lunedì 24 novembre 2014

"Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze", Charles Bukowski

Essere scrittori danna l’anima ed è difficile. Se hai talento può lasciarti in una notte di sonno. Ciò che ti fa andare avanti nel gioco non è facile a dirsi. Troppo successo è distruttivo; la mancanza di successo è distruttiva. Un piccolo rifiuto può fare bene all’anima, ma il rifiuto totale crea bisbetici e pazzi, stupratori, sadici, ubriaconi e poeti mancati che picchiano le mogli. Tanto quanto fa il troppo successo.
Anch’io sono stato fuorviato dal concetto romantico della scrittura. Da giovane ho visto troppi film sul grande Artista, e lo scrittore era sempre un tizio tragico e dannatamente interessante con un bel pizzetto, occhi lucenti e verità profonde che gli scaturivano continuamente dalla bocca. Che bello essere così, pensavo, ah. Ma non è così.



Bukowski. Cazzo, lo sapevo che non dovevo cominciare ‘sta cosa delle recensioni. Come diavolo si fa a parlare di Bukowski?
Lo stesso Buk, scrivendo una prefazione per “Chiedi alla polvere” di John Fante, disse: “Fante era il mio dio e io sapevo che gli dèi vanno lasciati in pace, non si andava a bussare alla loro porta”.
Ecco, mi sento più o meno così.
Per parlarne, tratterò di qualcosa che non c’entra niente, una storiella lunga e noiosa che mi permetterà di riempire questo post.
Come alcuni di voi sapranno, nel 2008 ho pubblicato un racconto in una piccola antologia di una casa editrice pressochè sconosciuta. Decisamente non sono ancora molto vicino al Nobel, ma in quel momento mi sembrava una gran bella cosa.
C’erano altri ragazzi in quella antologia, tra cui questo tizio che aveva scritto un racconto dove il protagonista era un super duro che gioca a carte tutta la notte, si guarda qualche tetta nella pubblicità notturne e poi decide di buttarsi dal balcone perchè era malato. Il salto del tizio era completamente imprevisto, e probabilmente qualcuno che ha letto troppo Welsh e troppo Palahniuk (travisandoli completamente) avrà pensato che un bel colpo di scena così avrebbe scioccato il lettore. Io mi sento solo preso in giro. Leggo, e penso ad uno che flette i muscoli senza avere dentro di sè, nei suoi occhi, neanche il coraggio di una minuscola rissa da pub. Ancora una volta, c’è il talento, e poi ci sono i trucchetti.
Bene, questo tizio mi aggiunse come amico su Facebook per qualche motivo. Lo vedevo postare ogni tanto le sue cose maledette, piene di roba dura e parolacce. Mi limitavo a scorrerle. Quasi preferivo i video dei gatti. Mi dimenticai completamente di lui, e non ci parlai mai.
Poi un giorno misi sulla mia pagina Fb qualcosa sul nostro caro Benedetto 16. Doveva essere un “Suca Benedetto” se non ricordo male (era il periodo dei Suca ai personaggi famosi, una di quelle mode del cazzo che però ogni tanto mi facevano ridacchiare mentre tornavo da un turno di 10 ore in magazzino, un po’ come Buk mi sa). Fu allora che il nostro Artista Maledetto (che era così solo in nome dell’arte, ma per tutto il resto si atteggiava a Papa Boy) mi redarguì. “Come ti permetti?” scrisse. “Scriveresti così sul rappresentante di un’altra religione? Faresti lo stesso col Dalai Lama?”. Quando lo lessi, ridacchiai ancora più forte, stirai i miei muscoli doloranti e scrissi l’equivalente di un pernacchio, qualcosa del tipo: “Lo scriverei anche su tua madre, se me ne desse motivo”. Dopodichè lo cancellai dagli amici e dimenticai il tutto con un’altra risata.
Perchè vi ho raccontato questa storiella amena e noiosetta? Boh, forse il caldo australiano mi sta dando alla testa, assieme al Vodka-7 che sto bevendo (in omaggio al Buk di “Donne”).
Forse volevo solo mostrare che in giro, coscienti o meno, ci sono tanti scrittori che sono pesantemente in debito col buon Buk, e ci sono ancora più suoi emulatori. C’è un unico problema: lui era Bukowski, e loro no.
Bukowski si può amare o odiare, ma a meno che non siate morti dentro, non vi lascerà indifferenti. Può piacervi o meno, o vi possono piacere solo alcune sue cose e meno altre (io non vado matto per le poesie, ad esempio, anche se mi hanno influenzato anche quelle), però per chi scrive, bisogna ammettere che Buk ha reso le cose più facili. Ha smontato quella scrittura leziosa, novecentesca, che ammiravamo da troppi secoli senza saperne più il perchè. É arrivato e ci ha detto, come recita uno dei titoli dei suoi libri, che “Shakespeare non l’ha mai fatto”.
Da applausi.
Per tutto questo, per quello che ha fatto, per quello che ha rappresentato, costruendo un personaggio in maniera consapevole ed in fondo anche coerente con quello che era e che ha vissuto, Bukowski può permettersi un po’ quello che cazzo vuole. Prima che ci fossero questi finti bulletti a fare i duri scrivendo di gente che si ammazza senza ragione, c’era lui che era un duro davvero (anche se solo sulla pagina, ma cos’altro vogliamo da un Artista?).
Gli perdoniamo, quindi, qualche eccesso di sbruffonaggine, qualche boutade da cazzaro orgoglioso di esserlo, qualche bicchiere di troppo. La sua forza, in fondo, è sempre stata la sua debolezza, come dimostrano anche i racconti di questo “Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze” (Feltrinelli), una raccolta (ancora una volta postuma; ma quanto cavolo ha scritto quest’uomo?) di suoi pezzi, che vanno da quelli giovanili, pubblicati su riviste del settore, ad articoli scritti pochi mesi prima di morire, nel 1994.
Da seguace di Buk, di quelli che ha letto tutto o quasi, mi permetto di dire che la qualità dei pezzi non è per niente uniforme, ma probabilmente non era quello lo scopo. Mettendo insieme pezzi così diversi che vanno dal racconto di fiction, alla recensione di autori e libri (imperdibile quella fatta ad un suo stesso libro di poesie), agli articoli scritti per la rubrica “Taccuino di un vecchio sporcaccione”, non si vuole ottenere una lettura lineare, ma un’investigazione più approfondita di questo autore, definito genio e buffone in ugual misura. Ci sono i racconti giovanili, che fanno quasi tenerezza nella loro incertezza, come se anche lui dovesse ancora liberarsi dall’influenza dei suoi dèi. Ci sono le critiche letterarie, dove Buk unisce uno stile più sobrio, quasi giornalistico a volte, con altre parti più “sue”. Ci sono i racconti umoristici, grotteschi, tragici, pieni di bevute, scazzottate, sesso a buon mercato, stanze di hotel fatiscenti, depressioni e gloria da doposbronza.
Alcune di queste storie erano già state trattate in altra maniera altrove nella sua opera, o addirittura in altri pezzi di questa raccolta. Buk sembrava come ossessionato da alcune delle storie che aveva vissuto o sentito da qualche parte. Questo potrebbe creare un po’ di ripetitività, specie in chi lo legge per la prima volta e magari non ha letto la versiona “originale” di quelle storie.
Alcuni dei pezzi qui non sono tra i suoi migliori, ed il Buk che ne esce è uno spaccone sempre sbronzo, scrittore di successo e gran scopatore (tutte cose che uno tenderebbe a credere se non conoscesse il resto dell’opera di Buk, dalle “Storie di ordinaria follia” in poi).
Ciò nonostante, ci sono comunque dei bei pezzi come “Reading stupefacente”, ed in generale il tempo passato a leggere Buk non è mai tempo perso. Magari consiglierei, a chi lo dovesse avvicinare per la prima volta, di giocarsela sul sicuro e puntare più su altre opere.
Che altro aggiungere? Lascio concludere lui, con le ultime parole dell’ultimo racconto, ed io me ne torno dov’ero prima, a lasciare in pace i miei dèi.

Ma adesso ho parlato a sufficienza di scrivere poesia; ho ancora tempo stanotte per scriverne un po’. Qualche birra, un sigaro, la musica classica alla radio. Ci si vede.


Consigliato a:
gli ultra' di Buk, o quelli che comunque lo apprezzano; chi non lo conosce ma si e' gia' comprato qualcos'altro di suo; chi ha voglia di una prosa che lo possa far piangere e ridere nel giro di poche pagine.

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