domenica 16 giugno 2013

Survivors (epilogo)

Sto aspettando il treno per andare al lavoro. Sulla panchina ci sono decine di persone, perlopiù asiatici. Tutti mi fissano, chi più discretamente, chi meno. Lo stesso fanno gli studenti, una volta che siamo saliti sulla vettura. Poi arrivo in ufficio, e si ricomincia. Chissà, magari sarà perchè la barba mi dona davvero e mi rende (cosa incredibile a pensarsi) ancora più attraente. O forse è la benda che porto all’occhio sinistro, che ancora non si è riallineato a quello destro.
Quella benda attira gli sguardi e le domande di tutti. Cos’hai, come stai, cos’hai avuto, e tutto il tempo non smettono di fissare la benda. C’é chi passa e se ne va, stringendomi la mano, quasi che la benda fosse contagiosa. Li capisco. É qualcosa che gli ricorda che sono stato male, anzi che sono ancora “malato”, in un senso popolare del termine. E la malattia fa paura, anche in tempi di smartphone e microimpianti.
Il bello è che tutti sembrano farne un caso nazionale di questa benda, tranne me. Forse perchè, fino a qualche settimana fa, l’occhio era leggermente meno importante del fatto che potessi lasciarci la pelle.
O forse perchè questa è la mia nuova vita, e nella mia nuova vita non ci si preoccupa troppo di niente: si sorride con grazia, e poi si va avanti.
Si va sempre avanti.

La prima notte che ho passato fuori dall’ospedale, ho dormito profondamente e con gusto, come non mi succedeva da mesi. Era stato bello tornare a casa. Quando avevo aperto la porta, quasi avevo pensato che dentro ci avrei trovato un cane che mi veniva incontro per farmi le feste. Invece, ovviamente, non c’era nessuno.
La mattina dopo feci una bella colazione. Ero stato così tanto in ospedale, che mi ero quasi abituato a quei ritmi scanditi da pasti disgustosi, farmaci e controlli invasivi. Dopo la colazione mi vestii e andai in giardino. Mi sedetti sugli scalini, chiusi l’occhio buono e mi lasciai avvolgere dal sole.
Era questo, più di tutto, che desideravo fare una volta uscito dall’ospedale.
Non sesso selvaggio, non feste e alcol.
Volevo solo tornare nel mio giardino e starmene al sole, senza un pensiero al mondo.
E così feci.

Restai lì non so quanto tempo. Quando rientrai in casa, mi aggirai per le stanze. Vedevo i miei mobili, i miei libri, le mie cose. Tutto quello che avevo lasciato due settimane prima, e che pensavo di aver perso per sempre. Adesso facevo risuonare i passi in casa, nella mia casa, quella dove ero stato derubato qualche tempo fa, e pensai che i ladri si credevano furbi, che pensavano di avermi preso tutto e di averlo fatto anche in maniera pulita.
Adesso, mentre mi aggiravo fra le stanze, capivo che non me ne importava più niente. Che si tenessero quello che volevano. Mi avevano preso tutto, eppure la parte che mi era rimasta era la più importante, la più vera, la più viva.
Era la parte che non mi avrebbero mai preso, e che i ladri avrebbero sempre rimpianto.
Fino alla fine.

La prima settimana la passai a casa, cercando di riprendermi. Mi stancavo facilmente, e avevo dolori ovunque. Non ero ancora abituato alla benda nell’occhio, quindi dovevo imparare a capire le distanze con uno solo, e a non tagliarmi un dito mentre tritavo la cipolla per il ragù.
Dopo qualche giorno dall’operazione al cervello, tornai al lavoro. La mattina prendevo due treni e camminavo per una buona mezz’ora prima di arrivare. Una volta lì stavo al computer, incontravo clienti, organizzavo eventi e rispondevo almeno duecento volte al giorno alla domanda, che hai fatto all’occhio (la battuta del pirata era quella che riscuoteva più successo). Una volta finito facevo la spesa e rifacevo il percorso inverso fino a casa. Lì cucinavo, lavavo, stiravo. Sistemavo cose burocratiche. Tranquillizzavo i miei al telefono. Prendevo medicine ad intervalli regolari. Innaffiavo le piante. Buttavo la spazzatura negli appositi contenitori. La sera non ci mettevo molto ad addormentarmi.
Il giorno dopo ricominciava tutto, ed io arrancavo, ancora pieno di medicine e con un occhio solo, verso il treno, dovrei avrei lottato per un posto seduto.
Facevo tutto da solo, e ne ero fiero.
Quella mattina andai al solito bar a prendere un caffè. Il barista, un arabo che lavora lì da una vita, mi guardò e mi chiese, che ti è successo all’occhio?
Avevo appena usato la battuta del pirata con una delle cassiere del supermercato, così dissi, sono stato coinvolto in una rissa al pub.
Non sembri il tipo che fa a pugni, disse lui.
Sorseggiai il mio caffè, pagai e tornai al lavoro pensando, non sai quanto ti sbagli, amico mio.

Non so come, ma quel 10 Maggio mi ha cambiato, e lo ha fatto per sempre. E il bello è che questo mi era sempre sembrato un clichè. Si vede che non sono poi così originale come credevo.
Mi sono trovato di fronte me stesso, quel giorno, ed ho saputo reggere lo sguardo. Ho saputo guardare oltre le mie scuse, le mie trappole, i miei nascondigli e le mie rese, e ho capito che non ero passato di lì per niente. Che nessuno passa di qui per niente.
Ho guardato dentro i miei occhi e ho capito che, qualsiasi cazzata avessi fatto nella mia vita, adesso ero pronto per ricominciare. Per rifare quegli errori, magari, o farne degli altri, ma con uno spirito completamente diverso: lo spirito di chi sa che, d’ora in poi, può diventare tutto quello che vuole diventare. Di chi ha capito che in cinque minuti puoi giocarti e perderti tutto, e allora tanto vale non prendersela troppo e godersela più che si può.
Di chi finalmente ha capito il significato della parola “famiglia”, e vuole dargli un peso sempre più importante.
Non sono diventato un santone, e non passo i giorni a meditare in giardino. Col passare dei giorni ricominciano le piccole lotte quotidiane, le piccole sfighe legate al traffico, alla pioggia, al lavoro. É giusto che succeda, che la vita ricominci a scorrere. Eppure, anche così, non sarà come prima. Quello che è successo risiede adesso nel fondo della mia anima, qualunque cosa sia. Non come ricordo preciso, ma come corrente sotterranea ma potente, che fa sentire la sua forza. Lo capisco quando, in mezzo a tutte le difficoltà, non riesco a smettere di sorridere, mai. Perchè se incontri difficoltà vuol dire che sei vivo, e se sei vivo, hai ancora il tempo di superarle come e quando vuoi.
Non ho la bacchetta magica, e non ne so più di prima. Però forse ho finalmente fatto la pace con me stesso –magari una pace temporanea, ma più dura e meglio è. Ho passato la mia vita a preoccuparmi per gli altri, a prendermi cura delle persone che amavo. Adesso è tempo di amare quella persona che ho ignorato per tanto tempo, e che incontro ogni mattina allo specchio, vedendola come se fosse la prima volta.

E tutto, nei giorni post-ospedale, era come la prima volta che lo vedevo. Mi sentivo un bambino, e forse lo ero davvero. Essere rinati ha i suoi vantaggi. Volevo piaceri piccoli, semplici. Tutti i Grandi Problemi che mi avevano assillato nella vita, adesso sembravano solo stronzate. Come avevo potuto perderci tempo ed energie?
Eppure sapevo che sarebbe successo ancora. É la vita, baby. La mia, al momento, va a 100 all’ora, braccio sul finestrino e aria in faccia, pronta a godersi tutto quello che incontrerà nel suo cammino.

Quello che mi è successo ha avuto qualche effetto anche in chi mi è stato vicino in quelle lunghe giornate in ospedale. C’è chi ne è uscito più positivo e pronto ad affrontare i propri casini e chi ha avuto un sovraccarico emozionale. Forse non ha cambiato la loro vita, ma di sicuro ha fatto vedere loro qualcosa che non sapevano, e che anch’io ignoravo del tutto: che siamo mortali, che siamo sempre sottoposti a questi giochetti del destino, e che tutto può cambiare in un istante. Proprio per questo, dobbiamo dare alla vita il colore e la direzione che vogliamo. Dobbiamo capire fin da ora perchè stiamo passando di qui, trovare il nostro scopo e sentirlo fino in fondo.
É questo, più o meno, quello che ho cercato di dire al barbecue che ho organizzato qualche giorno dopo l’ospedale, per ringraziare tutti coloro che avevano sofferto d’insonnia insieme a me. Un po’ l’imbarazzo, un po’ il mio primo drink in 2 mesi, mi sa che non é venuto fuori molto bene.
Ma mi sa che loro hanno capito lo stesso.

L’altro giorno stavo tornando a casa dal lavoro. Era una serata già invernale, col vento che spazzava la pioggia, bagnando la spesa che mi trascinavo dietro e rischiando di spezzarmi l’ombrello. Il freddo mi era entrato nelle ossa. L’occhio buono, dopo ore al computer, era appannato. Uno di quei momenti in cui ti vorresti abbandonare ai piccoli lamenti, ahimè ahimè.
Poi ho pensato una cosa, e da allora il freddo e la pioggia non sono più esistiti. Ho ripreso il mio sorriso di adesso, quello vero, e non l’ho mollato fino a casa.
Ho pensato che dopo quell’inverno ci sarebbe stata un’altra primavera, e che io sarei stato lì ad aspettarla.
Era bello sapere di esserci per questo.
Era maledettamente bello.



(Ok, lo so che sono stato sdolcinato come poche volte, ma lasciatemelo fare...
Voglio dire grazie a tutti. Tutti quelli che ci sono stati, lì all’ospedale o attraverso numerosissimi messaggi, telefonate, email. Tutti quelli che si sono preoccupati, e che invece adesso si devono sorbire questo Zango per chissà quanto. Tutti quelli che hanno saputo dire le parole giuste, anche senza dire niente.
É stato bellissimo trovarvi al mio ritorno.
E grazie anche a tutti quelli che hanno avuto il barbaro coraggio di leggere questi tre post infiniti. Avevo bisogno di raccontare questa storia. Se pensate che mi sia lamentato, o che mi sia perso in chiacchiere, beh, ovviamente è vero. Ma è anche vero che per me era importante scriverne, e l’ho fatto.
Adesso riprendo possesso della mia solita stanza nell’Hotel Morgana. I bagagli possono aspettare. É tempo di andare giù al bar e ordinare un mojito.
Ci si vede lì.)





1 commenti:

rosario ha detto...

nessuna noia, nessun lamento, nessuna inutile chiacchiera..questa è vita, è proprio il caso di dirlo, e non potevi non raccontarla.Hai venduto cara la pelle e ce l'hai fatta...
un abbbraccio
Rosario