Quando siamo fortunati
sentiamo l'odore del fiume
salire fin qui
carezzarci fronti sudate dall'amore
spianare rughe
disperdere pensieri
Quando siamo fortunati
il cielo si prende una pausa, e anche noi
risate di angeli & ghiaccio che
tintinna nei bicchieri
movimenti leggeri, consapevoli
tregua
Quando siamo fortunati
ci rendiamo conto di esserlo
piu' spesso di quanto
ci rendiamo conto
Ogni distrazione, ogni sussulto
ogni ultima preoccupazione prima di
dormire
restano chiusi fuori
dal nostro tramonto personale
Quando siamo fortunati
siamo svegli
e pronti a
sognare.
Marco Zangari © 2014
venerdì 19 dicembre 2014
domenica 30 novembre 2014
"Arrangiati, Malinconico", Diego De Silva
Se dovessi indicare il principale dei miei difetti, quello di cui più avverto la ricorrenza nei rapporti che instauro con gli altri, direi che è la mia tendenza a rimuginare. Io rimugino tantissimo. Quando cammino. Quando lavoro. Quando mi diverto. Quando mi compiango. Quando faccio l’amore. Soprattutto quando non lo faccio (...).
Bene, io faccio di peggio: a volte mi lascio prendere tanto dai rimuginamenti che addirittura scrivo. Riempio cartelle di Word nella speranza di trovare le parole giuste per fissare un punto di vista e tendenzialmente non cambiarlo più. Faccio notte, quando proprio mi fisso. E poi mi dico: “Ma sei scemo, cosa devi scrivere, un libro?”
E un libro, l’avvocato Malinconico, l’ha scritto davvero, anzi ne ha scritti tre, usando la penna di Diego De Silva (chi è l’alter ego di chi?). I tre libri, “Non avevo capito bene”, “Mia suocera beve” e “Sono contrario alle emozioni”, si possono trovare riuniti nella massiccia antologia, dal titolo inequivocabile di “Arrangiati, Malinconico” (Einaudi).
Nei tre libri seguiamo appunto l’avvocato napoletano Vincenzo Malinconico e i suoi rimuginamenti, che come detto all’inizio, sono così tanti che a volte sono messi in primo piano rispetto alla storia –che è abbastanza lineare nel primo libro, più sviluppata e complessa nel secondo, e pressochè inesistente nel terzo, dove sembra prevalere il mondo mentale di Malinconico, le sue paure, le sue ansie, e soprattutto la sua ironia pungente, rispetto alla trama.
Poco importante, comunque. Qualunque cosa succeda intorno, che si tratti di difendere un camorrista o di trovarsi impelagato in uno sequestro di persona in un supermercato, in pieno stile reality, la star è sempre Malinconico –e, appunto, i suoi rimuginamenti.
De Silva ha il merito di costruire un personaggio che funziona, che ispira subito simpatia e con il quale ci si trova d’accordo anche quando non si è del tutto d’accordo. Tramite la verve e la tendenza a pensare e ripensare tutto di Malinconico, riesce a mettere insieme questioni serie (la camorra, la giustizia in Italia) con altre molto più leggere, massacrando a suon di risate i personaggi e il mondo che gli vorticano intorno. Il mix di questi due registri, di un tono alto e basso, unito ad una scrittura semplice ma non banale, permette una lettura molto scorrevole, nonostante le quasi 800 pagine complessive dei 3 libri.
La cosa che colpisce è che, col progredire delle pagine, si finisce irrimediabilmente per fare il tifo per Malinconico. Eppure Malinconico non ha niente dell’eroe, e forse nemmeno dell’antieroe: sbaglia, travisa, si parla addosso, congettura troppo, non è sicuramente troppo ferrato sulle relazioni umane, e non si può esattamente definire un uomo in carriera. Ma proprio per questo, riesce a portarci dalla sua parte: per la sua parte più umana, piena di difetti di cui, a volte, è anche consapevole, ma non sa come venirne a capo. Però ci riflette, e riflettendoci porta anche noi a pensarci sopra. Parla delle piccole guerre quotidiane che sono le stesse nostre, quelle che di solito passano inosservate, nel lirismo cieco di troppa letteratura. Odio le definizioni, ma Malinconico è pop, così pop che si permette, appunto, di prendere in esame alcuni pezzi storici del pop, e alcuni suoi esponenti, facendoli diventare protagonisti di capitoli interi del libro. Sebbene a volte appesantisca un po’ la lettura, anche questa scelta si incastra bene nelle varie teorie sulla vita dell’avvocato.
É raro trovare un libro divertente (alcuni brani, come quello sui “trasferiti” di ritorno alla loro città natale, sono esilaranti), che non sia anche stupido, o peggio, che non faccia ridere, risultando alla fine triste e patetico come un comico che non funziona.
Visto che qui nessuno mi paga per voler bene a tutti, bisogna notare come alcuni passaggi risultano troppo lunghi e forzati rispetto all’andamento della storia, cosi' come la ricerca di una frase ad effetto. L’ultimo libro, “Sono contrario alle emozioni”, si discosta parecchio dal tono dei primi due, quindi chi si aspetta un proseguimento della storia, potrebbe restare deluso.
In ogni caso, è un libro che vi accompagnerà con piacere, e vi terrà compagnia. A me l’umorismo dell’avvocato Malinconico (non posso fare a meno di chiamarlo così, come se il suo titolo professionale fosse imprescindibile dal personaggio) ha fatto venire un po’ nostalgia. Da emigrante, al di là di pasta pizza e sole, mi mancano alcuni aspetti del nostro essere italiani, aspetti meno evidenti, difficili da spiegare, di quelli che sai che trovi solo in un certo posto. L’ironia strafottente di Malinconico è qualcosa che è difficile appunto da descrivere, ma fa parte di un certo carattere italiano, qualcosa che è difficile riscontrare altrove. Un misto di cialtroneria, autocompiangimento e acume, un modo per smontare ridendo la vita che ci è capitata, provando a renderla meno difficile di quello che già è.
Leggetelo per il motivo più semplice e importante: bisogna farsela una risata ogni tanto.
Soprattutto su noi stessi.
Consigliato a:
chi cerca un libro leggero ma non stupido; chi cerca una lettura da mare o da tram, intermittente, dove i personaggi restano lì tranquilli ad aspettarti; a chi si ricorda ancora cos’è l’ironia.
Bene, io faccio di peggio: a volte mi lascio prendere tanto dai rimuginamenti che addirittura scrivo. Riempio cartelle di Word nella speranza di trovare le parole giuste per fissare un punto di vista e tendenzialmente non cambiarlo più. Faccio notte, quando proprio mi fisso. E poi mi dico: “Ma sei scemo, cosa devi scrivere, un libro?”
E un libro, l’avvocato Malinconico, l’ha scritto davvero, anzi ne ha scritti tre, usando la penna di Diego De Silva (chi è l’alter ego di chi?). I tre libri, “Non avevo capito bene”, “Mia suocera beve” e “Sono contrario alle emozioni”, si possono trovare riuniti nella massiccia antologia, dal titolo inequivocabile di “Arrangiati, Malinconico” (Einaudi).
Nei tre libri seguiamo appunto l’avvocato napoletano Vincenzo Malinconico e i suoi rimuginamenti, che come detto all’inizio, sono così tanti che a volte sono messi in primo piano rispetto alla storia –che è abbastanza lineare nel primo libro, più sviluppata e complessa nel secondo, e pressochè inesistente nel terzo, dove sembra prevalere il mondo mentale di Malinconico, le sue paure, le sue ansie, e soprattutto la sua ironia pungente, rispetto alla trama.
Poco importante, comunque. Qualunque cosa succeda intorno, che si tratti di difendere un camorrista o di trovarsi impelagato in uno sequestro di persona in un supermercato, in pieno stile reality, la star è sempre Malinconico –e, appunto, i suoi rimuginamenti.
De Silva ha il merito di costruire un personaggio che funziona, che ispira subito simpatia e con il quale ci si trova d’accordo anche quando non si è del tutto d’accordo. Tramite la verve e la tendenza a pensare e ripensare tutto di Malinconico, riesce a mettere insieme questioni serie (la camorra, la giustizia in Italia) con altre molto più leggere, massacrando a suon di risate i personaggi e il mondo che gli vorticano intorno. Il mix di questi due registri, di un tono alto e basso, unito ad una scrittura semplice ma non banale, permette una lettura molto scorrevole, nonostante le quasi 800 pagine complessive dei 3 libri.
La cosa che colpisce è che, col progredire delle pagine, si finisce irrimediabilmente per fare il tifo per Malinconico. Eppure Malinconico non ha niente dell’eroe, e forse nemmeno dell’antieroe: sbaglia, travisa, si parla addosso, congettura troppo, non è sicuramente troppo ferrato sulle relazioni umane, e non si può esattamente definire un uomo in carriera. Ma proprio per questo, riesce a portarci dalla sua parte: per la sua parte più umana, piena di difetti di cui, a volte, è anche consapevole, ma non sa come venirne a capo. Però ci riflette, e riflettendoci porta anche noi a pensarci sopra. Parla delle piccole guerre quotidiane che sono le stesse nostre, quelle che di solito passano inosservate, nel lirismo cieco di troppa letteratura. Odio le definizioni, ma Malinconico è pop, così pop che si permette, appunto, di prendere in esame alcuni pezzi storici del pop, e alcuni suoi esponenti, facendoli diventare protagonisti di capitoli interi del libro. Sebbene a volte appesantisca un po’ la lettura, anche questa scelta si incastra bene nelle varie teorie sulla vita dell’avvocato.
É raro trovare un libro divertente (alcuni brani, come quello sui “trasferiti” di ritorno alla loro città natale, sono esilaranti), che non sia anche stupido, o peggio, che non faccia ridere, risultando alla fine triste e patetico come un comico che non funziona.
Visto che qui nessuno mi paga per voler bene a tutti, bisogna notare come alcuni passaggi risultano troppo lunghi e forzati rispetto all’andamento della storia, cosi' come la ricerca di una frase ad effetto. L’ultimo libro, “Sono contrario alle emozioni”, si discosta parecchio dal tono dei primi due, quindi chi si aspetta un proseguimento della storia, potrebbe restare deluso.
In ogni caso, è un libro che vi accompagnerà con piacere, e vi terrà compagnia. A me l’umorismo dell’avvocato Malinconico (non posso fare a meno di chiamarlo così, come se il suo titolo professionale fosse imprescindibile dal personaggio) ha fatto venire un po’ nostalgia. Da emigrante, al di là di pasta pizza e sole, mi mancano alcuni aspetti del nostro essere italiani, aspetti meno evidenti, difficili da spiegare, di quelli che sai che trovi solo in un certo posto. L’ironia strafottente di Malinconico è qualcosa che è difficile appunto da descrivere, ma fa parte di un certo carattere italiano, qualcosa che è difficile riscontrare altrove. Un misto di cialtroneria, autocompiangimento e acume, un modo per smontare ridendo la vita che ci è capitata, provando a renderla meno difficile di quello che già è.
Leggetelo per il motivo più semplice e importante: bisogna farsela una risata ogni tanto.
Soprattutto su noi stessi.
Consigliato a:
chi cerca un libro leggero ma non stupido; chi cerca una lettura da mare o da tram, intermittente, dove i personaggi restano lì tranquilli ad aspettarti; a chi si ricorda ancora cos’è l’ironia.
lunedì 24 novembre 2014
"Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze", Charles Bukowski
Essere scrittori danna l’anima ed è difficile. Se hai talento può lasciarti in una notte di sonno. Ciò che ti fa andare avanti nel gioco non è facile a dirsi. Troppo successo è distruttivo; la mancanza di successo è distruttiva. Un piccolo rifiuto può fare bene all’anima, ma il rifiuto totale crea bisbetici e pazzi, stupratori, sadici, ubriaconi e poeti mancati che picchiano le mogli. Tanto quanto fa il troppo successo.
Anch’io sono stato fuorviato dal concetto romantico della scrittura. Da giovane ho visto troppi film sul grande Artista, e lo scrittore era sempre un tizio tragico e dannatamente interessante con un bel pizzetto, occhi lucenti e verità profonde che gli scaturivano continuamente dalla bocca. Che bello essere così, pensavo, ah. Ma non è così.
Bukowski. Cazzo, lo sapevo che non dovevo cominciare ‘sta cosa delle recensioni. Come diavolo si fa a parlare di Bukowski?
Lo stesso Buk, scrivendo una prefazione per “Chiedi alla polvere” di John Fante, disse: “Fante era il mio dio e io sapevo che gli dèi vanno lasciati in pace, non si andava a bussare alla loro porta”.
Ecco, mi sento più o meno così.
Per parlarne, tratterò di qualcosa che non c’entra niente, una storiella lunga e noiosa che mi permetterà di riempire questo post.
Come alcuni di voi sapranno, nel 2008 ho pubblicato un racconto in una piccola antologia di una casa editrice pressochè sconosciuta. Decisamente non sono ancora molto vicino al Nobel, ma in quel momento mi sembrava una gran bella cosa.
C’erano altri ragazzi in quella antologia, tra cui questo tizio che aveva scritto un racconto dove il protagonista era un super duro che gioca a carte tutta la notte, si guarda qualche tetta nella pubblicità notturne e poi decide di buttarsi dal balcone perchè era malato. Il salto del tizio era completamente imprevisto, e probabilmente qualcuno che ha letto troppo Welsh e troppo Palahniuk (travisandoli completamente) avrà pensato che un bel colpo di scena così avrebbe scioccato il lettore. Io mi sento solo preso in giro. Leggo, e penso ad uno che flette i muscoli senza avere dentro di sè, nei suoi occhi, neanche il coraggio di una minuscola rissa da pub. Ancora una volta, c’è il talento, e poi ci sono i trucchetti.
Bene, questo tizio mi aggiunse come amico su Facebook per qualche motivo. Lo vedevo postare ogni tanto le sue cose maledette, piene di roba dura e parolacce. Mi limitavo a scorrerle. Quasi preferivo i video dei gatti. Mi dimenticai completamente di lui, e non ci parlai mai.
Poi un giorno misi sulla mia pagina Fb qualcosa sul nostro caro Benedetto 16. Doveva essere un “Suca Benedetto” se non ricordo male (era il periodo dei Suca ai personaggi famosi, una di quelle mode del cazzo che però ogni tanto mi facevano ridacchiare mentre tornavo da un turno di 10 ore in magazzino, un po’ come Buk mi sa). Fu allora che il nostro Artista Maledetto (che era così solo in nome dell’arte, ma per tutto il resto si atteggiava a Papa Boy) mi redarguì. “Come ti permetti?” scrisse. “Scriveresti così sul rappresentante di un’altra religione? Faresti lo stesso col Dalai Lama?”. Quando lo lessi, ridacchiai ancora più forte, stirai i miei muscoli doloranti e scrissi l’equivalente di un pernacchio, qualcosa del tipo: “Lo scriverei anche su tua madre, se me ne desse motivo”. Dopodichè lo cancellai dagli amici e dimenticai il tutto con un’altra risata.
Perchè vi ho raccontato questa storiella amena e noiosetta? Boh, forse il caldo australiano mi sta dando alla testa, assieme al Vodka-7 che sto bevendo (in omaggio al Buk di “Donne”).
Forse volevo solo mostrare che in giro, coscienti o meno, ci sono tanti scrittori che sono pesantemente in debito col buon Buk, e ci sono ancora più suoi emulatori. C’è un unico problema: lui era Bukowski, e loro no.
Bukowski si può amare o odiare, ma a meno che non siate morti dentro, non vi lascerà indifferenti. Può piacervi o meno, o vi possono piacere solo alcune sue cose e meno altre (io non vado matto per le poesie, ad esempio, anche se mi hanno influenzato anche quelle), però per chi scrive, bisogna ammettere che Buk ha reso le cose più facili. Ha smontato quella scrittura leziosa, novecentesca, che ammiravamo da troppi secoli senza saperne più il perchè. É arrivato e ci ha detto, come recita uno dei titoli dei suoi libri, che “Shakespeare non l’ha mai fatto”.
Da applausi.
Per tutto questo, per quello che ha fatto, per quello che ha rappresentato, costruendo un personaggio in maniera consapevole ed in fondo anche coerente con quello che era e che ha vissuto, Bukowski può permettersi un po’ quello che cazzo vuole. Prima che ci fossero questi finti bulletti a fare i duri scrivendo di gente che si ammazza senza ragione, c’era lui che era un duro davvero (anche se solo sulla pagina, ma cos’altro vogliamo da un Artista?).
Gli perdoniamo, quindi, qualche eccesso di sbruffonaggine, qualche boutade da cazzaro orgoglioso di esserlo, qualche bicchiere di troppo. La sua forza, in fondo, è sempre stata la sua debolezza, come dimostrano anche i racconti di questo “Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze” (Feltrinelli), una raccolta (ancora una volta postuma; ma quanto cavolo ha scritto quest’uomo?) di suoi pezzi, che vanno da quelli giovanili, pubblicati su riviste del settore, ad articoli scritti pochi mesi prima di morire, nel 1994.
Da seguace di Buk, di quelli che ha letto tutto o quasi, mi permetto di dire che la qualità dei pezzi non è per niente uniforme, ma probabilmente non era quello lo scopo. Mettendo insieme pezzi così diversi che vanno dal racconto di fiction, alla recensione di autori e libri (imperdibile quella fatta ad un suo stesso libro di poesie), agli articoli scritti per la rubrica “Taccuino di un vecchio sporcaccione”, non si vuole ottenere una lettura lineare, ma un’investigazione più approfondita di questo autore, definito genio e buffone in ugual misura. Ci sono i racconti giovanili, che fanno quasi tenerezza nella loro incertezza, come se anche lui dovesse ancora liberarsi dall’influenza dei suoi dèi. Ci sono le critiche letterarie, dove Buk unisce uno stile più sobrio, quasi giornalistico a volte, con altre parti più “sue”. Ci sono i racconti umoristici, grotteschi, tragici, pieni di bevute, scazzottate, sesso a buon mercato, stanze di hotel fatiscenti, depressioni e gloria da doposbronza.
Alcune di queste storie erano già state trattate in altra maniera altrove nella sua opera, o addirittura in altri pezzi di questa raccolta. Buk sembrava come ossessionato da alcune delle storie che aveva vissuto o sentito da qualche parte. Questo potrebbe creare un po’ di ripetitività, specie in chi lo legge per la prima volta e magari non ha letto la versiona “originale” di quelle storie.
Alcuni dei pezzi qui non sono tra i suoi migliori, ed il Buk che ne esce è uno spaccone sempre sbronzo, scrittore di successo e gran scopatore (tutte cose che uno tenderebbe a credere se non conoscesse il resto dell’opera di Buk, dalle “Storie di ordinaria follia” in poi).
Ciò nonostante, ci sono comunque dei bei pezzi come “Reading stupefacente”, ed in generale il tempo passato a leggere Buk non è mai tempo perso. Magari consiglierei, a chi lo dovesse avvicinare per la prima volta, di giocarsela sul sicuro e puntare più su altre opere.
Che altro aggiungere? Lascio concludere lui, con le ultime parole dell’ultimo racconto, ed io me ne torno dov’ero prima, a lasciare in pace i miei dèi.
Ma adesso ho parlato a sufficienza di scrivere poesia; ho ancora tempo stanotte per scriverne un po’. Qualche birra, un sigaro, la musica classica alla radio. Ci si vede.
Consigliato a:
gli ultra' di Buk, o quelli che comunque lo apprezzano; chi non lo conosce ma si e' gia' comprato qualcos'altro di suo; chi ha voglia di una prosa che lo possa far piangere e ridere nel giro di poche pagine.
Anch’io sono stato fuorviato dal concetto romantico della scrittura. Da giovane ho visto troppi film sul grande Artista, e lo scrittore era sempre un tizio tragico e dannatamente interessante con un bel pizzetto, occhi lucenti e verità profonde che gli scaturivano continuamente dalla bocca. Che bello essere così, pensavo, ah. Ma non è così.
Bukowski. Cazzo, lo sapevo che non dovevo cominciare ‘sta cosa delle recensioni. Come diavolo si fa a parlare di Bukowski?
Lo stesso Buk, scrivendo una prefazione per “Chiedi alla polvere” di John Fante, disse: “Fante era il mio dio e io sapevo che gli dèi vanno lasciati in pace, non si andava a bussare alla loro porta”.
Ecco, mi sento più o meno così.
Per parlarne, tratterò di qualcosa che non c’entra niente, una storiella lunga e noiosa che mi permetterà di riempire questo post.
Come alcuni di voi sapranno, nel 2008 ho pubblicato un racconto in una piccola antologia di una casa editrice pressochè sconosciuta. Decisamente non sono ancora molto vicino al Nobel, ma in quel momento mi sembrava una gran bella cosa.
C’erano altri ragazzi in quella antologia, tra cui questo tizio che aveva scritto un racconto dove il protagonista era un super duro che gioca a carte tutta la notte, si guarda qualche tetta nella pubblicità notturne e poi decide di buttarsi dal balcone perchè era malato. Il salto del tizio era completamente imprevisto, e probabilmente qualcuno che ha letto troppo Welsh e troppo Palahniuk (travisandoli completamente) avrà pensato che un bel colpo di scena così avrebbe scioccato il lettore. Io mi sento solo preso in giro. Leggo, e penso ad uno che flette i muscoli senza avere dentro di sè, nei suoi occhi, neanche il coraggio di una minuscola rissa da pub. Ancora una volta, c’è il talento, e poi ci sono i trucchetti.
Bene, questo tizio mi aggiunse come amico su Facebook per qualche motivo. Lo vedevo postare ogni tanto le sue cose maledette, piene di roba dura e parolacce. Mi limitavo a scorrerle. Quasi preferivo i video dei gatti. Mi dimenticai completamente di lui, e non ci parlai mai.
Poi un giorno misi sulla mia pagina Fb qualcosa sul nostro caro Benedetto 16. Doveva essere un “Suca Benedetto” se non ricordo male (era il periodo dei Suca ai personaggi famosi, una di quelle mode del cazzo che però ogni tanto mi facevano ridacchiare mentre tornavo da un turno di 10 ore in magazzino, un po’ come Buk mi sa). Fu allora che il nostro Artista Maledetto (che era così solo in nome dell’arte, ma per tutto il resto si atteggiava a Papa Boy) mi redarguì. “Come ti permetti?” scrisse. “Scriveresti così sul rappresentante di un’altra religione? Faresti lo stesso col Dalai Lama?”. Quando lo lessi, ridacchiai ancora più forte, stirai i miei muscoli doloranti e scrissi l’equivalente di un pernacchio, qualcosa del tipo: “Lo scriverei anche su tua madre, se me ne desse motivo”. Dopodichè lo cancellai dagli amici e dimenticai il tutto con un’altra risata.
Perchè vi ho raccontato questa storiella amena e noiosetta? Boh, forse il caldo australiano mi sta dando alla testa, assieme al Vodka-7 che sto bevendo (in omaggio al Buk di “Donne”).
Forse volevo solo mostrare che in giro, coscienti o meno, ci sono tanti scrittori che sono pesantemente in debito col buon Buk, e ci sono ancora più suoi emulatori. C’è un unico problema: lui era Bukowski, e loro no.
Bukowski si può amare o odiare, ma a meno che non siate morti dentro, non vi lascerà indifferenti. Può piacervi o meno, o vi possono piacere solo alcune sue cose e meno altre (io non vado matto per le poesie, ad esempio, anche se mi hanno influenzato anche quelle), però per chi scrive, bisogna ammettere che Buk ha reso le cose più facili. Ha smontato quella scrittura leziosa, novecentesca, che ammiravamo da troppi secoli senza saperne più il perchè. É arrivato e ci ha detto, come recita uno dei titoli dei suoi libri, che “Shakespeare non l’ha mai fatto”.
Da applausi.
Per tutto questo, per quello che ha fatto, per quello che ha rappresentato, costruendo un personaggio in maniera consapevole ed in fondo anche coerente con quello che era e che ha vissuto, Bukowski può permettersi un po’ quello che cazzo vuole. Prima che ci fossero questi finti bulletti a fare i duri scrivendo di gente che si ammazza senza ragione, c’era lui che era un duro davvero (anche se solo sulla pagina, ma cos’altro vogliamo da un Artista?).
Gli perdoniamo, quindi, qualche eccesso di sbruffonaggine, qualche boutade da cazzaro orgoglioso di esserlo, qualche bicchiere di troppo. La sua forza, in fondo, è sempre stata la sua debolezza, come dimostrano anche i racconti di questo “Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze” (Feltrinelli), una raccolta (ancora una volta postuma; ma quanto cavolo ha scritto quest’uomo?) di suoi pezzi, che vanno da quelli giovanili, pubblicati su riviste del settore, ad articoli scritti pochi mesi prima di morire, nel 1994.
Da seguace di Buk, di quelli che ha letto tutto o quasi, mi permetto di dire che la qualità dei pezzi non è per niente uniforme, ma probabilmente non era quello lo scopo. Mettendo insieme pezzi così diversi che vanno dal racconto di fiction, alla recensione di autori e libri (imperdibile quella fatta ad un suo stesso libro di poesie), agli articoli scritti per la rubrica “Taccuino di un vecchio sporcaccione”, non si vuole ottenere una lettura lineare, ma un’investigazione più approfondita di questo autore, definito genio e buffone in ugual misura. Ci sono i racconti giovanili, che fanno quasi tenerezza nella loro incertezza, come se anche lui dovesse ancora liberarsi dall’influenza dei suoi dèi. Ci sono le critiche letterarie, dove Buk unisce uno stile più sobrio, quasi giornalistico a volte, con altre parti più “sue”. Ci sono i racconti umoristici, grotteschi, tragici, pieni di bevute, scazzottate, sesso a buon mercato, stanze di hotel fatiscenti, depressioni e gloria da doposbronza.
Alcune di queste storie erano già state trattate in altra maniera altrove nella sua opera, o addirittura in altri pezzi di questa raccolta. Buk sembrava come ossessionato da alcune delle storie che aveva vissuto o sentito da qualche parte. Questo potrebbe creare un po’ di ripetitività, specie in chi lo legge per la prima volta e magari non ha letto la versiona “originale” di quelle storie.
Alcuni dei pezzi qui non sono tra i suoi migliori, ed il Buk che ne esce è uno spaccone sempre sbronzo, scrittore di successo e gran scopatore (tutte cose che uno tenderebbe a credere se non conoscesse il resto dell’opera di Buk, dalle “Storie di ordinaria follia” in poi).
Ciò nonostante, ci sono comunque dei bei pezzi come “Reading stupefacente”, ed in generale il tempo passato a leggere Buk non è mai tempo perso. Magari consiglierei, a chi lo dovesse avvicinare per la prima volta, di giocarsela sul sicuro e puntare più su altre opere.
Che altro aggiungere? Lascio concludere lui, con le ultime parole dell’ultimo racconto, ed io me ne torno dov’ero prima, a lasciare in pace i miei dèi.
Ma adesso ho parlato a sufficienza di scrivere poesia; ho ancora tempo stanotte per scriverne un po’. Qualche birra, un sigaro, la musica classica alla radio. Ci si vede.
Consigliato a:
gli ultra' di Buk, o quelli che comunque lo apprezzano; chi non lo conosce ma si e' gia' comprato qualcos'altro di suo; chi ha voglia di una prosa che lo possa far piangere e ridere nel giro di poche pagine.
lunedì 10 novembre 2014
"Trilogia della Citta' di K.", Agota Kristof
“Alla fine delle due ore ci scambiamo i fogli; ciascuno corregge gli errori di ortografia dell’altro con l’aiuto del dizionario e, in fondo alla pagina, scrive: Bene o Non Bene. (...)
Per decidere se è Bene o Non Bene, abbiamo una regola molto semplice: il tema deve essere vero. Dobbiamo descrivere ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo. Se scriviamo “L’attendente è gentile”, non è una verità, perchè l’attendente può essere capace di cattiverie che noi ignoriamo. Quindi scriveremo semplicemente: “L’attendente ci regala delle coperte” (...)
Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti”
Ero arrivato a questa “Trilogia della Città di K.” di Agota Kristof ben consigliato, ed era uno di quei libri che mi ripromettevo sempre di comprare e poi dimenticavo sempre. Non sapevo niente di questo libro, tanto che pensavo che la K. stesse per Kafka, chissà perchè. Non c’ero andato lontanissimo, alla fine.
Con i consigli sui libri, la questione è sempre difficile. Uno fa finta di segnarsi i nomi mentalmente e poi dimentica tutto qualche secondo dopo. Io ho le mie fonti sicure, di quelle che non toppano quasi mai.
Questioni di gusti, poi.
Vale sempre, ed in particolare con lo stile col quale è scritto questa Trilogia. Uno stile scarno, fitto come un intrico di rovi, dove non passa mai il sole, neanche per sbaglio. Il rischio, con un linguaggio del genere, è alienare e stancare il lettore esattamente come potrebbe fare uno stile troppo ricco e descrittivo. La Kristof, invece, arriva fino in fondo, e lo fa davvero alla grande.
La Trilogia è, per l’appunto, composta da tre parti, scritte in fasi diverse dall’autrice, con uno stile che varia da una parte all’altra, così come l’io narrante. Il libro comincia seguendo la storia di Lucas e Claus, due ragazzini affidati dalla madre alla nonna durante la guerra, in un Paese dell’Est mai menzionato. I ragazzini decidono di tenere un diario –o meglio, un Grande Quaderno- per raccontare quello che fanno. Sono due tipi molto tosti, così come tosta è la vita da quelle parti ed in quel periodo. Tramite esercizi fatti di privazioni e persino violenze tra di loro, provano a fortificarsi e cominciare a difendersi da quella realtà che si fa ogni giorno più aggressiva.
La prima parte del libro è scritta in maniera stilisticamente impeccabile. Non viene concesso niente alla fantasia, gli aggettivi sono praticamente inesistenti, la narrazione è asciutta e tiene incollati alla pagina. Le altre due parti del libro cambiano un po’ regime e sono leggermente meno riuscite –in particolare l’ultima, che sembra un po’ messa insieme per risolvere gli enigmi rimasti insoluti all’inizio, rovinando quell’atmosfera di mistero e irrealtà che si era creata fin dalle prime righe.
Nonostante questo, una volta iniziato, questo libro è uno di quelli che vi porterete dietro e continuerete a leggere finchè non sarete arrivati all’ultima pagina, e non tanto (o non solo) per scoprire cos’è reale e cosa no, ma perchè non riuscirete a staccarvi da un flusso narrativo avvolgente come pochi.
La bravura della Kristof, stile a parte, è di catturare il lettore e portarlo con sè in una storia cupa come poche, disperata e tetra, in bilico sempre tra una razionalità impeccabile e un’atmosfera irreale che confonde fatti e personaggi. La storia di Claus e Lucas permette alla Kristof di mettere sul piatto il tema della verità –che cos’è? Esiste davvero? Dove finisce la fiction e inizia la vita vera? É più vero quello che ci raccontiamo, o quello che accade?
Tutti i personaggi –credibili e mai caricaturali- ne cercano una propria (incluso il libraio Victor, che da figura secondaria fa un’apparizione che lascia il segno), senza mai riuscire ad ottenerla –e anche quando ne trovano una, parziale e provvisoria, succede sempre qualcosa a portargliela via. Da questo punto di vista, le bugie che ci raccontiamo sono più affidabili, e ci danno più senso. Non per niente, il libro si conclude con il capitolo chiamato “La terza menzogna”.
La Trilogia è, alla fine, una storia di solitudine e dolore, claustrofobica e ben raccontata, dove non saprete mai se quello che sta succedendo è vero o meno, e che vi lascerà col fiato sospeso fino alle ultime pagine che sveleranno alcune delle menzogne, e ne lasceranno in sospeso altre.
É una storia oscura, senza possibilità di vittoria o redenzione. Di quelle da leggere quando fa freddo e fuori piove, e sembra non smettere più.
Consigliato a:
tutti, specie quelli con poco tempo (si legge in fretta); chi sta cercando una storia “invernale”; chi ama lo stile “minimalista” (qualunque cosa voglia dire).
Per decidere se è Bene o Non Bene, abbiamo una regola molto semplice: il tema deve essere vero. Dobbiamo descrivere ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo. Se scriviamo “L’attendente è gentile”, non è una verità, perchè l’attendente può essere capace di cattiverie che noi ignoriamo. Quindi scriveremo semplicemente: “L’attendente ci regala delle coperte” (...)
Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti”
Ero arrivato a questa “Trilogia della Città di K.” di Agota Kristof ben consigliato, ed era uno di quei libri che mi ripromettevo sempre di comprare e poi dimenticavo sempre. Non sapevo niente di questo libro, tanto che pensavo che la K. stesse per Kafka, chissà perchè. Non c’ero andato lontanissimo, alla fine.
Con i consigli sui libri, la questione è sempre difficile. Uno fa finta di segnarsi i nomi mentalmente e poi dimentica tutto qualche secondo dopo. Io ho le mie fonti sicure, di quelle che non toppano quasi mai.
Questioni di gusti, poi.
Vale sempre, ed in particolare con lo stile col quale è scritto questa Trilogia. Uno stile scarno, fitto come un intrico di rovi, dove non passa mai il sole, neanche per sbaglio. Il rischio, con un linguaggio del genere, è alienare e stancare il lettore esattamente come potrebbe fare uno stile troppo ricco e descrittivo. La Kristof, invece, arriva fino in fondo, e lo fa davvero alla grande.
La Trilogia è, per l’appunto, composta da tre parti, scritte in fasi diverse dall’autrice, con uno stile che varia da una parte all’altra, così come l’io narrante. Il libro comincia seguendo la storia di Lucas e Claus, due ragazzini affidati dalla madre alla nonna durante la guerra, in un Paese dell’Est mai menzionato. I ragazzini decidono di tenere un diario –o meglio, un Grande Quaderno- per raccontare quello che fanno. Sono due tipi molto tosti, così come tosta è la vita da quelle parti ed in quel periodo. Tramite esercizi fatti di privazioni e persino violenze tra di loro, provano a fortificarsi e cominciare a difendersi da quella realtà che si fa ogni giorno più aggressiva.
La prima parte del libro è scritta in maniera stilisticamente impeccabile. Non viene concesso niente alla fantasia, gli aggettivi sono praticamente inesistenti, la narrazione è asciutta e tiene incollati alla pagina. Le altre due parti del libro cambiano un po’ regime e sono leggermente meno riuscite –in particolare l’ultima, che sembra un po’ messa insieme per risolvere gli enigmi rimasti insoluti all’inizio, rovinando quell’atmosfera di mistero e irrealtà che si era creata fin dalle prime righe.
Nonostante questo, una volta iniziato, questo libro è uno di quelli che vi porterete dietro e continuerete a leggere finchè non sarete arrivati all’ultima pagina, e non tanto (o non solo) per scoprire cos’è reale e cosa no, ma perchè non riuscirete a staccarvi da un flusso narrativo avvolgente come pochi.
La bravura della Kristof, stile a parte, è di catturare il lettore e portarlo con sè in una storia cupa come poche, disperata e tetra, in bilico sempre tra una razionalità impeccabile e un’atmosfera irreale che confonde fatti e personaggi. La storia di Claus e Lucas permette alla Kristof di mettere sul piatto il tema della verità –che cos’è? Esiste davvero? Dove finisce la fiction e inizia la vita vera? É più vero quello che ci raccontiamo, o quello che accade?
Tutti i personaggi –credibili e mai caricaturali- ne cercano una propria (incluso il libraio Victor, che da figura secondaria fa un’apparizione che lascia il segno), senza mai riuscire ad ottenerla –e anche quando ne trovano una, parziale e provvisoria, succede sempre qualcosa a portargliela via. Da questo punto di vista, le bugie che ci raccontiamo sono più affidabili, e ci danno più senso. Non per niente, il libro si conclude con il capitolo chiamato “La terza menzogna”.
La Trilogia è, alla fine, una storia di solitudine e dolore, claustrofobica e ben raccontata, dove non saprete mai se quello che sta succedendo è vero o meno, e che vi lascerà col fiato sospeso fino alle ultime pagine che sveleranno alcune delle menzogne, e ne lasceranno in sospeso altre.
É una storia oscura, senza possibilità di vittoria o redenzione. Di quelle da leggere quando fa freddo e fuori piove, e sembra non smettere più.
Consigliato a:
tutti, specie quelli con poco tempo (si legge in fretta); chi sta cercando una storia “invernale”; chi ama lo stile “minimalista” (qualunque cosa voglia dire).
domenica 2 novembre 2014
"Kafka sulla spiaggia", Haruki Murakami
Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.
Mi verso un Jim Beam (che detesto, ma qualcuno l’ha lasciato qui da qualche altra festa) e mi accingo a parlare di “Kafka sulla spiaggia”, il libro che forse meno mi è piaciuto di Haruki Murakami. Perchè allora affannarsi a scriverci una recensione? Un po’ perchè me lo sono imposto, come esercizio e promemoria, e un po’ perchè di un grande scrittore non si butta via quasi niente, nemmeno quando ha un momento di fiacca.
Ironicamente, il libro è visto come un seguito “ideale” (storia e personaggi non hanno niente a che vedere) con “La fine del mondo e il Paese delle meraviglie”, il libro con il quale ho scoperto Murakami e, per me, il suo migliore tra quelli letti –e mi spingo a dire, uno dei migliori che ho letto negli ultimi anni (tant’è che l’ho prestato parecchio in giro: Giulia, se sei in ascolto, quando me lo ridai?)
“Kafka sulla spiaggia” parte, come sempre con Murakami, da premesse semplici, quasi banali: Tamaru, ragazzo quindicenne, decide di fuggire da casa. Prende con sè i suoi vestiti e pochi soldi, e parte senza una meta stabilita. Già poche pagine dopo, però, si racconta di uno strano episodio avvenuto vicino Hiroshima durante la Seconda Guerra Mondiale, e da lì in poi tutto prende la solita piega onirica dei romanzi di Murakami. Tamaru continua il suo viaggio che lo porterà ad una biblioteca e ad essere coinvolto con dei personaggi che, come sempre con questo autore, sono assurdi e perfettamente credibili allo stesso tempo. Nel frattempo seguiamo anche le gesta di Nakata, anziano con deficit cognitivi che sa parlare con i gatti e viene, suo malgrado, coinvolto in uno strano omicidio...
La trama, come spesso capita con i romanzi di Murakami, sarebbe troppo lunga e troppo folle da esporre in una sinossi (come avrà convinto il suo primo editore, resta un mistero). É un altro romanzo permeato da quello che è stato definito “realismo magico” (il solo romanzo “reale” di Murakami è “Norvgian Wood”), che non sarebbe un genere che sceglierei, ma per fortuna sono uno che se ne frega delle definizioni, e quindi posso dirvi solo che il libro, come tutti gli altri, fila che è una bellezza. Murakami riesce come sempre a descrivere il soprannaturale e ogni sorta di episodio grottesco utilizzando uno stile chiaro ed efficace. Nonostante le oltre 500 pagine, non ci metterete molto a finirlo.
In quanto alla storia, la finirete ma probabilmente vi resterà più di un dubbio in testa. Come spesso capita, vi chiederete il perchè di certe cose che accadono nel libro. Forse la risposta, se si vuole apprezzare davvero Murakami, è che certe cose accadono e basta, senza doppi significati. A volte è come un sogno, e spiegare un sogno può essere affascinante, ma in ultima analisi, inutile. Lasciatevi portare via senza farvi troppe domande, tanto comunque non avrete risposte. Murakami stesso, in un’intervista, ha dichiarato che “Kafka sulla spiaggia” è un libro da leggere più di una volta, per poterne afferrare i vari significati nascosti tra le pagine.
Ah, Haruki, io ti voglio bene, e forse un giorno rileggerò le tue 500 pagine, ma al momento dovresti metterti in fila perchè qui di cose da fare ce ne sono parecchie. Ma brindo lo stesso alla tua, pure con questo whisky che non sa di whisky.
“Kafka sulla spiaggia”, nonostante la sua scorrevolezza, resta uno dei libri più oscuri dell’autore, e sicuramente non da suggerire per approcciarsi all’opera di Murakami. Si sfiorano, lungo la lettura, quei significati nascosti, a volte persino primordiali, psiconalitici, disseminati in ogni pagina. Si intuisce che c’è dell’altro. In un mondo senza le 40 ore lavorative a settimana, una lettura così sarebbe altamente consigliata.
Dove però “La fine del mondo e il Paese delle meraviglie” riusciva, e “Kafka sulla spiaggia” un po’ meno, era nel creare un mondo “altro”, poetico, che faceva propendere alla sospensione del giudizio. Il ritmo era più serrato, i significati più cosmici. “Kafka” gioca un po’ con le parole, e ci mette troppo tempo a dire le cose che deve dire, sciupandone un po’ il significato.
Detto questo, “Kafka sulla spiaggia” non è lettura semplice (anche per Murakami, ed è tutto dire), ma non avrete comunque la sensazione di aver sprecato del tempo. Non come ne avrete sprecato leggendo questa recensione, comunque.
Vado a farmi un altro Jim Beam.
Consigliato a:
i fan di lunga data di Murakami, gli appassionati di storie surreali, chi si è appena licenziato o è andato in vacanza e non ha figli a rompergli i coglioni
Marco
Mi verso un Jim Beam (che detesto, ma qualcuno l’ha lasciato qui da qualche altra festa) e mi accingo a parlare di “Kafka sulla spiaggia”, il libro che forse meno mi è piaciuto di Haruki Murakami. Perchè allora affannarsi a scriverci una recensione? Un po’ perchè me lo sono imposto, come esercizio e promemoria, e un po’ perchè di un grande scrittore non si butta via quasi niente, nemmeno quando ha un momento di fiacca.
Ironicamente, il libro è visto come un seguito “ideale” (storia e personaggi non hanno niente a che vedere) con “La fine del mondo e il Paese delle meraviglie”, il libro con il quale ho scoperto Murakami e, per me, il suo migliore tra quelli letti –e mi spingo a dire, uno dei migliori che ho letto negli ultimi anni (tant’è che l’ho prestato parecchio in giro: Giulia, se sei in ascolto, quando me lo ridai?)
“Kafka sulla spiaggia” parte, come sempre con Murakami, da premesse semplici, quasi banali: Tamaru, ragazzo quindicenne, decide di fuggire da casa. Prende con sè i suoi vestiti e pochi soldi, e parte senza una meta stabilita. Già poche pagine dopo, però, si racconta di uno strano episodio avvenuto vicino Hiroshima durante la Seconda Guerra Mondiale, e da lì in poi tutto prende la solita piega onirica dei romanzi di Murakami. Tamaru continua il suo viaggio che lo porterà ad una biblioteca e ad essere coinvolto con dei personaggi che, come sempre con questo autore, sono assurdi e perfettamente credibili allo stesso tempo. Nel frattempo seguiamo anche le gesta di Nakata, anziano con deficit cognitivi che sa parlare con i gatti e viene, suo malgrado, coinvolto in uno strano omicidio...
La trama, come spesso capita con i romanzi di Murakami, sarebbe troppo lunga e troppo folle da esporre in una sinossi (come avrà convinto il suo primo editore, resta un mistero). É un altro romanzo permeato da quello che è stato definito “realismo magico” (il solo romanzo “reale” di Murakami è “Norvgian Wood”), che non sarebbe un genere che sceglierei, ma per fortuna sono uno che se ne frega delle definizioni, e quindi posso dirvi solo che il libro, come tutti gli altri, fila che è una bellezza. Murakami riesce come sempre a descrivere il soprannaturale e ogni sorta di episodio grottesco utilizzando uno stile chiaro ed efficace. Nonostante le oltre 500 pagine, non ci metterete molto a finirlo.
In quanto alla storia, la finirete ma probabilmente vi resterà più di un dubbio in testa. Come spesso capita, vi chiederete il perchè di certe cose che accadono nel libro. Forse la risposta, se si vuole apprezzare davvero Murakami, è che certe cose accadono e basta, senza doppi significati. A volte è come un sogno, e spiegare un sogno può essere affascinante, ma in ultima analisi, inutile. Lasciatevi portare via senza farvi troppe domande, tanto comunque non avrete risposte. Murakami stesso, in un’intervista, ha dichiarato che “Kafka sulla spiaggia” è un libro da leggere più di una volta, per poterne afferrare i vari significati nascosti tra le pagine.
Ah, Haruki, io ti voglio bene, e forse un giorno rileggerò le tue 500 pagine, ma al momento dovresti metterti in fila perchè qui di cose da fare ce ne sono parecchie. Ma brindo lo stesso alla tua, pure con questo whisky che non sa di whisky.
“Kafka sulla spiaggia”, nonostante la sua scorrevolezza, resta uno dei libri più oscuri dell’autore, e sicuramente non da suggerire per approcciarsi all’opera di Murakami. Si sfiorano, lungo la lettura, quei significati nascosti, a volte persino primordiali, psiconalitici, disseminati in ogni pagina. Si intuisce che c’è dell’altro. In un mondo senza le 40 ore lavorative a settimana, una lettura così sarebbe altamente consigliata.
Dove però “La fine del mondo e il Paese delle meraviglie” riusciva, e “Kafka sulla spiaggia” un po’ meno, era nel creare un mondo “altro”, poetico, che faceva propendere alla sospensione del giudizio. Il ritmo era più serrato, i significati più cosmici. “Kafka” gioca un po’ con le parole, e ci mette troppo tempo a dire le cose che deve dire, sciupandone un po’ il significato.
Detto questo, “Kafka sulla spiaggia” non è lettura semplice (anche per Murakami, ed è tutto dire), ma non avrete comunque la sensazione di aver sprecato del tempo. Non come ne avrete sprecato leggendo questa recensione, comunque.
Vado a farmi un altro Jim Beam.
Consigliato a:
i fan di lunga data di Murakami, gli appassionati di storie surreali, chi si è appena licenziato o è andato in vacanza e non ha figli a rompergli i coglioni
Marco
venerdì 31 ottobre 2014
"I racconti dell'Ohio", Sherwood Anderson
La maestra cercava di far capire al ragazzo l’idea delle difficoltà che si sarebbero presentate come scrittore. «Dovrai conoscere la vita», affermò, e la voce le tremava per l’emozione. E preso George Willard per le spalle lo girò in modo che potesse guardarla negli occhi. «Se vuoi diventare uno scrittore, devi smetterla di giocare con le parole» spiegò. «Sarebbe forse meglio abbandonare l’idea finchè non sarai più preparato. Ora è tempo di vivere. Non voglio spaventarti, ma vorrei farti capire l’importanza di quello che stai per intraprendere. Non devi diventare un venditore ambulante di parole. L’importante è imparare a conoscere cosa la gente ha in mente, non quello che dice"
Ero arrivato a leggere “Winesburg, Ohio” (in italiano “I racconti dell’Ohio”) di Sherwood Anderson, con molte aspettative. Era considerato un classico della letteratura americana, tanto da essere stato preso come esempio, tra gli altri, da Hemingway per il suo ciclo di racconti. Di solito odio questo approccio ai libri, perchè rischia di rovinarli ancora prima di iniziare. Eppure, personalmente, questo ha retto alla sua fama.
Avevo cominciato a leggerlo molti anni fa, al mio arrivo in Australia, dopo averlo scovato in una biblioteca pubblica. Purtroppo il mio inglese non era ancora abbastanza buono, e dopo aver visto che la lettura non filava, avevo abbandonato.
Ci ho riprovato in italiano, e confermo che la scrittura non è di quelle che scorrono via pagina dopo pagina. Non che sia un linguaggio ampolloso o troppo ricercato, ma risente un po’ delle numerose descrizioni, sia dei personaggi che dell’ambiente che li circonda, e qua e là mostra i suoi ormai 100 anni da quando è stato pubblicato. Detto questo, è comunque un linguaggio molto ricco, suggestivo, che si fa perdonare qualche aggettivo di troppo con la sensazione di esserci passato anche tu, alla fine, per la piccola Winesburg.
Il libro è formato da una serie di racconti che seguono le storie degli abitanti di un piccolo paesino dell’Ohio, all’inizio del secolo scorso. Le storie si intrecciano le une con le altre, i personaggi tornano anche in racconti successivi, ricordando vagamente l’ “Antalogia di Spoon River” di Lee Masters, scritto in tempi simili al libro di Anderson. Avendo come personaggio principale il giovane George Willard, unico giornalista del paese che aspira a lasciare tutto per diventare qualcuno in una grande città e magari, un giorno, anche uno scrittore, seguiamo la storia degli abitanti di questa cittadina attraverso le loro vicissitudini personali e gli eventi storici che da lontano vengono ad influire anche su una cittadina sperduta nel nulla. La Grande Guerra è alle porte e il paesino, da sempre abituato a ritmi semplici, subisce gli effetti dell’industrializzazione che piano piano sta cambiando la fisionomia della città, con gli abitanti che sono al bivio tra il restare agganciato alla vita nella quale sono cresciuti, o fare il grande salto dentro un’epoca che comincia a muoversi veloce, e che da lì in poi non si fermerà più.
Ad una descrizione idilliaca, a volte un po’ datata, della natura circostante (che tradisce lo stesso amore che Anderson doveva avere per i luoghi in cui è cresciuto), fanno da contrasto le storie degli abitanti, un po’ diverse da quelle narrate da altri scrittori dell’epoca. Ad un panorama fatto di tramonti puri e cieli cristallini rispondono uomini e donne che fanno i conti con i loro vizi, con la loro solitudine, con le loro incomprensioni e lotte. Anderson non vuole dipingere un quadretto lirico per noi, spacciandoci i suoi personaggi per onesta gente che lavora la terra ed è felice così. Nelle sue storie ci sono ubriaconi, mogli insoddisfatte, bigotti fuori di testa e preti tentati dai piaceri della carne. I vecchi di Winesburg vivono di rimpianti, come se il loro momento fosse già passato, mentre i giovani sono confusi da quell’epoca di cambiamento, indecisi sul da farsi, preoccupati di non diventare come i loro genitori e incerti sulla strada da intraprendere.
Lo stesso protagonista, George, ci viene mostrato in maniera molto diversa a seconda del racconto e della prospettiva del personaggio di quella storia. Lo vediamo armato di buone intenzioni, schiacciato tra un padre ambizioso e una madre che ha rinunciato a vivere per farlo solo attraverso lui, ma altri personaggi lo vedono come pieno di sè, o stupido, o completamente incapace. Come nella realtà, i giudizi della gente di paese sono taglienti e lasciano cicatrici per la vita addosso alle persone. Perfino l'amore ha difficoltà a venir fuori, a poter essere vissuto con naturalezza.
Dietro George si può intravedere l’autore, che non si nasconde nè glorifica ma trasmette le sue insicurezze, il suo tentennare davanti ai bivi importanti.
Lo si vede, soprattutto, quando George decide di fare il grande salto e partire per la Grande Città. L’eccitazione e la tristezza che si mischiano e confondono fino ad annebbiare la mente mentre si dirige verso la stazione per prendere l’ultimo treno. In quel momento ricorda cose piccole, quasi incomprensibili, come il vecchio pazzo che ogni sera passava dalla strada principale del paese con una carriola e delle assi in bilico –come se l’anima stessa del paesino fosse tutta lì, così come la sua purezza. Chi, come me, ha lasciato da tempo il proprio luogo di nascita, si ritroverà molto in queste ultime pagine, nei ricordi che George deciderà di portare con sè, di cose piccole che però sono soltanto lì, e che probabilmente non ci saranno più al suo ritorno.
Salendo sul treno, George non assolve la città, così come non lo fa Anderson. Ma prima di cadere in un sonno pieno mentre il treno sta cominciando a muoversi, capisce che, al di là delle miserie di quel piccolo centro del mondo, delle sue solitudini, delle sue ingiustizie, c’era della bellezza diversa da quella solo di tramonti e primavere. Quello era anche il suo posto, e in qualche modo lo sarà sempre.
Consigliato a:
chi ama i classici americani, specialmente “Spoon River” e i racconti di Hemingway; chi è per le serie di racconti; chi, come George, è cresciuto in quel tipo di realtà, a prescindere che l’abbia amata o meno.
Marco
Ero arrivato a leggere “Winesburg, Ohio” (in italiano “I racconti dell’Ohio”) di Sherwood Anderson, con molte aspettative. Era considerato un classico della letteratura americana, tanto da essere stato preso come esempio, tra gli altri, da Hemingway per il suo ciclo di racconti. Di solito odio questo approccio ai libri, perchè rischia di rovinarli ancora prima di iniziare. Eppure, personalmente, questo ha retto alla sua fama.
Avevo cominciato a leggerlo molti anni fa, al mio arrivo in Australia, dopo averlo scovato in una biblioteca pubblica. Purtroppo il mio inglese non era ancora abbastanza buono, e dopo aver visto che la lettura non filava, avevo abbandonato.
Ci ho riprovato in italiano, e confermo che la scrittura non è di quelle che scorrono via pagina dopo pagina. Non che sia un linguaggio ampolloso o troppo ricercato, ma risente un po’ delle numerose descrizioni, sia dei personaggi che dell’ambiente che li circonda, e qua e là mostra i suoi ormai 100 anni da quando è stato pubblicato. Detto questo, è comunque un linguaggio molto ricco, suggestivo, che si fa perdonare qualche aggettivo di troppo con la sensazione di esserci passato anche tu, alla fine, per la piccola Winesburg.
Il libro è formato da una serie di racconti che seguono le storie degli abitanti di un piccolo paesino dell’Ohio, all’inizio del secolo scorso. Le storie si intrecciano le une con le altre, i personaggi tornano anche in racconti successivi, ricordando vagamente l’ “Antalogia di Spoon River” di Lee Masters, scritto in tempi simili al libro di Anderson. Avendo come personaggio principale il giovane George Willard, unico giornalista del paese che aspira a lasciare tutto per diventare qualcuno in una grande città e magari, un giorno, anche uno scrittore, seguiamo la storia degli abitanti di questa cittadina attraverso le loro vicissitudini personali e gli eventi storici che da lontano vengono ad influire anche su una cittadina sperduta nel nulla. La Grande Guerra è alle porte e il paesino, da sempre abituato a ritmi semplici, subisce gli effetti dell’industrializzazione che piano piano sta cambiando la fisionomia della città, con gli abitanti che sono al bivio tra il restare agganciato alla vita nella quale sono cresciuti, o fare il grande salto dentro un’epoca che comincia a muoversi veloce, e che da lì in poi non si fermerà più.
Ad una descrizione idilliaca, a volte un po’ datata, della natura circostante (che tradisce lo stesso amore che Anderson doveva avere per i luoghi in cui è cresciuto), fanno da contrasto le storie degli abitanti, un po’ diverse da quelle narrate da altri scrittori dell’epoca. Ad un panorama fatto di tramonti puri e cieli cristallini rispondono uomini e donne che fanno i conti con i loro vizi, con la loro solitudine, con le loro incomprensioni e lotte. Anderson non vuole dipingere un quadretto lirico per noi, spacciandoci i suoi personaggi per onesta gente che lavora la terra ed è felice così. Nelle sue storie ci sono ubriaconi, mogli insoddisfatte, bigotti fuori di testa e preti tentati dai piaceri della carne. I vecchi di Winesburg vivono di rimpianti, come se il loro momento fosse già passato, mentre i giovani sono confusi da quell’epoca di cambiamento, indecisi sul da farsi, preoccupati di non diventare come i loro genitori e incerti sulla strada da intraprendere.
Lo stesso protagonista, George, ci viene mostrato in maniera molto diversa a seconda del racconto e della prospettiva del personaggio di quella storia. Lo vediamo armato di buone intenzioni, schiacciato tra un padre ambizioso e una madre che ha rinunciato a vivere per farlo solo attraverso lui, ma altri personaggi lo vedono come pieno di sè, o stupido, o completamente incapace. Come nella realtà, i giudizi della gente di paese sono taglienti e lasciano cicatrici per la vita addosso alle persone. Perfino l'amore ha difficoltà a venir fuori, a poter essere vissuto con naturalezza.
Dietro George si può intravedere l’autore, che non si nasconde nè glorifica ma trasmette le sue insicurezze, il suo tentennare davanti ai bivi importanti.
Lo si vede, soprattutto, quando George decide di fare il grande salto e partire per la Grande Città. L’eccitazione e la tristezza che si mischiano e confondono fino ad annebbiare la mente mentre si dirige verso la stazione per prendere l’ultimo treno. In quel momento ricorda cose piccole, quasi incomprensibili, come il vecchio pazzo che ogni sera passava dalla strada principale del paese con una carriola e delle assi in bilico –come se l’anima stessa del paesino fosse tutta lì, così come la sua purezza. Chi, come me, ha lasciato da tempo il proprio luogo di nascita, si ritroverà molto in queste ultime pagine, nei ricordi che George deciderà di portare con sè, di cose piccole che però sono soltanto lì, e che probabilmente non ci saranno più al suo ritorno.
Salendo sul treno, George non assolve la città, così come non lo fa Anderson. Ma prima di cadere in un sonno pieno mentre il treno sta cominciando a muoversi, capisce che, al di là delle miserie di quel piccolo centro del mondo, delle sue solitudini, delle sue ingiustizie, c’era della bellezza diversa da quella solo di tramonti e primavere. Quello era anche il suo posto, e in qualche modo lo sarà sempre.
Consigliato a:
chi ama i classici americani, specialmente “Spoon River” e i racconti di Hemingway; chi è per le serie di racconti; chi, come George, è cresciuto in quel tipo di realtà, a prescindere che l’abbia amata o meno.
Marco
venerdì 3 ottobre 2014
Primavera dopo l'estate (dopo un lungo inverno)
Quando avevo mostrato il biglietto alla hostess, lei mi aveva indicato la rampa delle scale. Non avevo nemmeno fatto caso al fatto che ci fossero delle scale in quell’aereo. Qualcuno, con voce dolce e gentile, mi aveva indicato il mio posto, che era immenso e dotato di qualunque comfort, dal frigobar alla sedia massaggiante. Subito dopo era arrivata la mia hostess personale, e si era presentata. Si chiamava Helena ed era spagnola. Mi chiese dove stessi andando, e mi disse che quasi c’era andata anche lei una volta, come fanno le donne quando stanno flirtando. Poi mi chiese, sorridendo, se per caso poteva versarmi un bicchiere di champagne Veuve Clichot. La business class, pensai, è proprio un’altra cosa.
C’ero finito per caso, senza pagare, e di sicuro non ci sarei capitato mai più, ma proprio per questo mi godevo quella sensazione di tizio fuoriposto che per una volta è riuscito a scalare i muri di cinta e a sedersi alla tavolata dei signori. Finchè non mi scoprivano, andava tutto bene. Ordinai un Rusty Nail e pensai a quello che una volta De Andrè, dopo un concerto a Reggio, aveva detto al padre di un mio amico, che gli aveva chiesto com’era tutta quella faccenda di esibirsi e cantare sempre in posti diversi. “Alla fine ti senti come un pacco postale”, aveva detto lui.
Io non mi esibivo, non cantavo e raramente dicevo cose eterne (quasi mai da sobrio), eppure viaggiavo molto anch’io e potevo capire quella sensazione. Quella di essere tirati da una parte all’altra, a volte anche controvoglia, senza molte possibilità di avere un punto fisso, stabile, e nemmeno di capire a cosa si appartiene –o meglio, a quale parte. Interrompi la tua vita e ne riprendi un’altra più o meno da dove l’avevi lasciata, e mentre stai vivendo quella, quasi ti dimentichi che ne avevi un’altra prima. Chiaro che si può fare confusione, e qualcuno di noi pacchi postali a volte non la prende bene. Io ho cercato di farmi piacere questo andirivieni, o forse solo a non oppormi, a lasciar fluire la corrente e vedere poi dove andasse a finire. La vita da pacco postale ha parecchi svantaggi, ma io ci ho visto anche una possibilità: quello di evadere temporaneamente dalla tua esistenza quotidiana (che sia qui o lì, non importa), e sapere che hai questa via di fuga se le cose cominciano a bruciare. E inoltre, quando sei da una parte, puoi guardare all’altra in una maniera più obiettiva, onesta, come non faresti mai se ci fossi immerso ogni giorno. Fai il punto ogni volta, ed è qualcosa che molti non possono fare, rapiti dalla corrente che risucchia giorni ed energie, finchè rialzi la testa dalla scrivania e ti rendi conto che è di nuovo inverno.
Io l’inverno lo stavo lasciando dietro. Ordinai un altro drink e pensai che ogni tanto anche i pacchi postali riescono a sorridere.
Non so perchè, ma ogni volta che torno a casa in Sicilia, nelle prime 12 ore c’è tutto: racconti, risate, litigi, giochi, discorsi seri, scazzi, abbracci e albe storte.
I giorni seguenti non fanno altro che seguire questo modello.
Non è mai una vacanza quando si torna a casa, e penso che questo valga per tutti. A partire dalla mattina dopo, ancora prima di aver smaltito il jetlag, la tua vecchia vita ti torna addosso come una tuta comoda ma che per qualche motivo pensavi non avresti indossato più, mentre la tua vita di là si mette tranquilla ad attendere insieme a valigie e passaporti.
No, non è una vacanza per i pacchi postali. C’è da rivedere tutti, e rivederli bene. Non vado mai in posti nuovi quando torno. Ci metto già abbastanza a ritrovare quelli vecchi, e con essi le persone che ho lasciato e che non mi dimenticano mai. Rivedere bene qualcuno vuol dire sedersi, lasciar perdere i cosa-hai-fatto-quest’anno, guardarsi bene e capire cosa è cambiato e cosa è restato. Quei momenti in cui ti stupisci della rapidità di invecchiamento di alcuni, e ti rallegri per altri che invece sono riusciti a conservare quel qualcosa anche dopo venti e tempeste, e sono sempre lì pronti a fartelo vedere. I discorsi interrotti che vengono ripresi, arricchiti. Vuoi accontentare tutti, pur sapendo che non ci riuscirai mai. Vuoi poter fare tutto, sapendo che il tempo non ti basterà.
E allora? Allora corri, ti sbatti, vivi giornate la cui intensità copre la pigrizia degli ultimi mesi invernali dall’altra parte del mondo, e alla fine di tutto questo ti godi quel che resta di quest’estate che non hai mai lasciato del tutto, e che per te assume un significato che per coloro che non sono mai stati pacchi postali, non ha più.
E quando guardi il tuo mare per l’ultima volta, in un settembre che già parla di partenze e conti da fare, dimentichi lo stress degli ultimi giorni, lasci perdere liste di cose da fare, cerchi di mettere da parte quello stupore che ti prende sempre alla gola nel constatare come il giorno del tuo arrivo sembra sempre troppo vicino a quello dei saluti finali, e ti concentri su quelle onde che aspetteranno la tua prossima estate.
La aspetteranno sempre.
Soltanto dopo che ho lasciato le valigie nella minuscola stanza d’albergo ed io e Rosanna ci siamo seduti in uno dei tanti bistrot all’aperto nei viali alberati della Rive Gauche, mi sono reso conto di quanto mi è diventata familiare Parigi. Attenzione: non ne ho girato che una minima parte (anche qui continuo a tornare negli stessi posti, è più forte di me), non ho mai passato più di 4-5 giorni di fila qui, non spiccico una parola di francese e non leggo mai le guide se non quando sono già tornato a casa.
Eppure è la quarta volta che mi trovo a tornare, e ancora una volta a distanza di otto anni esatti dall’ultima. Non so cosa voglia dire, e di sicuro non è stato voluto. Sentivo che dovevo tornarci e questo è quanto. Magari la cabala o la smorfia napoletana saprebbero dirmi di più. Trovo conforto in questo numero che si ripete, ci rivedo delle fasi della mia vita che sono passate e mi fa tenerezza rivederle mentre passeggio per i quay lungo la Senna e ritrovo panorami che mi hanno visto crescere.
Ci sono migliaia di ragioni per essere qui adesso, alcune le stesse dei milioni di turisti che affollano i boulevard e che mi risvegliano la gentofobia, altre tutte mie. Più delle attrazioni (che ci sono, e ti riempiono gli occhi come poco altro al mondo), mi piace girare senza meta, e vedere quello che puoi vedere solo qui.
Soltanto a Parigi, per esempio, puoi stare in una stanza d’albergo grande quanto il tuo armadio e trovarla perfetta –e in quell’armadio farci l’amore per ore, con la città che fa il tifo per te.
Soltanto a Parigi è accettato, anzi perfettamente normale, sedersi in un bistrot all’aperto anche di mattina e farti una bottiglia di rosso mentre fumi a tutto andare. Solo qui, se vedi qualcuno che beve al tavolo da solo, non sembra socialmente fuoriposto. I parigini sembrano solitari, al di sopra delle cose, come se se ne fregassero e col volto volessero costantamente dire “Embè?”. I parigini hanno belle facce tragiche, e anche quando brutti (e spesso lo sono, specie gli uomini) mantengono un fascino sordido e vissuto, un po’ stereotipo e un po’ dolore.
Parigi è città di grandi solitudini e anche di chi si beve la notte e ci balla sopra. L’umanità in mezzo a questi due estremi torce il collo, si appiglia a tutto e a volte resta schiacciata, persa nelle vastità di questo gigante enorme e spietato.
Nonostante tutto, Parigi riesce a restare umana, o almeno più umana di altre metropoli dove sono stato. Puoi viverti la tua vita. Puoi trovare un portiere di notte che non vede l’ora di sapere tutto quello che hai fatto e commentare con grandi sorrisi e complimenti in un inglese di base che basta a tutto. Puoi rivedere Jim, che mi aspetta ogni 8 anni e al quale ormai parlo da amico. Puoi girare per le strade del Quartiere Latino, entrare nei bar dove sedevano Hemingway e Fitzgerald, Picasso e Sartre e farti spennare per un bicchiere di vino, e anche in queste luccicanti trappole per turisti sederti un attimo e ripensare a chi si è seduto qui prima di te, immaginarti i loro discorsi sbronzi, le loro puttane e le loro aspirazioni, e sentirti piccolo per un po’, per poi rifugiarti nella libreria “Shakesperare & co.” di fronte a Notre Dame e ritrovare un amore per quel tempo e per l’arte che ti sembra di trovare fratelli perduti che vogliono svegliarti dalla tua realtà fatta di bollette, conti e piccole miserie quotidiane.
Ecco perchè ci torno ogni otto anni.
E anche per il vino, ovviamente. ‘Sti cazzo di francesi ci sanno fare.
A Roma non mi importano troppo monumenti e gite. Volevo che Rosanna vedesse l’altra mia casa, quella dove ho quasi dato di matto, che ho preso a calci, che ho odiato di cuore, e nella quale torno ogni volta come un figlio dal padre del quale ormai ha capito gli errori, e quasi li ha perdonati.
Da pacco postale, è stata una tappa importante. C’è qualcosa, nell’aria, nella gente, che non sento completamente mia, ma che mi manca se non la vivo per troppo tempo. Non saprei spiegarlo altrimenti. A Roma posso mettermi comodo, lasciar perdere tutte le stronzate, riempirmi occhi e pancia, farmi la solita sosta di ore alla Feltrinelli, bermi gli sguardi di Rosanna verso quel mondo che è stato il mio per tanto tempo, quando da pacco postale avevo molti meno francobolli, e poi prepararmi a salutare tutti, appena in tempo prima dell’arrivo dell’autunno. Ogni volta che vengo a Roma lascio dei vecchi me stesso in giro, come pelle vecchia che si stacca e che io resto a guardare per un’ultima volta prima di berci sopra e chiamare un taxi per l’aereoporto.
Quando torni a casa dopo un po’ di tempo, stenti a riconoscerla come casa tua. L’odore è familiare, i mobili sono lì che hanno aspettato pazientemente nell’oscurità e tu ti senti confuso, quasi fuoriposto. Metti da parte i vestiti da pacco postale che ha fatto il giro completo (e con 35.000 km alle spalle, direi anche un discreto giro), giri per le stanze e riassorbi quella vita che da domani già ti sembrerà normale. Mediti sul cosa fare prima di sederti fuori, in giardino. Si vede il fiume da qui. Non ha le onde come il mare che ho lasciato di là, eppure l’aria è cambiata in mia assenza. Si sente che l’inverno è finito anche da queste parti.
La mattina dopo salgo sul motorino, diretto al lavoro. Una parte di me è stranamente di buonumore, caricata delle energie raccolte in questo mese, da quelle giornate di “stress costruttivo”, come ormai lo definisco. Torno con nuova voglia di fare, con progetti (alcuni magari li discuterò qui sul Morgana), soprattutto con di nuovo il desiderio di sedermi ad una scrivania a scrivere, e questa è linfa vitale. L’altra parte di me è ancora incredula per questa primavera che mi passa dal casco, come se fosse ancora in viaggio. Ho paura della routine, di ricascarci, di perdere quel fuoco che in qualche modo ho riacceso. Ho paura del mediocre, dopo essermi ubriacato delle bellezze di Parigi e Roma. Mi metto in coda, aspetto, rispetto i limiti. Il sole ce la mette tutta, ma non riesco ancora a credergli. Tornare, per un pacco postale, non è mai facile.
Poi, lungo la strada, vedo questi due tizi che fanno promozione ad una palestra. Si mettono lì ogni mattina, uno a pedalare in una cyclette sul marciapiede, l’altro che regge un cartello a forma di freccia che indica l’uomo in cyclette, con sù scritto il nome della palestra. Ridono entrambi, rivolti verso gli automobolisti, e li salutano con finta allegria. Ci passo anch’io davanti. Nella versione romanzata di questa storia, ho tirato fuori il dito medio e ho proseguito.
Nella realtà li ho solo guardati per un attimo prima di accelerare, lasciarmeli dietro e inspirare primavera, facendo entrare dal casco tutto il sole che potevo.
E mi sono sentito subito meglio.
C’ero finito per caso, senza pagare, e di sicuro non ci sarei capitato mai più, ma proprio per questo mi godevo quella sensazione di tizio fuoriposto che per una volta è riuscito a scalare i muri di cinta e a sedersi alla tavolata dei signori. Finchè non mi scoprivano, andava tutto bene. Ordinai un Rusty Nail e pensai a quello che una volta De Andrè, dopo un concerto a Reggio, aveva detto al padre di un mio amico, che gli aveva chiesto com’era tutta quella faccenda di esibirsi e cantare sempre in posti diversi. “Alla fine ti senti come un pacco postale”, aveva detto lui.
Io non mi esibivo, non cantavo e raramente dicevo cose eterne (quasi mai da sobrio), eppure viaggiavo molto anch’io e potevo capire quella sensazione. Quella di essere tirati da una parte all’altra, a volte anche controvoglia, senza molte possibilità di avere un punto fisso, stabile, e nemmeno di capire a cosa si appartiene –o meglio, a quale parte. Interrompi la tua vita e ne riprendi un’altra più o meno da dove l’avevi lasciata, e mentre stai vivendo quella, quasi ti dimentichi che ne avevi un’altra prima. Chiaro che si può fare confusione, e qualcuno di noi pacchi postali a volte non la prende bene. Io ho cercato di farmi piacere questo andirivieni, o forse solo a non oppormi, a lasciar fluire la corrente e vedere poi dove andasse a finire. La vita da pacco postale ha parecchi svantaggi, ma io ci ho visto anche una possibilità: quello di evadere temporaneamente dalla tua esistenza quotidiana (che sia qui o lì, non importa), e sapere che hai questa via di fuga se le cose cominciano a bruciare. E inoltre, quando sei da una parte, puoi guardare all’altra in una maniera più obiettiva, onesta, come non faresti mai se ci fossi immerso ogni giorno. Fai il punto ogni volta, ed è qualcosa che molti non possono fare, rapiti dalla corrente che risucchia giorni ed energie, finchè rialzi la testa dalla scrivania e ti rendi conto che è di nuovo inverno.
Io l’inverno lo stavo lasciando dietro. Ordinai un altro drink e pensai che ogni tanto anche i pacchi postali riescono a sorridere.
Non so perchè, ma ogni volta che torno a casa in Sicilia, nelle prime 12 ore c’è tutto: racconti, risate, litigi, giochi, discorsi seri, scazzi, abbracci e albe storte.
I giorni seguenti non fanno altro che seguire questo modello.
Non è mai una vacanza quando si torna a casa, e penso che questo valga per tutti. A partire dalla mattina dopo, ancora prima di aver smaltito il jetlag, la tua vecchia vita ti torna addosso come una tuta comoda ma che per qualche motivo pensavi non avresti indossato più, mentre la tua vita di là si mette tranquilla ad attendere insieme a valigie e passaporti.
No, non è una vacanza per i pacchi postali. C’è da rivedere tutti, e rivederli bene. Non vado mai in posti nuovi quando torno. Ci metto già abbastanza a ritrovare quelli vecchi, e con essi le persone che ho lasciato e che non mi dimenticano mai. Rivedere bene qualcuno vuol dire sedersi, lasciar perdere i cosa-hai-fatto-quest’anno, guardarsi bene e capire cosa è cambiato e cosa è restato. Quei momenti in cui ti stupisci della rapidità di invecchiamento di alcuni, e ti rallegri per altri che invece sono riusciti a conservare quel qualcosa anche dopo venti e tempeste, e sono sempre lì pronti a fartelo vedere. I discorsi interrotti che vengono ripresi, arricchiti. Vuoi accontentare tutti, pur sapendo che non ci riuscirai mai. Vuoi poter fare tutto, sapendo che il tempo non ti basterà.
E allora? Allora corri, ti sbatti, vivi giornate la cui intensità copre la pigrizia degli ultimi mesi invernali dall’altra parte del mondo, e alla fine di tutto questo ti godi quel che resta di quest’estate che non hai mai lasciato del tutto, e che per te assume un significato che per coloro che non sono mai stati pacchi postali, non ha più.
E quando guardi il tuo mare per l’ultima volta, in un settembre che già parla di partenze e conti da fare, dimentichi lo stress degli ultimi giorni, lasci perdere liste di cose da fare, cerchi di mettere da parte quello stupore che ti prende sempre alla gola nel constatare come il giorno del tuo arrivo sembra sempre troppo vicino a quello dei saluti finali, e ti concentri su quelle onde che aspetteranno la tua prossima estate.
La aspetteranno sempre.
Soltanto dopo che ho lasciato le valigie nella minuscola stanza d’albergo ed io e Rosanna ci siamo seduti in uno dei tanti bistrot all’aperto nei viali alberati della Rive Gauche, mi sono reso conto di quanto mi è diventata familiare Parigi. Attenzione: non ne ho girato che una minima parte (anche qui continuo a tornare negli stessi posti, è più forte di me), non ho mai passato più di 4-5 giorni di fila qui, non spiccico una parola di francese e non leggo mai le guide se non quando sono già tornato a casa.
Eppure è la quarta volta che mi trovo a tornare, e ancora una volta a distanza di otto anni esatti dall’ultima. Non so cosa voglia dire, e di sicuro non è stato voluto. Sentivo che dovevo tornarci e questo è quanto. Magari la cabala o la smorfia napoletana saprebbero dirmi di più. Trovo conforto in questo numero che si ripete, ci rivedo delle fasi della mia vita che sono passate e mi fa tenerezza rivederle mentre passeggio per i quay lungo la Senna e ritrovo panorami che mi hanno visto crescere.
Ci sono migliaia di ragioni per essere qui adesso, alcune le stesse dei milioni di turisti che affollano i boulevard e che mi risvegliano la gentofobia, altre tutte mie. Più delle attrazioni (che ci sono, e ti riempiono gli occhi come poco altro al mondo), mi piace girare senza meta, e vedere quello che puoi vedere solo qui.
Soltanto a Parigi, per esempio, puoi stare in una stanza d’albergo grande quanto il tuo armadio e trovarla perfetta –e in quell’armadio farci l’amore per ore, con la città che fa il tifo per te.
Soltanto a Parigi è accettato, anzi perfettamente normale, sedersi in un bistrot all’aperto anche di mattina e farti una bottiglia di rosso mentre fumi a tutto andare. Solo qui, se vedi qualcuno che beve al tavolo da solo, non sembra socialmente fuoriposto. I parigini sembrano solitari, al di sopra delle cose, come se se ne fregassero e col volto volessero costantamente dire “Embè?”. I parigini hanno belle facce tragiche, e anche quando brutti (e spesso lo sono, specie gli uomini) mantengono un fascino sordido e vissuto, un po’ stereotipo e un po’ dolore.
Parigi è città di grandi solitudini e anche di chi si beve la notte e ci balla sopra. L’umanità in mezzo a questi due estremi torce il collo, si appiglia a tutto e a volte resta schiacciata, persa nelle vastità di questo gigante enorme e spietato.
Nonostante tutto, Parigi riesce a restare umana, o almeno più umana di altre metropoli dove sono stato. Puoi viverti la tua vita. Puoi trovare un portiere di notte che non vede l’ora di sapere tutto quello che hai fatto e commentare con grandi sorrisi e complimenti in un inglese di base che basta a tutto. Puoi rivedere Jim, che mi aspetta ogni 8 anni e al quale ormai parlo da amico. Puoi girare per le strade del Quartiere Latino, entrare nei bar dove sedevano Hemingway e Fitzgerald, Picasso e Sartre e farti spennare per un bicchiere di vino, e anche in queste luccicanti trappole per turisti sederti un attimo e ripensare a chi si è seduto qui prima di te, immaginarti i loro discorsi sbronzi, le loro puttane e le loro aspirazioni, e sentirti piccolo per un po’, per poi rifugiarti nella libreria “Shakesperare & co.” di fronte a Notre Dame e ritrovare un amore per quel tempo e per l’arte che ti sembra di trovare fratelli perduti che vogliono svegliarti dalla tua realtà fatta di bollette, conti e piccole miserie quotidiane.
Ecco perchè ci torno ogni otto anni.
E anche per il vino, ovviamente. ‘Sti cazzo di francesi ci sanno fare.
A Roma non mi importano troppo monumenti e gite. Volevo che Rosanna vedesse l’altra mia casa, quella dove ho quasi dato di matto, che ho preso a calci, che ho odiato di cuore, e nella quale torno ogni volta come un figlio dal padre del quale ormai ha capito gli errori, e quasi li ha perdonati.
Da pacco postale, è stata una tappa importante. C’è qualcosa, nell’aria, nella gente, che non sento completamente mia, ma che mi manca se non la vivo per troppo tempo. Non saprei spiegarlo altrimenti. A Roma posso mettermi comodo, lasciar perdere tutte le stronzate, riempirmi occhi e pancia, farmi la solita sosta di ore alla Feltrinelli, bermi gli sguardi di Rosanna verso quel mondo che è stato il mio per tanto tempo, quando da pacco postale avevo molti meno francobolli, e poi prepararmi a salutare tutti, appena in tempo prima dell’arrivo dell’autunno. Ogni volta che vengo a Roma lascio dei vecchi me stesso in giro, come pelle vecchia che si stacca e che io resto a guardare per un’ultima volta prima di berci sopra e chiamare un taxi per l’aereoporto.
Quando torni a casa dopo un po’ di tempo, stenti a riconoscerla come casa tua. L’odore è familiare, i mobili sono lì che hanno aspettato pazientemente nell’oscurità e tu ti senti confuso, quasi fuoriposto. Metti da parte i vestiti da pacco postale che ha fatto il giro completo (e con 35.000 km alle spalle, direi anche un discreto giro), giri per le stanze e riassorbi quella vita che da domani già ti sembrerà normale. Mediti sul cosa fare prima di sederti fuori, in giardino. Si vede il fiume da qui. Non ha le onde come il mare che ho lasciato di là, eppure l’aria è cambiata in mia assenza. Si sente che l’inverno è finito anche da queste parti.
La mattina dopo salgo sul motorino, diretto al lavoro. Una parte di me è stranamente di buonumore, caricata delle energie raccolte in questo mese, da quelle giornate di “stress costruttivo”, come ormai lo definisco. Torno con nuova voglia di fare, con progetti (alcuni magari li discuterò qui sul Morgana), soprattutto con di nuovo il desiderio di sedermi ad una scrivania a scrivere, e questa è linfa vitale. L’altra parte di me è ancora incredula per questa primavera che mi passa dal casco, come se fosse ancora in viaggio. Ho paura della routine, di ricascarci, di perdere quel fuoco che in qualche modo ho riacceso. Ho paura del mediocre, dopo essermi ubriacato delle bellezze di Parigi e Roma. Mi metto in coda, aspetto, rispetto i limiti. Il sole ce la mette tutta, ma non riesco ancora a credergli. Tornare, per un pacco postale, non è mai facile.
Poi, lungo la strada, vedo questi due tizi che fanno promozione ad una palestra. Si mettono lì ogni mattina, uno a pedalare in una cyclette sul marciapiede, l’altro che regge un cartello a forma di freccia che indica l’uomo in cyclette, con sù scritto il nome della palestra. Ridono entrambi, rivolti verso gli automobolisti, e li salutano con finta allegria. Ci passo anch’io davanti. Nella versione romanzata di questa storia, ho tirato fuori il dito medio e ho proseguito.
Nella realtà li ho solo guardati per un attimo prima di accelerare, lasciarmeli dietro e inspirare primavera, facendo entrare dal casco tutto il sole che potevo.
E mi sono sentito subito meglio.
domenica 7 settembre 2014
Settembre (lettera a S.)
Caro zio,
nonostante me lo riprometta ogni volta, dimentico sempre una regola fondamentale della vita: mai mettere insieme settembre e De Andrè. Stavolta magari qualche scusa ce l'avevo, avendo mancato gli ultimi 4 settembre italiani. Eppure il settembre è luogo dell'anima, umido e irrisolto, malinconico e sospeso. E noi, in quel luogo, ci sguazzavamo alla grande.
Il settembre al mare, qui nella mia Liuzzo City, voleva dire tante cose: esami universitari preparati di corsa per evitare il militare, lunghi pomeriggi di pioggia, solitudini estreme come non ci fosse stato mai nessuno in quel paesino, come se l'estate avesse saltato un turno.
Però settembre voleva dire anche te che venivi qui la mattina (dopo aver compiuto il tuo rito) e poi in macchina a girovagare per strade deserte battute dalle onde del mare. Voleva dire te e la tua chitarra. Te che ti liberavi un po' dagli impegni, dopo estati piene per tutti -e le mie erano piene di guai. Settembre era il nostro tempo per rifiatare, per farci due conti e trovarli in rosso e poi berci sopra e fumarci un'infinità di sigarette nelle nostre «sbampiate» nel terrazzo di casa tua. Lo chiamavamo «il terrazzino degli artisti», ricordi? Non so più neanche perchè. Forse perchè ci nutrivamo di quegli ampi spazi intorno lasciati vuoti dalla gente tornata alle sue vite, e noi che cercavamo di riempire la nostra come potevamo.
Forse, anche, perchè da quel terrazzino è giunta l'ispirazione per l'unica canzone che ho mai scritto, che poi è solo una poesia più lunga delle altre. L'avevo chiamata «Hotel Morgana», e senza quelle nostre serate di pioggia non sarebbe mai esistita.
Sai, nonostante le apparenze, non sono tipo da rimuginare nostalgie per troppo tempo. Dovendo gestire distanze così grandi, ho imparato a farmi io piccolo, a restringere tempi e luoghi e prenderli a minuscole dosi, un po' alla volta. Ma se dovessi elencare le cose che più mi mancano della mia vita pre-Australia, sicuramente ci sarebbero quei settembre.
Il che è paradossale: io li odiavo, quei settembre, mentre li vivevo. Mi sembravano deprimenti, vuoti, solitari. Era la degna fine di estati che volevo solo mettermi alle spalle, prima di lanciarmi nel vuoto di un inverno dagli esiti sempre imprevedibili. Mentre tutti si lasciavano scolorire l'ultima abbronzatura, tra residui di amori d'agosto e foto al mare, io restavo a guardia di un posto che si svuotava giorno dopo giorno. No, non ero esattamente pazzo per quei settembre lì.
Però c'eri tu, zio, e insieme ce la contavamo, e grazie alla tua chitarra ce la cantavamo anche, stappavamo qualche birra nel pomeriggio, allungavamo le gambe sul tavolo, tu posizionavi la tua sigaretta incastrata tra le corde, e pensavamo che tutto sommato lì non ci stavamo male. L'estate era finita, e finalmente potevamo respirare e godercela come potevamo. Non siamo mai stati esattamente tipi da folle oceaniche, e quando eravamo io tu e R. (che spuntava immancabile ogni volta che suovani «Domenica lunatica», salcazzo perchè), bastava così.
Non sapevamo cosa ci aspettava dopo ma intuivamo non fosse niente di buono, e così lasciavamo che Faber parlasse per noi, ce lo infilavamo ovunque, lo cantavamo, discutevamo, oppure lo amavamo e basta trangugiando birra e guardando quel silenzio farsi crepuscolo sul mare. I ritorni in macchina da chissadove, con Fabrizio che passava senza sosta dalla radio e noi a cantare a squarciagola, finchè le nostre voci stonate non si fondevano col panorama grigio intorno, e noi ci sentivamo vivi in mezzo allo sfacelo e alla tristezza, perchè la sapevamo padroneggiare meglio della finta allegria degli ultimi mesi, perchè sapevamo che vivere è tosto, e che una birra in buona compagnia è meglio di molte altre cose.
Eravamo anime salve con una Malboro in bocca, e come nella canzone, arrivava il momento di vederci di spalle, che partivamo. Settembre era anche partenze: io per Roma, tu alla tua vita di qui. Concludevamo qualcosa a cui non sapevamo dare un nome, e lo riprendevamo dove l'avevamo lasciato l'anno dopo. Questo finchè un giorno (sempre di settembre, ovviamente), mi hai accompagnato a Villa S. Giovanni a prendere un treno che, tappa dopo tappa, mi avrebbe portato dall'altra parte del mondo.
Niente più terrazzino a settembre. Poi un giorno venisti da me (era luglio, ma dentro era un settembre a tutti gli effetti), io ero tornato momentaneamente a vivere a Messina e la marea mi stava risbattendo dall'altra parte del mondo, e tu stavi invece per andare alla tua prima avventura, a Milano. Tesi, inquieti, immersi fino alle ginocchia in addii che erano troppo da guardare tutto assieme, allora stavamo zitti a tirare dalla sigaretta, pensando a quando latitudini e coincidenze avrebbero di nuovo fatto incrociare le nostre strade.
Sono felice di poter dire che, nonostante i nostri silenzi (dovuti a caratteri introversi più che ad altro), siamo sempre rimasti lì, e sapevo questo pure prima che mi informassi che ti saresti sposato, sempre qui, sempre a settembre, e che volevi che io fossi il tuo testimone. E' stato un onore, più di quanto il mio balbettare al doppio malto abbia saputo esprimere. Sapevo il percorso che avevi compiuto con lei, quella strada infinita che dai banchi di scuola vi aveva portato poi a traslocare le vostre radici, con tutti i dubbi e le incertezze del caso. Trovarsi lì con lei, dopo tutto questo, è come trovarsi alla fine di un viaggio di quelli pieni, significativi, vitali. Non poter essere lì con voi a festeggiare questa fine viaggio (e ovviamente l'inizio di un altro) mi amareggia e mi riporta presente la mia condizione quasi da esule, che deve programmarsi relax ed emozioni, e il tempo che non basta mai. Sono lieto, però, di avervi visto durante quel viaggio, di essere stato testimone di tappe significative, di aver bevuto e riso con voi, e per questo so che, alla fine, ci sarò comunque.
Non è lo stesso, ma ho voluto dedicarvi questo pensiero di settembre. Dopo tanto girare, dopo tanto suonare, dopo tanto aspettare, noi siamo ancora qui, e abbiamo intenzione di restarci a lungo.
Fate buon viaggio, ragazzi, vecchio o nuovo che sia.
E per te, zio, che dire? Settembre sbarella il cuore e fa straparlare. A me non resta che mettere su un altro pezzo di De Andrè, vedere la pioggia che bagna la campagna qui fuori per l'ultima volta prima che quell'aereo decolli, e pensare che sì, forse tutto questo può suonare patetico, ma io non sono triste.
Piuttosto, sono grato per ogni momento che ho diviso con te, con tutti voi amici in quest'estate, e oltre. E' bello sapere che siete lì. Ci sarà sempre un terrazzino bagnato dalla pioggia ed una stanza al Morgana.
Ed è per questo che io tornerò sempre.
Buon proseguimento, buon matrimonio, buon autunno.
Ci si vede, come sempre, al prossimo giro.
Zango
nonostante me lo riprometta ogni volta, dimentico sempre una regola fondamentale della vita: mai mettere insieme settembre e De Andrè. Stavolta magari qualche scusa ce l'avevo, avendo mancato gli ultimi 4 settembre italiani. Eppure il settembre è luogo dell'anima, umido e irrisolto, malinconico e sospeso. E noi, in quel luogo, ci sguazzavamo alla grande.
Il settembre al mare, qui nella mia Liuzzo City, voleva dire tante cose: esami universitari preparati di corsa per evitare il militare, lunghi pomeriggi di pioggia, solitudini estreme come non ci fosse stato mai nessuno in quel paesino, come se l'estate avesse saltato un turno.
Però settembre voleva dire anche te che venivi qui la mattina (dopo aver compiuto il tuo rito) e poi in macchina a girovagare per strade deserte battute dalle onde del mare. Voleva dire te e la tua chitarra. Te che ti liberavi un po' dagli impegni, dopo estati piene per tutti -e le mie erano piene di guai. Settembre era il nostro tempo per rifiatare, per farci due conti e trovarli in rosso e poi berci sopra e fumarci un'infinità di sigarette nelle nostre «sbampiate» nel terrazzo di casa tua. Lo chiamavamo «il terrazzino degli artisti», ricordi? Non so più neanche perchè. Forse perchè ci nutrivamo di quegli ampi spazi intorno lasciati vuoti dalla gente tornata alle sue vite, e noi che cercavamo di riempire la nostra come potevamo.
Forse, anche, perchè da quel terrazzino è giunta l'ispirazione per l'unica canzone che ho mai scritto, che poi è solo una poesia più lunga delle altre. L'avevo chiamata «Hotel Morgana», e senza quelle nostre serate di pioggia non sarebbe mai esistita.
Sai, nonostante le apparenze, non sono tipo da rimuginare nostalgie per troppo tempo. Dovendo gestire distanze così grandi, ho imparato a farmi io piccolo, a restringere tempi e luoghi e prenderli a minuscole dosi, un po' alla volta. Ma se dovessi elencare le cose che più mi mancano della mia vita pre-Australia, sicuramente ci sarebbero quei settembre.
Il che è paradossale: io li odiavo, quei settembre, mentre li vivevo. Mi sembravano deprimenti, vuoti, solitari. Era la degna fine di estati che volevo solo mettermi alle spalle, prima di lanciarmi nel vuoto di un inverno dagli esiti sempre imprevedibili. Mentre tutti si lasciavano scolorire l'ultima abbronzatura, tra residui di amori d'agosto e foto al mare, io restavo a guardia di un posto che si svuotava giorno dopo giorno. No, non ero esattamente pazzo per quei settembre lì.
Però c'eri tu, zio, e insieme ce la contavamo, e grazie alla tua chitarra ce la cantavamo anche, stappavamo qualche birra nel pomeriggio, allungavamo le gambe sul tavolo, tu posizionavi la tua sigaretta incastrata tra le corde, e pensavamo che tutto sommato lì non ci stavamo male. L'estate era finita, e finalmente potevamo respirare e godercela come potevamo. Non siamo mai stati esattamente tipi da folle oceaniche, e quando eravamo io tu e R. (che spuntava immancabile ogni volta che suovani «Domenica lunatica», salcazzo perchè), bastava così.
Non sapevamo cosa ci aspettava dopo ma intuivamo non fosse niente di buono, e così lasciavamo che Faber parlasse per noi, ce lo infilavamo ovunque, lo cantavamo, discutevamo, oppure lo amavamo e basta trangugiando birra e guardando quel silenzio farsi crepuscolo sul mare. I ritorni in macchina da chissadove, con Fabrizio che passava senza sosta dalla radio e noi a cantare a squarciagola, finchè le nostre voci stonate non si fondevano col panorama grigio intorno, e noi ci sentivamo vivi in mezzo allo sfacelo e alla tristezza, perchè la sapevamo padroneggiare meglio della finta allegria degli ultimi mesi, perchè sapevamo che vivere è tosto, e che una birra in buona compagnia è meglio di molte altre cose.
Eravamo anime salve con una Malboro in bocca, e come nella canzone, arrivava il momento di vederci di spalle, che partivamo. Settembre era anche partenze: io per Roma, tu alla tua vita di qui. Concludevamo qualcosa a cui non sapevamo dare un nome, e lo riprendevamo dove l'avevamo lasciato l'anno dopo. Questo finchè un giorno (sempre di settembre, ovviamente), mi hai accompagnato a Villa S. Giovanni a prendere un treno che, tappa dopo tappa, mi avrebbe portato dall'altra parte del mondo.
Niente più terrazzino a settembre. Poi un giorno venisti da me (era luglio, ma dentro era un settembre a tutti gli effetti), io ero tornato momentaneamente a vivere a Messina e la marea mi stava risbattendo dall'altra parte del mondo, e tu stavi invece per andare alla tua prima avventura, a Milano. Tesi, inquieti, immersi fino alle ginocchia in addii che erano troppo da guardare tutto assieme, allora stavamo zitti a tirare dalla sigaretta, pensando a quando latitudini e coincidenze avrebbero di nuovo fatto incrociare le nostre strade.
Sono felice di poter dire che, nonostante i nostri silenzi (dovuti a caratteri introversi più che ad altro), siamo sempre rimasti lì, e sapevo questo pure prima che mi informassi che ti saresti sposato, sempre qui, sempre a settembre, e che volevi che io fossi il tuo testimone. E' stato un onore, più di quanto il mio balbettare al doppio malto abbia saputo esprimere. Sapevo il percorso che avevi compiuto con lei, quella strada infinita che dai banchi di scuola vi aveva portato poi a traslocare le vostre radici, con tutti i dubbi e le incertezze del caso. Trovarsi lì con lei, dopo tutto questo, è come trovarsi alla fine di un viaggio di quelli pieni, significativi, vitali. Non poter essere lì con voi a festeggiare questa fine viaggio (e ovviamente l'inizio di un altro) mi amareggia e mi riporta presente la mia condizione quasi da esule, che deve programmarsi relax ed emozioni, e il tempo che non basta mai. Sono lieto, però, di avervi visto durante quel viaggio, di essere stato testimone di tappe significative, di aver bevuto e riso con voi, e per questo so che, alla fine, ci sarò comunque.
Non è lo stesso, ma ho voluto dedicarvi questo pensiero di settembre. Dopo tanto girare, dopo tanto suonare, dopo tanto aspettare, noi siamo ancora qui, e abbiamo intenzione di restarci a lungo.
Fate buon viaggio, ragazzi, vecchio o nuovo che sia.
E per te, zio, che dire? Settembre sbarella il cuore e fa straparlare. A me non resta che mettere su un altro pezzo di De Andrè, vedere la pioggia che bagna la campagna qui fuori per l'ultima volta prima che quell'aereo decolli, e pensare che sì, forse tutto questo può suonare patetico, ma io non sono triste.
Piuttosto, sono grato per ogni momento che ho diviso con te, con tutti voi amici in quest'estate, e oltre. E' bello sapere che siete lì. Ci sarà sempre un terrazzino bagnato dalla pioggia ed una stanza al Morgana.
Ed è per questo che io tornerò sempre.
Buon proseguimento, buon matrimonio, buon autunno.
Ci si vede, come sempre, al prossimo giro.
Zango
venerdì 8 agosto 2014
Restare umani (ovvero: un altro di quei post sul compleanno)
Lo dico subito: non avevo per niente voglia di mettermi qui a scrivere. Un malditesta che mi accompagna da stamattina e un generale senso di rilassamento totale mi tenevano lontano da questi tasti. Inoltre, ero un po’ stufo di essere “quello dei compleanni”. Un mio amico, l’altro giorno, subito dopo gli auguri mi ha detto: e allora, quando lo metti il post sul 7 agosto?
Cazzo, ho pensato, sono davvero così prevedibile?
Per questo motivo sono stato lontano dal computer tutto il giorno. Poi ho sospirato, mi sono versato un bicchiere di Bowmore (un regalo di compleanno, tra l’altro, fatto da chi mi conosce molto bene) e mi sono seduto.
Le persone, quando invecchiano, tendono a diventare davvero prevedibili.
Rileggevo prima il post sullo scorso compleanno (se siete masochisti, lo trovate qui), che a sua volte riprendeva quello dell’anno prima. Avevo appena superato il buon Gesù, in una giornata che aveva visto come momento culminante una visita medica per quel problemuccio all’occhio, e che aveva portato, proprio un paio di giorni dopo il compleanno, ad un ricovero d’urgenza in ospedale. Lì avevo passato il Ferragosto. Ovunque tu sia, 2013, sarai sempre nei miei pensieri.
Ricordavo tutto questo ieri mattina, mentre la gente mi faceva gli auguri e si decideva cosa fare per la serata e sembrava un compleanno come tanti altri. In fondo lo era. Anzi, erano più di dieci anni che non mi capitava di essere nello stesso posto e con la stessa gente per due compleannni di fila. Invecchiare è anche questo?
Se è così, ci metto subito la firma.
In ogni caso, per me non era un compleanno come tanti altri. Avevo di nuovo quella sensazione di essere l’unico a ricordare (e com’è giusto che sia: abbiamo già troppi casini nostri, per ricordarci anche quelli degli altri). Questo era il mio primo compleanno del “dopo”, il primo senza benda, il primo dopo la minaccia di qualcosa che poteva farmi schiattare in una maniera non troppo simpatica. Il primo di questo “nuovo” Marco, qualunque significato vogliate attribuire a questo “nuovo”.
Per carità, non è che ci abbia pensato tutto il giorno. Ma quando mi sono guardato la mattina allo specchio, prima ancora di dirmi che m’ero fatto vecchio come il cucco, mi sono guardato gli occhi, tutti e due, e sono stato contento di ritrovarli al loro posto. Di sapere che avevo passato anche quella.
Le persone, quando invecchiano, tendono ad essere felici con poco.
La giornata in sè è trascorsa in maniera abbastanza tranquilla (ritorno ubriaco e canterino in motorino a parte). Le persone a cui tieni, che sai che sono lì anche senza auguri o abbracci o regali. Tutti gli altri, che dimostrano una gentile adesione alle regole della società (ed in questo Facebook dà una grande mano). La serata in pizzeria è stata il culmine di una serie di festeggiamenti che, con la scusa del compleanno, vanno avanti da giorni.
Oggi però ho deciso di prendermi un giorno dal lavoro, ho dormito fino a tardi, ho smaltito la sbronza. Mi sono preso il mio tempo, ed in questo tempo ho cercato di prendere le misure a questi 35 anni, a cosa vogliano dire.
Le persone, quando invecchiano, tendono a farsi noiosamente riflessive.
Alla fine ammetto che non ci ho pensato molto. Volevo solo starmene qualche ora lontano da tutto, in pace, senza progetti o programmi.
Mentre me ne stavo seduto in giardino, ancora in vestaglia e con i postumi, ho provato a fare un piccolo sforzo di riflessione, e ho pensato che forse sta tutto qui. Il tuo posto, il tuo tempo, le tue cose, i tuoi pensieri. Le ore che ridiventano tue, anche solo per un giorno. Guardarti intorno e trovare mura che sono state gentili con te. Vedere le mani attaccate ai polsi, e sapere che possono fare ancora molto. Inspirare ed espirare, e sapere che te lo puoi permettere. Chiudere gli occhi, rallentare il ritmo.
Non certo un pensiero da rockstar, ma ci sarà anche un motivo, se nessuno di loro è mai arrivato a quest’età. Che poi non è che uno diventa tipo da station wagon solo perchè ha superato una linea fittizia: la differenza è che investe diversamente le proprie energie. Quelle energie che non dimimuiscono perchè, come sappiamo, l’energia si trasforma, non si distrugge. Un po’ come il dolore, che se preso bene, può dare una mano di colore ad ogni sorriso.
A 35 anni una cosa la capisci: il senso di tutto, lo scopo più grande, l’obbiettivo più difficile, è quello di restare umani. In 35 anni uno accumula abbastanza botte, calci e fregature per diventare uno stronzo cinico senza che gliene si faccia una colpa. Ti rubano le ore, le speranze, ti imbottiscono la testa di stronzate e ti costringono ogni giorno di più a pensare che mollare, dopo tutto, non è un’opzione così malvagia. Ma sì, lascia perdere, fai il tuo, il resto che si fotta. Tira avanti un altro po’, non pensare a niente, non esagerare, non rischiare, sii serio. C’è l’affitto, ci sono le bollette, ci sono quelli che chissà cosa penseranno, ci sono capi e presidenti e governi, ci sono le feste comandate, e tutto diventa di una tinta di grigio di un tale squallore che il tuo cuore si rimpicciolisce fino a che non lo senti più.
Le persone, quando invecchiano, tendono a invecchiare male.
Tutto ti rema contro. Per questo motivo, restare umani è un atto controcorrente, coraggioso e folle. Il Che diceva che bisogna essere duri senza perdere mai la tenerezza. Sembra facile a leggerla su un diarietto, ma provateci voi. Eppure senza quella tenerezza, siamo quello che De Andrè definiva un “mostruoso animale, un cinghiale laureato in matematica pura”.
Per questo ho ripensato a quando, qualche giorno fa, sono stato sommerso da 15 bambini che volevano che gli insegnassi come cucinare, ed io l’ho fatto sorridendo tutto il tempo, o perchè il momento più bello di ieri è stato quando ho fatto una donazione per una causa di quelle che ci stanno.
Ho pensato tutto questo e poi mi sono ripromesso di provare a restare un po’ umano anch’io, a fare la mia parte, a riprendermi le mie ore.
Ho cominciato subito: lì, in vestaglia, col sole che bussava alle mie palpebre chiuse, in un giorno feriale, col rumore delle auto in coda che assomigliava a quello di una risacca che finiva col mischiarsi a quello del fiume lì accanto finchè tutto ha continuato a scorrere, scorrere, giù fino all’oceano.
E da lì, poi, al largo.
Cazzo, ho pensato, sono davvero così prevedibile?
Per questo motivo sono stato lontano dal computer tutto il giorno. Poi ho sospirato, mi sono versato un bicchiere di Bowmore (un regalo di compleanno, tra l’altro, fatto da chi mi conosce molto bene) e mi sono seduto.
Le persone, quando invecchiano, tendono a diventare davvero prevedibili.
Rileggevo prima il post sullo scorso compleanno (se siete masochisti, lo trovate qui), che a sua volte riprendeva quello dell’anno prima. Avevo appena superato il buon Gesù, in una giornata che aveva visto come momento culminante una visita medica per quel problemuccio all’occhio, e che aveva portato, proprio un paio di giorni dopo il compleanno, ad un ricovero d’urgenza in ospedale. Lì avevo passato il Ferragosto. Ovunque tu sia, 2013, sarai sempre nei miei pensieri.
Ricordavo tutto questo ieri mattina, mentre la gente mi faceva gli auguri e si decideva cosa fare per la serata e sembrava un compleanno come tanti altri. In fondo lo era. Anzi, erano più di dieci anni che non mi capitava di essere nello stesso posto e con la stessa gente per due compleannni di fila. Invecchiare è anche questo?
Se è così, ci metto subito la firma.
In ogni caso, per me non era un compleanno come tanti altri. Avevo di nuovo quella sensazione di essere l’unico a ricordare (e com’è giusto che sia: abbiamo già troppi casini nostri, per ricordarci anche quelli degli altri). Questo era il mio primo compleanno del “dopo”, il primo senza benda, il primo dopo la minaccia di qualcosa che poteva farmi schiattare in una maniera non troppo simpatica. Il primo di questo “nuovo” Marco, qualunque significato vogliate attribuire a questo “nuovo”.
Per carità, non è che ci abbia pensato tutto il giorno. Ma quando mi sono guardato la mattina allo specchio, prima ancora di dirmi che m’ero fatto vecchio come il cucco, mi sono guardato gli occhi, tutti e due, e sono stato contento di ritrovarli al loro posto. Di sapere che avevo passato anche quella.
Le persone, quando invecchiano, tendono ad essere felici con poco.
La giornata in sè è trascorsa in maniera abbastanza tranquilla (ritorno ubriaco e canterino in motorino a parte). Le persone a cui tieni, che sai che sono lì anche senza auguri o abbracci o regali. Tutti gli altri, che dimostrano una gentile adesione alle regole della società (ed in questo Facebook dà una grande mano). La serata in pizzeria è stata il culmine di una serie di festeggiamenti che, con la scusa del compleanno, vanno avanti da giorni.
Oggi però ho deciso di prendermi un giorno dal lavoro, ho dormito fino a tardi, ho smaltito la sbronza. Mi sono preso il mio tempo, ed in questo tempo ho cercato di prendere le misure a questi 35 anni, a cosa vogliano dire.
Le persone, quando invecchiano, tendono a farsi noiosamente riflessive.
Alla fine ammetto che non ci ho pensato molto. Volevo solo starmene qualche ora lontano da tutto, in pace, senza progetti o programmi.
Mentre me ne stavo seduto in giardino, ancora in vestaglia e con i postumi, ho provato a fare un piccolo sforzo di riflessione, e ho pensato che forse sta tutto qui. Il tuo posto, il tuo tempo, le tue cose, i tuoi pensieri. Le ore che ridiventano tue, anche solo per un giorno. Guardarti intorno e trovare mura che sono state gentili con te. Vedere le mani attaccate ai polsi, e sapere che possono fare ancora molto. Inspirare ed espirare, e sapere che te lo puoi permettere. Chiudere gli occhi, rallentare il ritmo.
Non certo un pensiero da rockstar, ma ci sarà anche un motivo, se nessuno di loro è mai arrivato a quest’età. Che poi non è che uno diventa tipo da station wagon solo perchè ha superato una linea fittizia: la differenza è che investe diversamente le proprie energie. Quelle energie che non dimimuiscono perchè, come sappiamo, l’energia si trasforma, non si distrugge. Un po’ come il dolore, che se preso bene, può dare una mano di colore ad ogni sorriso.
A 35 anni una cosa la capisci: il senso di tutto, lo scopo più grande, l’obbiettivo più difficile, è quello di restare umani. In 35 anni uno accumula abbastanza botte, calci e fregature per diventare uno stronzo cinico senza che gliene si faccia una colpa. Ti rubano le ore, le speranze, ti imbottiscono la testa di stronzate e ti costringono ogni giorno di più a pensare che mollare, dopo tutto, non è un’opzione così malvagia. Ma sì, lascia perdere, fai il tuo, il resto che si fotta. Tira avanti un altro po’, non pensare a niente, non esagerare, non rischiare, sii serio. C’è l’affitto, ci sono le bollette, ci sono quelli che chissà cosa penseranno, ci sono capi e presidenti e governi, ci sono le feste comandate, e tutto diventa di una tinta di grigio di un tale squallore che il tuo cuore si rimpicciolisce fino a che non lo senti più.
Le persone, quando invecchiano, tendono a invecchiare male.
Tutto ti rema contro. Per questo motivo, restare umani è un atto controcorrente, coraggioso e folle. Il Che diceva che bisogna essere duri senza perdere mai la tenerezza. Sembra facile a leggerla su un diarietto, ma provateci voi. Eppure senza quella tenerezza, siamo quello che De Andrè definiva un “mostruoso animale, un cinghiale laureato in matematica pura”.
Per questo ho ripensato a quando, qualche giorno fa, sono stato sommerso da 15 bambini che volevano che gli insegnassi come cucinare, ed io l’ho fatto sorridendo tutto il tempo, o perchè il momento più bello di ieri è stato quando ho fatto una donazione per una causa di quelle che ci stanno.
Ho pensato tutto questo e poi mi sono ripromesso di provare a restare un po’ umano anch’io, a fare la mia parte, a riprendermi le mie ore.
Ho cominciato subito: lì, in vestaglia, col sole che bussava alle mie palpebre chiuse, in un giorno feriale, col rumore delle auto in coda che assomigliava a quello di una risacca che finiva col mischiarsi a quello del fiume lì accanto finchè tutto ha continuato a scorrere, scorrere, giù fino all’oceano.
E da lì, poi, al largo.
giovedì 17 luglio 2014
Lo scrittore
Se c’è una cosa che
non sopporto
è di vedere uno scrittore
calmo
Lo scrittore è uno che si agita
anche quando le cose
sembrano andargli bene
-e quando gli vanno male
spalanca le braccia
per accogliere meglio la pioggia
Lo scrittore è uno che ha tic
fissazioni, paranoie
vaste solitudini entro le quali coltiva
teneramente le sue follie
É uno che resta sveglio
mentre tutti dormono
che sfama i suoi demoni
mentre gli altri sono fuori
Non ha bisogno di molto
non ha bisogno di molti
Lo scrittore è uno che
anche se ha risolto le sue tempeste
se le porta tutte dentro
e usa le sue cicatrici come mappe
per orientarsi nel suo infinito
nell’infinito di tutti
E quando ha finito
vuole solo tornarci
come un naufrago salvato
che ricorda solo quel dolore
e quel dolore ama e combatte
come fosse l’unico senso
ad ogni sua
frase.
(Marco Zangari © 2014)
giovedì 3 luglio 2014
Tempo perso
I Mondiali di calcio non sono mai un evento neutro, anche per coloro (mi verrebbe da dire: soprattutto per coloro) a cui non frega niente del calcio. Solitamente nemmeno a me frega molto, ma i Mondiali sono un’altra storia che non starò a ripetere (la potete leggere qui).
Avevo pronti un paio di pensierini sulla polarizzazione del pensiero durante questo evento (roba da farmi denunciare da centinaia di sociologi), su come ventidue tizi che rincorrono una palla riescano a tirare fuori il bello e il brutto (a volte insospettato) da ognuno. Su come venga fuori quella cosa per niente scontata che è il senso di appartenenza ad un Paese.
Ma poi, dopo la disfatta degli azzurri contro l’Uruguay, mentre discutevo col compare su quante ore di sonno potevamo fare prima di andare al lavoro (non molte, considerando che la partita è finita dopo le 4 di notte), ho realizzato che per i prossimi Mondiali bisognerà aspettare fino al 2018, in Russia.
E subito dopo ho realizzato un’altra cosa: ai prossimi Mondiali avrò 38 anni, anzi ne starò per fare 39.
L’unico mio commento è stato: oh, cazzo.
39 anni. Quasi 40.
Io non so che rapporto col tempo abbiate voi. Immagino che nessuno (o quasi) sia contento di invecchiare. Io rientro in quel “quasi”. Cioè, non è che ne sia contento, ma lo stesso non ne faccio una tragedia. Ho sempre detto che per me i 30 sono stati miliardi di volte meglio dei 20 – e nei miei trenta ho rischiato di morire, il che la dice lunga sui miei vent’anni. L’energia non mi è diminuita nel tempo, anzi, l’esatto opposto. Il tempo, quello è un’altra storia.
Odio il tempo. Lo odio perchè non lo capisco. Sarebbe più giusto dire: perchè non voglio capirlo. Non ho mai ragionato in termini di mesi, anni o chissà che altro. Io sono sempre stato per il “giorno dopo giorno”, un po’ come il motto degli Alcolisti Anonimi, “un giorno alla volta”. Perchè, forse, nella vita ne ho prese un bel po’, e mentre le stai prendendo non ti viene molto da progettare a lungo termine. Quando il dolore ti assale, vuoi solo che passi velocemente. Innesti il pilota automatico, ti copri e aspetti che il momento peggiore della tempesta passi.
E quella tempesta sembra non passare mai.
Così mi sono infilato in qualunque piega del tempo che avessi potuto scorgere, e alcune me le sono anche inventate. Mi piaceva la sospensione, la pausa, il lasciatemi qui e andate avanti voi. Tutti gli appuntamenti che avevo mi suonavano spiacevoli se non fatali, e li rimandavo con estrema facilità. Non me ne importava niente delle tappe fondamentali, me ne sbattevo dell’orologio biologico: che il mondo facesse quel che doveva, a me bastava la mia grotta, la mia donna, la mia tribù e poco altro. Il passare degli anni non mi diceva niente, la modernità era un concetto molto relativo. La maggior parte dei libri che leggevo erano ambientati in epoche passate, e lì mi ci trovavo bene. Ero in ritardo su tutto. Il 2007, per me, è come se fosse successo avantieri. 2007? Già il 2000 è una data recente, e mi ostino a non voler credere che siano passati già 14 anni.
Con queste premesse, si può dire che ero spacciato. Demodè per vocazione, pronto ad essere fatto fuori dal rullo compressore del tempo.
Eppure, proprio quello che doveva tagliarmi fuori e costringermi all’isolamento e alla morte per inedia, alla fine mi ha salvato. Se sono riuscito a passare quello che sono riuscito a passare, lo scorso anno, è stato anche grazie a questa mia attitudine del “giorno dopo giorno”. Mentre la tempesta infuriava (come mai aveva fatto prima), mi sono messo giù ed ho aspettato.
Ho saputo aspettare, e sono stato ricompensato per questo.
Solo adesso mi rendo conto che se avessi guardato troppo in là in quei momenti, sia in avanti che indietro, avrei dato di testa. Non che le tempeste passino senza far danni, ma almeno sono riuscito ad andare avanti, testa bassa muscoli tesi e gambe che pompavano. Un passo alla volta. Un metro alla volta.
Finchè alla fine.
Adesso che la tempesta è passata, è ricominciata questa lotta col quel nemico infinito e invisibile. Certi giorni è un’ansia sottopelle, di quelle senza ragioni apparenti, e altri giorni è una nuvola che ti schiaccia al terreno e ti ricorda che sei mortale più di quanto tu vorresti sapere.
La tempesta non passa lasciandoti indenne, e sicuramente la mia tendenza a nascondermi ancor di più nelle pieghe del tempo, a lasciar passare le ore e i giorni senza una meta, con solo una comoda sopravvivenza come triviale obbiettivo, può trovare qualche spiegazione abbastanza evidente.
Ma non sono solo io, o quel che mi è successo. Proprio poco fa un amico mi ha mandato un messaggio spiegandomi perchè non mi scrive più spesso: “Io lavoro. E trombo. E mangio. E dormo. Fine della mia esistenza”.
So che per lui è così, so che per moltissimi è così. Se sei così fortunato da essere impegnato, non hai più alcun diritto di reclamare qualche ora anche per te. Sarebbe chiedere troppo, quello. Tiriamo tutti avanti, giorno dopo giorno, un giorno alla volta, un centimetro alla volta, sperando di arrivare tutti d’un pezzo fino alla sera, e poi da lì al mattino, e poi ricominciare tutto in loop narcotizzante.
É questa la vita adulta? Allora mi sa che non mi hanno spiegato bene le cose, all’inizio. Più della fatica, più dei capi stronzi, più della futilità di quello che facevo, è sempre stato questo quello che più mi ha fatto girare le palle nei miei 50 lavori: lo spreco continuo, inesorabile, di tempo. Peggio: del MIO tempo. Ne sono sempre stato gelosissimo, volevo essere l’unico che poteva sprecarlo. Pensateci bene: cos’altro vi appartiene di più, davvero, del vostro tempo?
E così eccomi anch’io intrappolato, eccomi a programmare ferie e viaggi, sempre se al capo va bene. Eccomi ad andare avanti senza pensare, e ogni tanto alzare la testa e pensare, wow, è già inverno, siamo a metà anno, ma com’é possibile?, e poi tornare giù a fare la stessa cosa finchè alzi la testa ed un altro anno è andato. Dove? Come? Domande che preferisci non farti.
Per fortuna, non hai più il tempo di fartele.
Cosa c’entra tutto questo pippone con la storia dei Mondiali e della Russia? Non molto, a parte il fatto che rendermene conto è stato come uno di quei momenti di “sveglia”, dove alzi un attimo la testa dalla nuvola grigia dove la tieni immersa tutto il tempo, e realizzi dove sei e QUANDO sei (voi direte: e tu che hai rischiato la vita, avevi bisogno di una partita di calcio per rendertene conto? La mente, specie se pigra, a volte prendere strani sentieri...).
Insomma, ho capito che tra 4 anni sarò un quasi-quarantenne (di nuovo: oh cazzo), e ad un pensiero del genere non posso farla passare liscia. Sono pigro, ho ancora la tendenza al pilota automatico: tutte cose verissime. Ma non posso lasciare che questi 4 anni passino così, senza rumore. Lo devo a me, lo devo ai miei sogni, lo devo anche a Gianka che ogni anno mi sopporta fino alle 4 di notte in macchina mentre discuto di quello che dovrei fare nei mesi successivi, e poi l’anno dopo sono sempre lì a ripetere le stesse cose.
Non ci vuole molto: solo disattivare il pilota automatico di tanto in tanto, aprire gli occhi, vedere che ore sono, che giorno è, prendere le distanze al mondo e le proporzioni al tempo. Provare a sfotticchiarlo qui e lì, prima che mi fotta lui del tutto e definitivamente.
Provare a immaginare come sarò tra 4 anni, se davvero sarò come dicono loro, se sarò come spero io, in che altri guai del cazzo mi caccerò nel frattempo, di cosa riderò e da cosa fuggirò.
E pensarlo senza paura, ma con una voglia di avventura.
Una quasi-curiosità, a voler esagerare.
Cosa c’entrano i Mondiali in Russia con tutto questo? Assolutamente nulla. Non sono un obbiettivo vitale o altro. Ma se riuscirò a farlo, vorrà dire che sarò ancora vivo, 40 anni o meno.
E non è male ricordarselo, ogni tanto.
Ci vediamo tra 4 anni, fanciulli. Preparate vodke e mappe.
E voi cominciate ad allenarvi come si deve, per dio.
До скорого!
Avevo pronti un paio di pensierini sulla polarizzazione del pensiero durante questo evento (roba da farmi denunciare da centinaia di sociologi), su come ventidue tizi che rincorrono una palla riescano a tirare fuori il bello e il brutto (a volte insospettato) da ognuno. Su come venga fuori quella cosa per niente scontata che è il senso di appartenenza ad un Paese.
Ma poi, dopo la disfatta degli azzurri contro l’Uruguay, mentre discutevo col compare su quante ore di sonno potevamo fare prima di andare al lavoro (non molte, considerando che la partita è finita dopo le 4 di notte), ho realizzato che per i prossimi Mondiali bisognerà aspettare fino al 2018, in Russia.
E subito dopo ho realizzato un’altra cosa: ai prossimi Mondiali avrò 38 anni, anzi ne starò per fare 39.
L’unico mio commento è stato: oh, cazzo.
39 anni. Quasi 40.
Io non so che rapporto col tempo abbiate voi. Immagino che nessuno (o quasi) sia contento di invecchiare. Io rientro in quel “quasi”. Cioè, non è che ne sia contento, ma lo stesso non ne faccio una tragedia. Ho sempre detto che per me i 30 sono stati miliardi di volte meglio dei 20 – e nei miei trenta ho rischiato di morire, il che la dice lunga sui miei vent’anni. L’energia non mi è diminuita nel tempo, anzi, l’esatto opposto. Il tempo, quello è un’altra storia.
Odio il tempo. Lo odio perchè non lo capisco. Sarebbe più giusto dire: perchè non voglio capirlo. Non ho mai ragionato in termini di mesi, anni o chissà che altro. Io sono sempre stato per il “giorno dopo giorno”, un po’ come il motto degli Alcolisti Anonimi, “un giorno alla volta”. Perchè, forse, nella vita ne ho prese un bel po’, e mentre le stai prendendo non ti viene molto da progettare a lungo termine. Quando il dolore ti assale, vuoi solo che passi velocemente. Innesti il pilota automatico, ti copri e aspetti che il momento peggiore della tempesta passi.
E quella tempesta sembra non passare mai.
Così mi sono infilato in qualunque piega del tempo che avessi potuto scorgere, e alcune me le sono anche inventate. Mi piaceva la sospensione, la pausa, il lasciatemi qui e andate avanti voi. Tutti gli appuntamenti che avevo mi suonavano spiacevoli se non fatali, e li rimandavo con estrema facilità. Non me ne importava niente delle tappe fondamentali, me ne sbattevo dell’orologio biologico: che il mondo facesse quel che doveva, a me bastava la mia grotta, la mia donna, la mia tribù e poco altro. Il passare degli anni non mi diceva niente, la modernità era un concetto molto relativo. La maggior parte dei libri che leggevo erano ambientati in epoche passate, e lì mi ci trovavo bene. Ero in ritardo su tutto. Il 2007, per me, è come se fosse successo avantieri. 2007? Già il 2000 è una data recente, e mi ostino a non voler credere che siano passati già 14 anni.
Con queste premesse, si può dire che ero spacciato. Demodè per vocazione, pronto ad essere fatto fuori dal rullo compressore del tempo.
Eppure, proprio quello che doveva tagliarmi fuori e costringermi all’isolamento e alla morte per inedia, alla fine mi ha salvato. Se sono riuscito a passare quello che sono riuscito a passare, lo scorso anno, è stato anche grazie a questa mia attitudine del “giorno dopo giorno”. Mentre la tempesta infuriava (come mai aveva fatto prima), mi sono messo giù ed ho aspettato.
Ho saputo aspettare, e sono stato ricompensato per questo.
Solo adesso mi rendo conto che se avessi guardato troppo in là in quei momenti, sia in avanti che indietro, avrei dato di testa. Non che le tempeste passino senza far danni, ma almeno sono riuscito ad andare avanti, testa bassa muscoli tesi e gambe che pompavano. Un passo alla volta. Un metro alla volta.
Finchè alla fine.
Adesso che la tempesta è passata, è ricominciata questa lotta col quel nemico infinito e invisibile. Certi giorni è un’ansia sottopelle, di quelle senza ragioni apparenti, e altri giorni è una nuvola che ti schiaccia al terreno e ti ricorda che sei mortale più di quanto tu vorresti sapere.
La tempesta non passa lasciandoti indenne, e sicuramente la mia tendenza a nascondermi ancor di più nelle pieghe del tempo, a lasciar passare le ore e i giorni senza una meta, con solo una comoda sopravvivenza come triviale obbiettivo, può trovare qualche spiegazione abbastanza evidente.
Ma non sono solo io, o quel che mi è successo. Proprio poco fa un amico mi ha mandato un messaggio spiegandomi perchè non mi scrive più spesso: “Io lavoro. E trombo. E mangio. E dormo. Fine della mia esistenza”.
So che per lui è così, so che per moltissimi è così. Se sei così fortunato da essere impegnato, non hai più alcun diritto di reclamare qualche ora anche per te. Sarebbe chiedere troppo, quello. Tiriamo tutti avanti, giorno dopo giorno, un giorno alla volta, un centimetro alla volta, sperando di arrivare tutti d’un pezzo fino alla sera, e poi da lì al mattino, e poi ricominciare tutto in loop narcotizzante.
É questa la vita adulta? Allora mi sa che non mi hanno spiegato bene le cose, all’inizio. Più della fatica, più dei capi stronzi, più della futilità di quello che facevo, è sempre stato questo quello che più mi ha fatto girare le palle nei miei 50 lavori: lo spreco continuo, inesorabile, di tempo. Peggio: del MIO tempo. Ne sono sempre stato gelosissimo, volevo essere l’unico che poteva sprecarlo. Pensateci bene: cos’altro vi appartiene di più, davvero, del vostro tempo?
E così eccomi anch’io intrappolato, eccomi a programmare ferie e viaggi, sempre se al capo va bene. Eccomi ad andare avanti senza pensare, e ogni tanto alzare la testa e pensare, wow, è già inverno, siamo a metà anno, ma com’é possibile?, e poi tornare giù a fare la stessa cosa finchè alzi la testa ed un altro anno è andato. Dove? Come? Domande che preferisci non farti.
Per fortuna, non hai più il tempo di fartele.
Cosa c’entra tutto questo pippone con la storia dei Mondiali e della Russia? Non molto, a parte il fatto che rendermene conto è stato come uno di quei momenti di “sveglia”, dove alzi un attimo la testa dalla nuvola grigia dove la tieni immersa tutto il tempo, e realizzi dove sei e QUANDO sei (voi direte: e tu che hai rischiato la vita, avevi bisogno di una partita di calcio per rendertene conto? La mente, specie se pigra, a volte prendere strani sentieri...).
Insomma, ho capito che tra 4 anni sarò un quasi-quarantenne (di nuovo: oh cazzo), e ad un pensiero del genere non posso farla passare liscia. Sono pigro, ho ancora la tendenza al pilota automatico: tutte cose verissime. Ma non posso lasciare che questi 4 anni passino così, senza rumore. Lo devo a me, lo devo ai miei sogni, lo devo anche a Gianka che ogni anno mi sopporta fino alle 4 di notte in macchina mentre discuto di quello che dovrei fare nei mesi successivi, e poi l’anno dopo sono sempre lì a ripetere le stesse cose.
Non ci vuole molto: solo disattivare il pilota automatico di tanto in tanto, aprire gli occhi, vedere che ore sono, che giorno è, prendere le distanze al mondo e le proporzioni al tempo. Provare a sfotticchiarlo qui e lì, prima che mi fotta lui del tutto e definitivamente.
Provare a immaginare come sarò tra 4 anni, se davvero sarò come dicono loro, se sarò come spero io, in che altri guai del cazzo mi caccerò nel frattempo, di cosa riderò e da cosa fuggirò.
E pensarlo senza paura, ma con una voglia di avventura.
Una quasi-curiosità, a voler esagerare.
Cosa c’entrano i Mondiali in Russia con tutto questo? Assolutamente nulla. Non sono un obbiettivo vitale o altro. Ma se riuscirò a farlo, vorrà dire che sarò ancora vivo, 40 anni o meno.
E non è male ricordarselo, ogni tanto.
Ci vediamo tra 4 anni, fanciulli. Preparate vodke e mappe.
E voi cominciate ad allenarvi come si deve, per dio.
До скорого!
mercoledì 28 maggio 2014
Un anno (e quasi 3 settimane) dopo
Il 10 maggio ho fatto un anno dalla mia operazione –sì, insomma, da quel giorno lì.
Ho volutamente fatto passare quasi 3 settimane per scriverne, ed è strano per uno come me, fissato con date e anniversari (e che odia i compleanni).
Avevo le mie ragioni. Un po’ non volevo ripetere quello che ho già detto in questi ultimi mesi, e un po’ ero troppo preso dal momento, che è stato emozionante e difficile da descrivere. Così difficile che ho rinunciato, e per una volta le mie velleità da scrittore c’entrano poco. Ho capito che avrei banalizzato un momento per me importante, e allora ho deciso di godermelo e basta, condividendolo con le persone a cui voglio bene.
Ancora adesso, dopo quasi 3 settimane, non è facile trovare le parole. Ho sempre ritenuto un po’ caricaturali quelle immagini del reduce di guerra che se ne sta isolato da tutti, a fissare un muro, ubriacarsi e cercare di dimenticare.
Ho cominciata a vederla da un’altra prospettiva quando ho letto alcuni dei racconti di Hemingway. L’ho vista ancora più chiaramente quando è capitato a me.
Perchè di una guerra si è trattato (come avevo gia' scritto qui). Una guerra che hai combattuto col conforto di tanti altri (per fortuna), ma che, dopo qualche tempo, solo tu ricordi e rivivi.
É una sensazione potente, nonostante sia indefinita e possa perdere i contorni che aveva all’inizio, così che il ricordo sbiadisce e resta una sottile inquietudine ed una serietà che in quel momento non ti spieghi.
Si pensa che i reduci siano fortunati per il solo fatto di aver superato la guerra, rispetto a tanti altri loro commilitoni che non ce l’hanno fatta. Io non sono così sicuro che vada sempre così.
Quello che è certo è che, in una forma o nell’altra, quella guerra ti resta dentro e ti lascia cicatrici che nessuno vede se non te, e le persone che ti amano.
Alcuni reduci si innamorano delle loro ferite, come se fossero l’abisso di Nietsche che finisce per scrutarti dentro ed inghiottirti.
Altri cercano con tutte le forze di cancellare quel ricordo, ignorando la crudeltà di una mente capricciosa.
Ed io?
Io non so che reduce sono. Magari leggendo i miei ultimi post sul Morgana sembrerebbe che io non parli d’altro, e farei fatica a far capire che in realtà ne scrivo qui proprio perchè non ne parlo (quasi) mai.
So poco sul dopoguerra. So che è difficile trovare un equilibrio, perchè le forze che erano in campo prima della guerra adesso sono cambiate –perchè tu sei cambiato. Più forte, più fragile, più allegro, più triste... semplici giochi di luci, visioni parziali che non fanno capire il totale.
So che non è facile.
Se dicessi che il momento più duro è stato quel giorno di un anno (e quasi 3 settimane) fa, e poi basta, mentirei.
Se dicessi, però, che la parte più dolorosa è stata dopo, mentirei ugualmente.
La verità è che le guerre non si dimenticano, ma si accettano. Non si può vivere con la mente ancora in trincea, perchè sennò si è reduci solo col corpo. Allo stesso tempo tutta quella notte, una volta abbracciata, può farci apprezzare ogni raggio di sole, scoprirlo, amarlo, guardarlo con occhi nuovi.
Trovarci una nuova vita.
Questo è il passato –con cui bisogna fare i conti, con rispetto ma anche con decisione.
Il presente sono io che ho di nuovo in mano questa vita, e sento come se ce l’avessi per la prima volta.
Il futuro è un viaggio che farò tra due mesi. Un viaggio che mi riporterà a casa, e che farò con una persona che già adesso è diventata la mia casa.
Ho comprato il biglietto qualche giorno fa, e mentre lo stringevo tra le mani, ho provato un’emozione molto forte.
Ed è stato bello, perchè credevo che la guerra si fosse portata via tutti i colori migliori.
Ancora una volta ho capito che c’è sempre un posto dove andare, c’è ancora tanta strada da fare, e che è bello poterlo fare con le persone che ami.
Ho capito che posso ancora diventare serio senza sapere perchè, qualche volta, ma mi ricordo spesso di sorridere e, come quel giorno, di ridere con gli occhi e col cuore.
Che dentro ho notte e giorno, che non abbandonerò mai nessuno dei due, perchè non esiste pace senza la guerra.
E pace, adesso, è tutto ciò che voglio.
Alla prossima,
Zango
P.S. Gente italica, get ready for some Zango Love!
Ho volutamente fatto passare quasi 3 settimane per scriverne, ed è strano per uno come me, fissato con date e anniversari (e che odia i compleanni).
Avevo le mie ragioni. Un po’ non volevo ripetere quello che ho già detto in questi ultimi mesi, e un po’ ero troppo preso dal momento, che è stato emozionante e difficile da descrivere. Così difficile che ho rinunciato, e per una volta le mie velleità da scrittore c’entrano poco. Ho capito che avrei banalizzato un momento per me importante, e allora ho deciso di godermelo e basta, condividendolo con le persone a cui voglio bene.
Ancora adesso, dopo quasi 3 settimane, non è facile trovare le parole. Ho sempre ritenuto un po’ caricaturali quelle immagini del reduce di guerra che se ne sta isolato da tutti, a fissare un muro, ubriacarsi e cercare di dimenticare.
Ho cominciata a vederla da un’altra prospettiva quando ho letto alcuni dei racconti di Hemingway. L’ho vista ancora più chiaramente quando è capitato a me.
Perchè di una guerra si è trattato (come avevo gia' scritto qui). Una guerra che hai combattuto col conforto di tanti altri (per fortuna), ma che, dopo qualche tempo, solo tu ricordi e rivivi.
É una sensazione potente, nonostante sia indefinita e possa perdere i contorni che aveva all’inizio, così che il ricordo sbiadisce e resta una sottile inquietudine ed una serietà che in quel momento non ti spieghi.
Si pensa che i reduci siano fortunati per il solo fatto di aver superato la guerra, rispetto a tanti altri loro commilitoni che non ce l’hanno fatta. Io non sono così sicuro che vada sempre così.
Quello che è certo è che, in una forma o nell’altra, quella guerra ti resta dentro e ti lascia cicatrici che nessuno vede se non te, e le persone che ti amano.
Alcuni reduci si innamorano delle loro ferite, come se fossero l’abisso di Nietsche che finisce per scrutarti dentro ed inghiottirti.
Altri cercano con tutte le forze di cancellare quel ricordo, ignorando la crudeltà di una mente capricciosa.
Ed io?
Io non so che reduce sono. Magari leggendo i miei ultimi post sul Morgana sembrerebbe che io non parli d’altro, e farei fatica a far capire che in realtà ne scrivo qui proprio perchè non ne parlo (quasi) mai.
So poco sul dopoguerra. So che è difficile trovare un equilibrio, perchè le forze che erano in campo prima della guerra adesso sono cambiate –perchè tu sei cambiato. Più forte, più fragile, più allegro, più triste... semplici giochi di luci, visioni parziali che non fanno capire il totale.
So che non è facile.
Se dicessi che il momento più duro è stato quel giorno di un anno (e quasi 3 settimane) fa, e poi basta, mentirei.
Se dicessi, però, che la parte più dolorosa è stata dopo, mentirei ugualmente.
La verità è che le guerre non si dimenticano, ma si accettano. Non si può vivere con la mente ancora in trincea, perchè sennò si è reduci solo col corpo. Allo stesso tempo tutta quella notte, una volta abbracciata, può farci apprezzare ogni raggio di sole, scoprirlo, amarlo, guardarlo con occhi nuovi.
Trovarci una nuova vita.
Questo è il passato –con cui bisogna fare i conti, con rispetto ma anche con decisione.
Il presente sono io che ho di nuovo in mano questa vita, e sento come se ce l’avessi per la prima volta.
Il futuro è un viaggio che farò tra due mesi. Un viaggio che mi riporterà a casa, e che farò con una persona che già adesso è diventata la mia casa.
Ho comprato il biglietto qualche giorno fa, e mentre lo stringevo tra le mani, ho provato un’emozione molto forte.
Ed è stato bello, perchè credevo che la guerra si fosse portata via tutti i colori migliori.
Ancora una volta ho capito che c’è sempre un posto dove andare, c’è ancora tanta strada da fare, e che è bello poterlo fare con le persone che ami.
Ho capito che posso ancora diventare serio senza sapere perchè, qualche volta, ma mi ricordo spesso di sorridere e, come quel giorno, di ridere con gli occhi e col cuore.
Che dentro ho notte e giorno, che non abbandonerò mai nessuno dei due, perchè non esiste pace senza la guerra.
E pace, adesso, è tutto ciò che voglio.
Alla prossima,
Zango
P.S. Gente italica, get ready for some Zango Love!
giovedì 22 maggio 2014
Alla fine di tutte le strade del mondo
Alla fine di tutte
le strade del mondo
mi troverai qui
Mi troverai avvolto
nei miei misteri insoluti, nelle mie
sere pensierose
mi troverai armato e nudo
mi troverai
Mi troverai qui
dopo tanto vagare
dopo tutte le strade
ed avrai un cognome
che li contiene tutti
e così anch’io
Mi troverai qui
dove i tramonti sono
senza importanza & bellissimi
dove ogni notte barcolla
dentro un’alba
dove non esiste
nessun dove
Mi troverai qui
ed io troverò te
e se saremo
fortunati abbastanza
il mondo non ci avrà
rubato tutto
non ci avrà
indurito troppo
non avrà reso il nostro
sonno
solo otto ore di buio
tra un dolore e
l’altro
Ma sarà rimasto qualche
sogno
come evaso fuggiasco
ed in quel sogno
continueremo ad incontrarci
alla fine di
tutte le strade
del
mondo.
Marco Zangari © 2014
le strade del mondo
mi troverai qui
Mi troverai avvolto
nei miei misteri insoluti, nelle mie
sere pensierose
mi troverai armato e nudo
mi troverai
Mi troverai qui
dopo tanto vagare
dopo tutte le strade
ed avrai un cognome
che li contiene tutti
e così anch’io
Mi troverai qui
dove i tramonti sono
senza importanza & bellissimi
dove ogni notte barcolla
dentro un’alba
dove non esiste
nessun dove
Mi troverai qui
ed io troverò te
e se saremo
fortunati abbastanza
il mondo non ci avrà
rubato tutto
non ci avrà
indurito troppo
non avrà reso il nostro
sonno
solo otto ore di buio
tra un dolore e
l’altro
Ma sarà rimasto qualche
sogno
come evaso fuggiasco
ed in quel sogno
continueremo ad incontrarci
alla fine di
tutte le strade
del
mondo.
Marco Zangari © 2014
domenica 4 maggio 2014
Stanza 302
La stanza 302 del Morgana si affaccia sul Ponte della Scienza. Si sente odore di umido. Forse semplicemente perché è piovuto e le finestre della stanza sono rimaste aperte. I vetri sono come quelli inglesi. Si aprono e si chiudono verticalmente, abbassandoli o alzandoli, applicando una certa pressione.
Stavolta scelgo di osservare questo punto della città da qui, per avere un punto di vista più "giovane". L'industrializzazione avviata negli anni '30 si fonde con gli ambiziosi progetti del nuovo millennio centrati sulle arti visive e quelle culinarie tali da rendere il quartiere estremamente culturale, oltre che moderno.
I graffiti sui muri che si osservano da qui sembrano solo una testimonianza dell'arte contemporanea degli anni '10.
Quell'uomo, a passeggio col cane, sembra parte di un dipinto dalla composizione minuziosamente studiata. Il Gazometro dietro appare come soggetto principale.
Lascio i bagagli accanto alla scrivania e decido di scendere nella hall.
Oggi mi hanno riservato uno spritz di benvenuto. Per tutti gli ospiti del 3° piano c'è anche un aperitivo con il buon Ozpetek con il quale dissertare di architettura e fotografia dalle ore 19.00.
Mentre sorseggio l'alcolico, osservando due giovani giocare a biliardo, mi chiedo come potrebbe essere la mia vita senza questo luogo, come potrei sentirmi privata di questi momenti lenti e preziosissimi.
La mia unica ambizione nella vita forse consiste semplicemente nel poter continuare ad assaporare attimi tanto intimi e spensierati, ogni volta che io ne senta l'esigenza.
Domani alloggerò nella stanza 207, con vista mare.
Perchè sentire l'ebrezza del vento che mi scompiglia i capelli è una delle cose che mi mancano.
C'è anche l'odore di scoglio e di pesce fresco. La vista del tramonto su un orizzonte aperto.
Osservare i surfisti destreggiare le onde sulle loro tavole bianche.
Sentire le campane in lontananza. Bere un bicchiere di vino bianco seduta al bancone del bar e guardare fuori la risacca del mare. Andare e venire.
Ora mi lancio sul buffet. C'è un tagliere di formaggi, assortito con diverse varietà di marmellate e miele, che mi attende.
Stavolta scelgo di osservare questo punto della città da qui, per avere un punto di vista più "giovane". L'industrializzazione avviata negli anni '30 si fonde con gli ambiziosi progetti del nuovo millennio centrati sulle arti visive e quelle culinarie tali da rendere il quartiere estremamente culturale, oltre che moderno.
I graffiti sui muri che si osservano da qui sembrano solo una testimonianza dell'arte contemporanea degli anni '10.
Quell'uomo, a passeggio col cane, sembra parte di un dipinto dalla composizione minuziosamente studiata. Il Gazometro dietro appare come soggetto principale.
Lascio i bagagli accanto alla scrivania e decido di scendere nella hall.
Oggi mi hanno riservato uno spritz di benvenuto. Per tutti gli ospiti del 3° piano c'è anche un aperitivo con il buon Ozpetek con il quale dissertare di architettura e fotografia dalle ore 19.00.
Mentre sorseggio l'alcolico, osservando due giovani giocare a biliardo, mi chiedo come potrebbe essere la mia vita senza questo luogo, come potrei sentirmi privata di questi momenti lenti e preziosissimi.
La mia unica ambizione nella vita forse consiste semplicemente nel poter continuare ad assaporare attimi tanto intimi e spensierati, ogni volta che io ne senta l'esigenza.
Domani alloggerò nella stanza 207, con vista mare.
Perchè sentire l'ebrezza del vento che mi scompiglia i capelli è una delle cose che mi mancano.
C'è anche l'odore di scoglio e di pesce fresco. La vista del tramonto su un orizzonte aperto.
Osservare i surfisti destreggiare le onde sulle loro tavole bianche.
Sentire le campane in lontananza. Bere un bicchiere di vino bianco seduta al bancone del bar e guardare fuori la risacca del mare. Andare e venire.
Ora mi lancio sul buffet. C'è un tagliere di formaggi, assortito con diverse varietà di marmellate e miele, che mi attende.
sabato 19 aprile 2014
Rebels2014: La nostra ultima Rivoluzione
La nostra ultima Rivoluzione
è
lasciare gli ultimi bottoni
della camicia
aperti
o mettere la cravatta
quando non serve
É arrivare in ritardo
al lavoro
o decidere di andare e
non fare niente
per quel giorno
-sempre se loro
non lo
scoprono
É non leggere il libro
del momento (ma sapere di
cosa parla)
e dire che il matrimonio
è un pezzo di
carta
É una birra in più
di venerdì sera
è un viaggio esotico
e cancellare gli ex
da Facebook
É avere una tv
e dire di non guardarla mai
è parlare di libertà di stampa
e dimenticarsi
di tutte le
altre
É postare i link che parlino della tua
indignazione
e quasi andare alla prossima
manifestazione
É ricordare un sogno
ogni tanto
e dire che in fondo
c’è ancora
tempo
La nostra ultima Rivoluzione
è non ammettere
che tutte le altre
hanno ormai
fallito.
Marco Zangari © 2014
Foto: Giancarlo Privitera © 2012
è
lasciare gli ultimi bottoni
della camicia
aperti
o mettere la cravatta
quando non serve
É arrivare in ritardo
al lavoro
o decidere di andare e
non fare niente
per quel giorno
-sempre se loro
non lo
scoprono
É non leggere il libro
del momento (ma sapere di
cosa parla)
e dire che il matrimonio
è un pezzo di
carta
É una birra in più
di venerdì sera
è un viaggio esotico
e cancellare gli ex
da Facebook
É avere una tv
e dire di non guardarla mai
è parlare di libertà di stampa
e dimenticarsi
di tutte le
altre
É postare i link che parlino della tua
indignazione
e quasi andare alla prossima
manifestazione
É ricordare un sogno
ogni tanto
e dire che in fondo
c’è ancora
tempo
La nostra ultima Rivoluzione
è non ammettere
che tutte le altre
hanno ormai
fallito.
Marco Zangari © 2014
Foto: Giancarlo Privitera © 2012
domenica 23 marzo 2014
Rebels2014: Poteva andarci peggio
Poteva andarci
peggio
-potevamo diventare come quelli
che commentano le notizie
sui quotidiani online
come quelli che leggono
un libro l’anno
per non sentirsi in colpa
che bastano titoli & facce
e non serve mai
andare più a fondo
come quelli che sorridono solo
nella foto profilo
che si vendono nella maniera più
brillante
e offline
non sono niente
Potevamo diventare come quelli
che dicono “ormai”
che le rivoluzioni le vedono solo
in streaming
per commentarle poi a
pranzo con i
colleghi
Potevamo diventare come quelli che
dieta a maggio e dopo le feste
city car, iTunes, gita fuori porta
per la crisi
come quelli che hanno tante citazioni
e nemmeno un pensiero
quelli che non si guardano mai
indietro
quelli che si sono dimenticati
che c’erano anche loro
Potevo diventare come quello
ancora aggrappato a
quella città, quel tempo
quell’illusione
quel dolore
Potevo
ed era facile
diventarlo
Ma grazie a te, a voi
alle trincee e alle risate
con fatica
a stento
sono riuscito a
diventare
me
stesso.
Marco Zangari © 2014
(pubblicato anche su Last Drink in Big Sur)
peggio
-potevamo diventare come quelli
che commentano le notizie
sui quotidiani online
come quelli che leggono
un libro l’anno
per non sentirsi in colpa
che bastano titoli & facce
e non serve mai
andare più a fondo
come quelli che sorridono solo
nella foto profilo
che si vendono nella maniera più
brillante
e offline
non sono niente
Potevamo diventare come quelli
che dicono “ormai”
che le rivoluzioni le vedono solo
in streaming
per commentarle poi a
pranzo con i
colleghi
Potevamo diventare come quelli che
dieta a maggio e dopo le feste
city car, iTunes, gita fuori porta
per la crisi
come quelli che hanno tante citazioni
e nemmeno un pensiero
quelli che non si guardano mai
indietro
quelli che si sono dimenticati
che c’erano anche loro
Potevo diventare come quello
ancora aggrappato a
quella città, quel tempo
quell’illusione
quel dolore
Potevo
ed era facile
diventarlo
Ma grazie a te, a voi
alle trincee e alle risate
con fatica
a stento
sono riuscito a
diventare
me
stesso.
Marco Zangari © 2014
(pubblicato anche su Last Drink in Big Sur)
lunedì 17 marzo 2014
Di trentenni, sagge verità, rompimenti di cazzo e birre al sole
A trent’anni passati (abbondantemente), puoi cominciare a dire di conoscerti un poco –almeno in parte. E non è una sensazione troppo brutta, anzi.
Te ne rendi conto in maniera intuitiva, senza molti ragionamenti: come capire al volo cosa ti va per cena, o il tipo di compagnia che vorresti per il finesettimana. Piccole cose, apparentemente esteriori, che però dicono tanto.
Oggi, per esempio. Mi sono preso una giornata di vacanza al lavoro senza un motivo particolare –solo perchè me la potevo prendere, tutto qui. Sapevo che la giornata sarebbe stata bella, nonostante siamo ormai in autunno e la serate comincino ad allungarsi e rinfrescarsi. Dopo un finesettimana di pioggia torrenziale, Sydney avrebbe preso per il culo tutti coloro che sarebbero andati al lavoro con una mattina da sole estiva e grassa.
Avevo detto agli amici che sarei andato al mare. Eppure, per quelli che mi conoscevano, era difficile crederlo. Probabilmente pensavano che avrei preferito schiaffarmi sull’amaca in giardino a prendere il sole, leggere, bere birra fredda e non pensare a niente –che è poi esattamente quello che ho fatto.
Non c’entra solo la pigrizia. Non c’entra nessuna ragione materiale nè di distanza, e non è che non mi piaccia andare al mare.
Solo questo: per chi mi conosce bene, era facile immaginare cosa avrei fatto.
Crescere vuol dire cominciare a sentirsi bene nella propria pelle. Non proprio piacersi, però sappiamo cosa possiamo e non possiamo fare, come una vecchia macchina che arranca sicura.
Non vale per tutti, chiaro. Le persone ottuse lo sono anche a 15 anni, spesso senza possibilità di redenzione. Però, superati i 30, finalmente ci capiamo un po’ di più. Da quel caos continuo, incadescente, strappiamo fuori alcuni princìpi e mezze verità che precisano quello che siamo e che cavolo ci facciamo in mezzo agli altri su questo simpatico pianeta. Bene o male, siamo meno estranei di quando avevamo vent’anni –e anche questa direi che é una gran cazzo di bella sensazione, dopo quel rollìo continuo, ubriaco, di anni passati a sentirci incompresi, fuori di testa, troppo stupidi o troppo sprecati.
Non ci si ama per forza, quello no: ci si comincia ad accettare, e forse in qualche misura anche a perdonare. 30 anni sono un discreto periodo da mettere tutto insieme (anche se, di nuovo, questo vale più per alcuni che per altri), e lì in mezzo ci sono già abbastanza sangue, amori, delusioni, errori e depressioni per una decina di romanzi. É chiaro che a quel punto, conoscersi un po’ aiuta a sopportare tutto questo carico.
Non si tratta di evitare altri sbagli in futuro: la storia, lo sappiamo, tende a ripetersi quasi sempre, in una forma o nell’altra. Lì bisogna essere fortunati o forti abbastanza da rompere quel cerchio maledetto, o trovare qualcuno che ci aiuti a farlo.
Ed io, in quello, sono stato molto fortunato.
Il punto è, finalmente, poter dire: io sono così, prendere o lasciare. Cominciamo col dirlo a noi stessi (nei momenti in cui non possiamo fare di più, o diversamente) e finiamo per dirlo anche a chi ci circonda. Non è una difesa, non è un rinchiudersi, non è un non voler evolvere o migliorarsi: significa dire, questo è quello che sono, che gli eventi mi hanno fatto diventare, che io sono stato in grado di dirigere, che i giorni di sole e quelli di pioggia sono riusciti a forgiare. E non è poco.
Per me è rassicurante alzarmi la mattina e sapere che le mie mani sono ancora attaccate ai polsi, che il mio cuore funziona ancora a dovere, e che so perdermi e poi trovarmi (quasi sempre). Sapere che ho i miei punti oscuri e i miei slanci che sorprendono anche me, i miei molti vizi e le mie virtu' da lunedi' mattina, i miei pregiudizi e i miei sogni, i miei limiti e quello che ancora posso e voglio fare. E, per quanto possibile, faccio in modo che questo non resti solo una frasetta del cazzo da linkare su Facebook.
Anche perchè, alla mia età, non saprei come fare.
Poi è vero, magari possiamo capirci ma non venire capiti dagli altri. Io ho avuto, per esempio, sempre parecchi problemi col mio concetto di socialità.
A vent’anni il mio motto era lo stesso del vecchio Bukowski: Umanità, mi stai sul cazzo da sempre.
Non è che sia cambiato molto da allora, ma ho smorzato un po’ i toni. L’ho fatto sia perchè ero stanco di combattere ogni giorno per dover spiegare questo mio diritto alla solitudine, sia perchè, dovendo avere a che fare per lavoro con centinaia di persone, ho imparato a conoscere meglio questa mia asocialità, a capire che non è totale ma va a periodi e maree, e quando una di queste maree mi sommerge so ormai che devo star fermo ed aspettare che passi, e nel frattempo proteggere quell’ “uccello azzurro” che mi canta dentro (per citare ancora il vecchio Buk) dalla stupidità e banalità violenta degli altri. Per me vale sempre il principio di quell’altro figlio di puttana di Sartre: l’inferno sono gli altri.
Per chi non vive queste cose, non è semplice da accettare, ma come dicevamo qualche giorno fa col compare Mauro, c’è un’altra cosa che a trent’anni ormai hai capito, e cioè che vuoi meno rompimenti di cazzo possibili. Di quelli ce ne sono già troppi, fisiologici, nel vivere quotidiano, nel lavorare, nel tirare avanti giorno per giorno. A questo punto diventa vitale eliminare tutti quelli superflui.
Per questo adesso ogni amico, ogni donna che entrano nella nostra vita, devono avere un’idea del dove stanno entrando. Devono prenderci così come siamo, e pretendere lo stesso con loro. In caso contrario, la porta è quella. Mentre i quaranta diventano un numero quasi concreto (argh!), il tempo per discussioni e rompimenti di cazzo diminuisce drasticamente: o rispetti quello che trovi, o è meglio che continui dritto.
Con le donne è fondamentale: ce ne sono troppe in giro (e vale lo stesso anche per gli uomini, ovviamente) che, più che te, vogliono una versione “migliorata” di quello che sei, magari in prospettiva futura. Il che mi sembra un ottimo modo per non conoscere mai la persona che hai davanti.
Non voglio un mondo di asociali: voglio solo che la mia asocialità venga riconosciuta come una parte di me, nè da estirpare nè da glorificare, semplicemente una parte di me –e come questo, anche tutto il resto, a prescindere che lo si classifichi come pregio o come difetto.
So che sembra tutto il discorso di un vecchio scassacazzo e brontolone. Mi sa che non siete lontani dalla verità.
A costo di ripetermi, ci tengo a dirlo: a me i trenta piacciono. E nemmeno poco.
E non mi sta troppo sui coglioni neanche questo vecchio bisbetico.
Tutto qui.
Ora scusate, ma ho un’amaca che mi aspetta.
Buona vita che vi è capitata a tutti.
Zango
Te ne rendi conto in maniera intuitiva, senza molti ragionamenti: come capire al volo cosa ti va per cena, o il tipo di compagnia che vorresti per il finesettimana. Piccole cose, apparentemente esteriori, che però dicono tanto.
Oggi, per esempio. Mi sono preso una giornata di vacanza al lavoro senza un motivo particolare –solo perchè me la potevo prendere, tutto qui. Sapevo che la giornata sarebbe stata bella, nonostante siamo ormai in autunno e la serate comincino ad allungarsi e rinfrescarsi. Dopo un finesettimana di pioggia torrenziale, Sydney avrebbe preso per il culo tutti coloro che sarebbero andati al lavoro con una mattina da sole estiva e grassa.
Avevo detto agli amici che sarei andato al mare. Eppure, per quelli che mi conoscevano, era difficile crederlo. Probabilmente pensavano che avrei preferito schiaffarmi sull’amaca in giardino a prendere il sole, leggere, bere birra fredda e non pensare a niente –che è poi esattamente quello che ho fatto.
Non c’entra solo la pigrizia. Non c’entra nessuna ragione materiale nè di distanza, e non è che non mi piaccia andare al mare.
Solo questo: per chi mi conosce bene, era facile immaginare cosa avrei fatto.
Crescere vuol dire cominciare a sentirsi bene nella propria pelle. Non proprio piacersi, però sappiamo cosa possiamo e non possiamo fare, come una vecchia macchina che arranca sicura.
Non vale per tutti, chiaro. Le persone ottuse lo sono anche a 15 anni, spesso senza possibilità di redenzione. Però, superati i 30, finalmente ci capiamo un po’ di più. Da quel caos continuo, incadescente, strappiamo fuori alcuni princìpi e mezze verità che precisano quello che siamo e che cavolo ci facciamo in mezzo agli altri su questo simpatico pianeta. Bene o male, siamo meno estranei di quando avevamo vent’anni –e anche questa direi che é una gran cazzo di bella sensazione, dopo quel rollìo continuo, ubriaco, di anni passati a sentirci incompresi, fuori di testa, troppo stupidi o troppo sprecati.
Non ci si ama per forza, quello no: ci si comincia ad accettare, e forse in qualche misura anche a perdonare. 30 anni sono un discreto periodo da mettere tutto insieme (anche se, di nuovo, questo vale più per alcuni che per altri), e lì in mezzo ci sono già abbastanza sangue, amori, delusioni, errori e depressioni per una decina di romanzi. É chiaro che a quel punto, conoscersi un po’ aiuta a sopportare tutto questo carico.
Non si tratta di evitare altri sbagli in futuro: la storia, lo sappiamo, tende a ripetersi quasi sempre, in una forma o nell’altra. Lì bisogna essere fortunati o forti abbastanza da rompere quel cerchio maledetto, o trovare qualcuno che ci aiuti a farlo.
Ed io, in quello, sono stato molto fortunato.
Il punto è, finalmente, poter dire: io sono così, prendere o lasciare. Cominciamo col dirlo a noi stessi (nei momenti in cui non possiamo fare di più, o diversamente) e finiamo per dirlo anche a chi ci circonda. Non è una difesa, non è un rinchiudersi, non è un non voler evolvere o migliorarsi: significa dire, questo è quello che sono, che gli eventi mi hanno fatto diventare, che io sono stato in grado di dirigere, che i giorni di sole e quelli di pioggia sono riusciti a forgiare. E non è poco.
Per me è rassicurante alzarmi la mattina e sapere che le mie mani sono ancora attaccate ai polsi, che il mio cuore funziona ancora a dovere, e che so perdermi e poi trovarmi (quasi sempre). Sapere che ho i miei punti oscuri e i miei slanci che sorprendono anche me, i miei molti vizi e le mie virtu' da lunedi' mattina, i miei pregiudizi e i miei sogni, i miei limiti e quello che ancora posso e voglio fare. E, per quanto possibile, faccio in modo che questo non resti solo una frasetta del cazzo da linkare su Facebook.
Anche perchè, alla mia età, non saprei come fare.
Poi è vero, magari possiamo capirci ma non venire capiti dagli altri. Io ho avuto, per esempio, sempre parecchi problemi col mio concetto di socialità.
A vent’anni il mio motto era lo stesso del vecchio Bukowski: Umanità, mi stai sul cazzo da sempre.
Non è che sia cambiato molto da allora, ma ho smorzato un po’ i toni. L’ho fatto sia perchè ero stanco di combattere ogni giorno per dover spiegare questo mio diritto alla solitudine, sia perchè, dovendo avere a che fare per lavoro con centinaia di persone, ho imparato a conoscere meglio questa mia asocialità, a capire che non è totale ma va a periodi e maree, e quando una di queste maree mi sommerge so ormai che devo star fermo ed aspettare che passi, e nel frattempo proteggere quell’ “uccello azzurro” che mi canta dentro (per citare ancora il vecchio Buk) dalla stupidità e banalità violenta degli altri. Per me vale sempre il principio di quell’altro figlio di puttana di Sartre: l’inferno sono gli altri.
Per chi non vive queste cose, non è semplice da accettare, ma come dicevamo qualche giorno fa col compare Mauro, c’è un’altra cosa che a trent’anni ormai hai capito, e cioè che vuoi meno rompimenti di cazzo possibili. Di quelli ce ne sono già troppi, fisiologici, nel vivere quotidiano, nel lavorare, nel tirare avanti giorno per giorno. A questo punto diventa vitale eliminare tutti quelli superflui.
Per questo adesso ogni amico, ogni donna che entrano nella nostra vita, devono avere un’idea del dove stanno entrando. Devono prenderci così come siamo, e pretendere lo stesso con loro. In caso contrario, la porta è quella. Mentre i quaranta diventano un numero quasi concreto (argh!), il tempo per discussioni e rompimenti di cazzo diminuisce drasticamente: o rispetti quello che trovi, o è meglio che continui dritto.
Con le donne è fondamentale: ce ne sono troppe in giro (e vale lo stesso anche per gli uomini, ovviamente) che, più che te, vogliono una versione “migliorata” di quello che sei, magari in prospettiva futura. Il che mi sembra un ottimo modo per non conoscere mai la persona che hai davanti.
Non voglio un mondo di asociali: voglio solo che la mia asocialità venga riconosciuta come una parte di me, nè da estirpare nè da glorificare, semplicemente una parte di me –e come questo, anche tutto il resto, a prescindere che lo si classifichi come pregio o come difetto.
So che sembra tutto il discorso di un vecchio scassacazzo e brontolone. Mi sa che non siete lontani dalla verità.
A costo di ripetermi, ci tengo a dirlo: a me i trenta piacciono. E nemmeno poco.
E non mi sta troppo sui coglioni neanche questo vecchio bisbetico.
Tutto qui.
Ora scusate, ma ho un’amaca che mi aspetta.
Buona vita che vi è capitata a tutti.
Zango
lunedì 10 febbraio 2014
Stop & Go
Un anno fa come oggi, cominciava il terremoto.
No, così non va bene: una mia amica, durante il mio recente viaggio in Italia, mi ha detto che dovrei scrivere di qualcos’altro. E allora va bene, visto che è il 2014, e che l’annus horribilis ce lo siamo lasciati dietro, parliamo di qualcosa di diverso. Magari proprio di questo viaggio in Italia.
Non so quando è stato il momento esatto. Forse quando, la mattina dopo Capodanno, pisciavo contro la montagna di rifiuti sotto casa, che non era stata raccolta da settimane. Forse quando ho sorseggiato la mia prima Tennent’s col gruppetto di sempre. Forse quando ho rivisto lo Stretto, o mi sono incazzato di nuovo per il coglione che parcheggia in doppia fila.
Forse, invece, molto prima. Quando sono arrivato già all’aereoporto, senza valigia (è una lunga storia, amici del Morgana, forse un giorno vi racconterò come il Vostro affezionatissimo ha girato mezzo mondo senza effetti personali perchè aveva scordato il bagaglio a casa... e vi farò fare due risate), e lì ho rivisto i miei, e li ho abbracciati.
Sì, forse è stato quello il momento esatto in cui ho capito che ero tornato a casa.
Che poi una cosa va chiarita: un ritorno a casa NON è una vacanza. Ci si va durante la vacanza, certo, ma il paragone finisce qui. Dal momento in cui l’aereo ha toccato suolo a Catania, a quando sono poi ripartito, in doposbronza e con 4 ore di sonno, dal terminal internazionale di Fiumicino, 35 giorni dopo, è stata una non-stop di uscite bevute mangiate facce appuntamenti amici messaggi chiamate notturne giochi discorsi seri discorsi cazzoni risate passeggiate giri in macchina altre mangiate altre bevute sigarette fumate in macchina alle 4 del mattino gatti playstation ricette sveglie sempre troppo presto con mia madre che dice, ancora a letto?
Non credo di aver mai fatto 8 ore di sonno di fila, in quei 35 giorni. Non credo di aver visto il sole per più di 5 volte.
Ecco perchè tornare a casa non è mai una vacanza.
Ma come per magia, nonostante tutto questo (e forse anzi grazie a tutto questo), ritorno sempre con un livello di energia che non si può paragonare a quello pre-partenza. Perchè diciamocelo, amici del Morgana: ‘sto cazzo di viaggio mi serviva. Chiamatelo come volete, ma ci stava.
L’ho fatto per i miei, per stargli vicino dopo un anno che sappiamo tutti, e poi ho capito che lo facevo per me, perchè ero io a volere loro, a volere gli amici, a volere tutto quello che quella terra così avara e distratta è riuscita a darmi (o forse sono riuscito io a strapparlo).
Poi quello che uccide noi espatriati è il tempo: poco, sempre troppo poco anche quando si tratta di più di un mese. Perchè in quel mese ci devi fare entrare tutto quello che di solito starebbe in un anno intero. E allora via, a fare incetta di facce e parole, ad uscire anche quando il fisico non ti regge, perchè “se non lo fai ora, quando potrai farlo di nuovo?”. Probabilmente la stessa cosa l’hanno pensata i miei amici, che l’ultimo giorno erano stremati quanto me.
Perdonatemi, fanciulli, per questa quantità da overdose di Zango. Volevo solo essere sicuro che vi bastasse fino alla prossima.
Io, da parte mia, mi sono preso tutto quello che ho potuto, e ne ho fatto scorta. Ho rivisto tutto, ho reincontrato amici che pensavo perduti, ho rivisto ogni posto con la calma e la semplicità di un sopravvissuto, ho convinto un mio amico a sposarsi (sono pericoloso quando bevo, sappiatelo), ho ritrovato un’amica che ne ha passate di belle, ho fatto un mini-viaggio finale dove ho rivisto altra gente che non vedevo da un pezzo, ho riprovato il piacere di perdersi volontariamente in una città nuova.
Basta? Certo che no. Avevo sempre l’ansia che non bastasse, che dovessi ricaricarmi queste famose pile facendo il pieno ogni giorno.
Poi a Roma passeggiavo da solo (alla fine!) per i Musei Vaticani, e vedendo mummie e reperti di qualche millennio fa, mi dicevo molto banalmente: siamo qui di passaggio –non solo io dall’Australia, ma un po’ tutti- e allora chissenefrega, basta lasciare il nostro segno.
Ed io, a modo mio, spero di averlo lasciato.
Voi con me, lo avete fatto per certo.
É stato un bel giro, è stato un bel ritmo. La nostra porca figura l’abbiamo fatta ancora una volta.
E senza ammetterlo, di questo avevo bisogno: una sosta significativa (non una vacanza), prima di una ripartenza.
Stop & Go.
Per ritornare alla vita che mi è capitata quasi per caso, che qualche volta nell’ultimo anno avevo maledetto, contro la quale avevo urlato, ma che poi mi aveva semplicemente fatto sedere e detto di non preoccuparmi, che qualcosa sarebbe successa.
Qualcosa succede sempre.
Ed è successa.
Ecco perchè, una volta ricaricata la batteria, non vedevo l’ora di ritornare qui a fare il mio pezzo di strada. Con la famiglia di qui, con gli amici di qui.
Con lei, che mi aspettava in aereoporto con un sorriso che stordisce.
Loro sono quelli che mi daranno la carica per arrivare al mio prossimo viaggio in Italia.
E così via, finchè la Emirates non mi farà azionista di maggioranza.
Un anno fa come oggi, cominciava il terremoto. Uno si aspetterebbe di vedere gli orologi fermi all’ora del sisma, come spesso capita.
Ma i terremoti non si rendono conto di una cosa importante: anche se le lancette sembrano ferme, il tempo continua a scorrere.
Eccome, se scorre.
venerdì 3 gennaio 2014
101 strade
Esattamente un anno fa smettevo di fumare. Qualcuno dirà che sono una cazzara o che sto barando perchè continuo ad alimentare la mia dipendenza fisica dalla nicotina avendo solo cambiato il metodo. Si, adesso la vaporizzo, non aspiro i fumi della combustione. But still…
Esattamente un anno fa terminava la mia vita accademica, entravo a far parte di una corporazione (l’Ordine dei Biologi), e sulla carta ero un bel pezzo di carne fresca da macellare. Lavorativamente parlando, si intende. Avevo 101 strade da percorrere, tutte quelle che per pura curiosità e duro lavoro nero mi ero aperta.
Alla fine ne ho scelta una, la meno stabile, la più comoda.
Non so perchè ho sempre scelto i lavori più precari per me. Spesso cerco di giustificare questa stupidità con la volontà di cambiamento. Ed in fondo non è poi tanto una giustificazione. Questa condizione di precariato volontario e autoinflitto mi è indispensabile per permettermi di continuare a crescere, imparare, conoscere, evolvere o tornare indietro. Sono troppo curiosa per fossilizzarmi troppo su una cosa sola. D’altra parte, è anche possibile che io sia ancora la stessa bambina che si stufa dei giocattoli dopo 5 minuti, solo che ora, invece di posare una Barbie, poso una carriera. Qualcuno quest’anno mi ha detto che lo faccio perchè posso permettermelo, perchè ho qualcuno che mi “para il culo” in termini economici, che mi offre un cuscinetto quando le cose vanno male, che mi mantiene. Ma non è così, perchè continuo a pagare la spesa anche quando non lavoro.
La verità, come dicevo in qualche precedente post, è che non voglio accontentarmi. Che voglio poter dire “voglio fare questo”, che voglio svegliarmi la mattina contenta di quello che farò durante la mia giornata, essere contenta di risultati inaspettati e incazzarmi dei fallimenti. Voglio permettermi di scegliere. E continuerò a cercare e a scegliere finchè non troverò qualcosa che, anche dopo 20 anni mi farà svegliare ogni mattina contenta. Un pò come si fa con l’amore.
Lo farò anche quest’anno. Si, cambio di nuovo lavoro. Me lo hanno comunicato il 31 dicembre, Evviva! Ho pianto un pò, poi ho smesso ricordandomi chi fossi.
Inizio quest’anno senza lavoro, senza corporazione, senza alcun rimpianto, con 101 strade da percorrere e con una fottutissima voglia di scoprire cosa succederà domani.
Buona vita a voi! E che sia piena di scelte difficili e di incroci col rosso…
Morgana
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