. Ricordo i pomeriggi passati con Miky e gli altri a casa di qualcuno di noi, a cercare di capire come finire quel cacchio di Indiana Jones 3. Ricordo le partite a Jimmy White Snooker con mio nonno, o quelle a Pinball Dreams con mio padre. Ricordo i tentativi con Miky di fare il gol definitivo a Sensible Soccer, massacrando un joystick dietro l’altro. Ricordo che l’influenza era solo una scusa per giocare a Cannon Fodder, e che non era Natale se non passavo il pomeriggio a cercare di finire l’ultima avventura della Lucas. Ricordo la lettera da spedire a K, sul fatto che Kick Off facesse schifo, che io e Miky abbiamo cominciato mille volte e non abbiamo mai finito. Ricordo che parlavamo dei redattori della rivista come fossero gente che conoscevamo davvero, e che ora ritroviamo su Twitter. Loro, a quei tempi, avevano l’età che abbiamo noi adesso.
Adesso, che sono passati venti anni da allora.

Venti anni prima di quel 1992, non esistevano (quasi) videogiochi. Ci sembrava un tempo immenso, che finiva in un passato così remoto da diventare preistoria.
Adesso che sono passati 20 anni, non sembra certo che siano stati pochi, ma nemmeno tanti come immaginavamo. A pensarci, è comunque un bel po’ di tempo. Ed è quello che mi manca davvero di allora (oltre a qualcuno che non c’è più): il tempo. Averne a disposizione così tanto come allora, senza sapere quanto prezioso sarebbe diventato. Il tempo a disposizione davanti, tutto quel cazzo di tempo, da usare costruttivamente o da grattarci la schiena, da accarezzare o da strangolare, da bruciare o da conservare. 20 anni, 20 cazzo di anni.
No, non sono stati bei tempi, ma sono davvero contento che ci siano stati, e che ci sia stata tutta quella gente insieme a me. Ogni partita è stata ben spesa, perfino a quella ciofeca di Double Dragon.
E poi c’è sempre tempo per parlare del tempo.
Ora scusatemi, vado a vedere che combina Guybrush Treepwood su quella cazzo di isola.

Never stop playing.