lunedì 10 giugno 2013
Survivors (seconda parte)
I dottori non capivano, io non capivo, non lo capiva nessuno. Ma quello sul lettino, purtroppo, ero io.
Non capivano, ma decisero di lasciarmi andare. Non fu una mossa molto azzeccata. L’occhio peggiorava ed io mi addormentavo ovunque. Mi riammisero all’ospedale d’urgenza. Beh, urgenza si fa per dire. Cinque ore in una sala d’attesa fredda, con me che mi addormentavo sempre su quelle sedie rosse e sporche.
La mattina dopo mi fecero una PET. Mi avevano avvertito di non mangiare, ma quello non fu un problema. Avevo la nausea da settimane. I vestiti ormai mi cadevano addosso come bandiere al vento.
L’infermiera mi spiegò che, a causa del liquido radioattivo che mi avrebbero iniettato, non sarei potuto stare vicino a bambini o donne incinta nelle ore successive. Mi consegnò il modulo da riempire, con domande del tipo, ha già scoperto che tipo di linfoma ha? E quanto è grande? Sa niente delle sue possibilità di vita?
Esattamente il tipo di cose che tutti vorrebbero leggere alle 8 del mattino.
Presi una delle riviste –tutte inevitabilmente per donne- della saletta. Mauro fece lo stesso. Parlavamo poco.
Mi fecero entrare in una saletta, dove poco dopo entrò un’infermiera. Era anziana, il viso rovinato probabilmente da troppi anni passati a gridare ad un tizio col culo incollato al divano. Mi si avvicinò ed io sentii puzza di sigaretta. Sembrava agitata. Da dove vieni, chiese. Wow, è un bel pezzo di strada. E che lavoro fai. E dove. E per chi. E ti piace. E.
Ahi!, dissi. Fu la mia prima volta in quell’ospedale, e l’ultima. Ero stato preso di sorpresa.
La tizia doveva infilarmi un ago nel dorso della mano, dove avrebbero iniettato il liquido. Dove aveva provato ad entrare adesso c’era un buco dal quale sgorgava sangue.
Scusa honey, riprovo.
Il risultato fu lo stesso, solo più doloroso. Altro sangue comincio a sgorgare. L’ago mi bucherellò il dorso della mano altre tre volte prima che lei mi si avvicinasse e alitasse sigarette e angoscia dicendo, inutile, chiamo Jodie. Se continuo così non va bene per me e non va bene per te.
Jodie era una vivace ragazza coi capelli completamente rasati. Infilò l’ago al volo e cominciò ad iniettarmi il liquido. Mauro andò al lavoro ed io restai nella stanza in penombra finchè non mi fecero salire sul lettino. Cosa pensai lì, lo sapete già. Pensavo di rassegnarmi in qualche modo, col passare dei giorni. Eppure, non so perchè, guadagnavo forza. Era come se mi vedessi da fuori, come se non stesse succedendo a me ma a qualcun altro. Un po’ di sana depersonalizzazione poteva aiutarti a non uscire di testa, in quei momenti. Mi convincevo che, qualsiasi cosa fosse, sarebbe andata bene. Più test e dottori dicevano una cosa, più io mi intestardivo nella direzione opposta. Ero sempre stato un sognatore, e non mi sembrava un momento molto furbo per smettere.
Dopo la PET Jodie mi fece accomodare in uno stanzino che puzzava di piedi e mi diede succo di frutta e un sandwich. Bevvi il succo di frutta, buttai il sandwich nella spazzatura e andai ad aspettare il mio solito portantino con la sedia a rotelle.
Stavo facendo un sonnellino. Non riuscivo a stare sveglio. Federica era lì accanto, rannicchiata sulla poltrona, e dormiva anche lei. Per terra il sacchettino col resto del suo pranzo. Non sapevo più da quante ore era lì. Gli altri sarebbero arrivati più tardi, dopo i loro lavori massacranti, e sarebbero rimasti con me fino a notte. Era un modo per sentirsi fortunati anche quando la parola stessa sembra svuotarsi di significato.
Un infermiera mi scosse. Scusi, pressione. Era una ragazzona australiana, mora, ogni gamba larga quanto il mio torace. Eppure si muoveva con gesti delicati, pieni di cura. Mi piaceva.
Mi chiese che giorno fosse e dove mi trovassi. Rispondevo a quelle domande almeno quindici volte al giorno. Il buffo è che, fuori da lì, spesso non sapevo la data esatta. Ma in ospedale avevo capito che il tempo aveva tutto un altro significato.
Alla fine mi disse che dovevo fare un’altra PET.
Ma ne ho fatta una proprio oggi, protestai.
Sì, ma quella era per tutto il corpo, disse lei. Quella di domani è solo per il cervello. Non mangi niente stasera.
La mattina dopo rifeci tutta la trafila. Mi sentivo molto frustrato. Capivo che i dottori non sapevano che pesci pigliare, e ordinavano test su test per prendere tempo. Nessuno mi spiegava cosa stava succedendo. Avevo frotte di studenti che venivano al mio letto ogni giorno –di solito quando provavo a mandar giù qualcosa. Possiamo visitarla, signor Zangàri? Mi avevano detto che il mio caso era così raro che sarebbe stato inserito nell’esame della specialistica di neurologia del mese successivo. Io non sapevo dire di no, e così passavo ore a seguire dita con gli occhi –quello sano e quello malato, che tenevo sempre coperto con una benda- a rispondere a stupide domande, a farmi punzecchiare per testare la sensibilità.
Bei tempi, pensavo, quelli quando avevo solo un grumo di sangue. Guarda che casino sta succedendo adesso. Ero diventato un fenomeno da baraccone, un interessantissimo caso da studiare. Come disse un altro infermiere, in ospedale le cose noiose sono le migliori. I casi straordinari non portano a niente di buono.
Mentre ero nella saletta in attesa che mi iniettassero il liquido, entrò nella stanza la stessa infermiera tabaccosa del giorno prima. Ci guardammo tutti e due come a dire, rieccoci.
Si sedette accanto a me. Non volevo un’altra mano bucherellata, ma non volevo offenderla. Alla fine le dissi, insomma, se la sente oppure...?
Lei mi guardò e disse, facciamo solo un tentativo, se non va bene chiamo Jodie, d’accordo?
D’accordo, dissi poco convinto. La vidi riprendere l’ago e infilarlo con successo nel dorso dell’altra mano. Fui contento di averle dato la possibilità di riscattarsi. Tutti avevano bisogno di una seconda chance. Magari avrebbe smesso di fumare.
Fai la PET alla testa?, chiese. Io annuii.
Ti hanno già detto dov’è localizzato il tuo tumore?
In culo la seconda chance. Avrei preferito Jodie.
La PET avrebbe dovuto svelare l’arcano, e invece fu un altro buco nell’acqua. La mia neurologa sembrava sempre di corsa, e quello che diceva voleva dire tutto e niente. Restavo in quel reparto, dov’ero il più giovane e il più enigmatico. La sera accompagnavo i miei amici fino all’ingresso e poi facevo un giro per quei corridoi. Quello che si vedeva dentro le stanze, sui letti, non incoraggiava. Sembrava sempre sera, da quelle parti, ed in qualche modo lo era. Lì ti rendevi conto di che perversa delicata macchina fosse il nostro cervello, e cosa succedeva quando qualcosa andava storto nei piani alti. La gente lì sembrava svuotata, spenta, andata prima della morte. Le persone non erano più persone.
Capitava spesso di venir svegliati la notte da uno di loro, che girava urlando per i corridoi. Malati ai quali i farmaci avevano fatto un brutto effetto, che si alzavano nel cuore della notte e volevano tornare a casa. Alcuni di loro diventavano aggressivi e discutevano per ore con le infermiere. Poi, intorno all’alba, si rendevano conto di dov’erano e perchè, e tornavano ai loro letti sfatti.
Alcuni di loro ricevevano visite, specie se venivano da altri Paesi. Gli australiani erano i degenti più soli. Le altre comunità si stringevano intorno al malato, facevano gruppo. Gli aussie erano più abituati a far da sè, a non mostrare debolezze. L’amicizia arrivava fino ad un certo punto. Per questo guardavano Mauro e gli altri con facce stranite. Davvero non sono famiglia, solo amici?, chiedevano.
Beh, sono tutt’e due, dicevo io. Ma loro non capivano.
Mi trovavo in una stanza da solo. Gli altri tre pazienti erano stati portati via, chi per fare test, chi in sala operatoria. Io fissavo la finestra. Sydney sembrava una città giocattolo da lì, una città finta messa apposta per me e agli altri malati. Ne vedevamo sempre e solo uno scorcio, come uno di quei quadri tristi da studio dentistico. Non mi andava di leggere il mio libro, e non avevo voluto internet lì con me. L’ultima cosa che volevo era andare su Facebook e leggere di gente che si lamentava perchè era lunedì e aveva sonno, o perchè l’autobus era in ritardo di 15 minuti. Forse non mi andava di vedere che su Facebook (come in qualunque altro posto) la vita stava andando avanti coi suoi stupidi piccoli banalissimi problemi, mentre noi lì dentro lottavamo con mostri senza nome. Capii che ero passato dall’altra parte, quella che ti segna e che brucia in maniera difficile da descrivere.
Se e quando sarei passato di nuovo dall’altra parte, era qualcosa al quale preferivo non pensare.
Quella sera eravamo in cinque o sei, a ridere e far casino intorno al letto. Con Marina e gli altri si scherzava sul fatto che finalmente, dopo due settimane, mi avevano portato come dolce il creme caramel che chiedevo sempre e non mi arrivava mai. Stavo per mangiarlo quando arrivò la dottoressa Hannah. Era di quelle tipe un po’ insicure sul lavoro, anche bruttine, ma che nascondono sotto una personalità esplosiva. La vedevo bene in un bar karaoke, completamente sbronza e avvinghiata all’asta del microfono.
Mi disse che la mattina dopo mi avrebbero fatto la biopsia. Tutti noi ci mettemmo ad ascoltare attentamente. Poi mi disse i rischi che erano implicati in quella biopsia. Ascoltammo tutti ancora più attentamente.
Quando lei uscì dalla stanza, nessuno rideva più o faceva scherzi.
Ne discutemmo, anche se non c’era molto da discutere. O lo facevo, o non avrei mai saputo di cosa si trattava. Potevo perdere l’occhio. Potevo anche perdere un bel po’ di più. Cercai di pensare ancora che stesse capitando a qualcun altro, ma stavolta non ci riuscii. Il sangue che si gelava nelle vene era proprio il mio.
Il telefono cominciò a squillare. Le voci arrivavano da 15.000 km di distanza. In alcuni casi, come in quello dei miei genitori, erano voci rotte dal pianto. Volevano tutti essere positivi. Io volevo dire qualcosa che restasse.
Alla fine andammo a braccio, dicendo quello che capitava, e capimmo che bastava così. Sapevamo già tutto.
Staccai e mi chiesi per un attimo se quella era stata l’ultima volta che li avevo sentiti. In quel caso, non avevo lasciato dietro nessuna frase ad effetto. Peccato.
Andai verso la stanza, chiamai la dottoressa Hannah e le diedi la mia risposta sull’operazione.
Più tardi io e Mauro sedevamo nel salottino fuori dal reparto. C’eravamo solo noi lì. Dalla finestra del salotto si vedeva uno scorcio di Sydney con una gru in primo piano. L’ombra della gru, nella notte, sembrava quella di un impiccato.
Questo sarebbe un momento perfetto per avere con noi una bottiglia di Jack Daniel’s, dissi.
Ce la scoleremmo in meno di mezz’ora, disse Mauro.
Non c’era da bere e noi sedevamo lì con troppe cose da dire tutte insieme, e mai abbastanza per coprire quei quasi 20 anni di cammino. Cosa si poteva dire? Cos’altro restava? E poi, cosa lasciavo dietro? Non avevo case o terreni, non avevo figli. Il mio pensiero andava su quel percorso incompiuto che mi rodeva più di tutti. No, forse dei figli li avevo già.
Sarebbe bello avere ancora il tempo per poter pubblicare le mie cose, dissi. Ero cosciente di quanto suonava patetico, però, che cazzo, ad un condannato si perdonano queste melensaggini.
Mauro mi guardò come a dire, non ti preoccupare, ed entrambi restammo a guardare la gru nella notte finchè non fu ora di andare.
Quando tornai in stanza, avevo ovviamente mille pensieri. Eppure... eppure non ero disperato. Sapevo che potevo non farcela, ma mi sentivo sicuro. Mi sentivo stranamente forte del fatto mio. No, quella non poteva essere la fine.
E pensai, se anche fosse, me la sono giocata. Posso dirmi felice?
Non mi risposi direttamente, però mangiai il creme caramel che era ancora nella confezione, spensi la luce e dormii un sonno senza sogni e senza interruzioni.
Della mattina dell’operazione sapete gia' cosa pensai e quello che scrissi. Fui il primo a stupirmi per quello che avevo scritto. Stavo cercando di addolcirmi la pillola da solo? Chissà. Forse ero effettivamente innamorato di quella strana vita che m’era piovuta addosso. In fondo ero in pace e coi conti a posto. Non dovevo niente a nessuno, semmai c’erano delle persone che erano in enorme debito con me, ma quelli ormai erano problemi loro, non miei. Avevo fatto il mio, avevo anche fatto le mie cazzate, ma le avevo pagate tutte e anche di più. Avevo seguito una direzione, ed ero stato onesto nel farlo. Non avevo creato dolore intenzionalmente, e quando potevo avevo fatto di tutto per portare un po’ di sole nella vita di chi contava per me. Non ero un bravo ragazzo, ma definirmi stronzo sarebbe stato un po’ riduttivo.
Avrei potuto fare molto di più, ovviamente. Ma avevo onorato quella vita storta, e allora ero pronto ad affrontare quel che dovevo a testa alta.
Poi tutto questo vacillò quando il mio chirurgo, l’ormai leggendario dottor A., entrò in stanza per fare due chiacchiere con me prima dell’operazione. Qualunque siano le sue abitudini, sconsiglierei vivamente d’ora in poi al dottor A. di fare queste chiacchierate coi suoi pazienti. Era un chirurgo serio, posato, dall’aria molto professionale, e apparentemente molto cazzuto in quello che faceva. Ma i discorsi non gli riuscivano benissimo. Ricordo solo Federica, che in quelle 2 settimane non aveva battuto ciglio neanche nei momenti peggiori, mettersi a piangere durante il suo discorso. E ricordo che il sangue defluiva dalle vene della mia faccia fino a lasciare un colorito grigio che andava peggiorando via via che il dottor A. continuava a parlare. Non avevo mai avuto tanta paura come in quel momento, mai in tutta la mia vita. La mia pelle era attraversata da una sensazione elettrica. La carne, di sotto, protestava e pulsava. Cosa stanno per farmi?, pensai. Mi si aprii un vuoto dentro, vuoto di respiro di battiti e di pensiero. Adesso ero io su quel letto, io e solo io. Stava succedendo a me.
Mi portarono via. Avevo gli occhi fissi, la lingua attaccata al palato. Finsi disinvoltura mentre salutavo tutti mimando il gesto del rock’n’roll. Volevo andarmene da rockstar, nonostante la paura fottuta.
Mauro venne con me e il portantino. Dalle finestre entrava il sole. Era una bella mattina di sole. Strano, pensai, di solito nei film succede sempre con la pioggia.
Il portantino era un ciccione baffuto dalla battuta pronta. Scherzò tutto il tempo, poi vide le nostre facce e restò in silenzio mentre percorrevamo gli ultimi metri. Mentre Mauro andava via gli dissi di badare a sè stesso e ai miei scritti. Loro sarebbero rimasti per sempre. Era confortante pensarlo.
Entrai in una saletta. L’anestesista era un ragazzo giovane che mi disse, fai conto che sia un bel drink e che ti stai per fare una bella nottata fuori. Dopo la prima iniezione cominciai a calmarmi. Restai in quella saletta un’ora, aspettando che finissero con quello prima di me. Sentivo un trapano.
Poi fu il mio turno. Non volevo addormentarmi, non volevo cedere. Potevano essere i miei ultimi momenti. Volevo fissare un pensiero importante, e mantenerlo fino alla fine. Cazzo, però mi sarebbe piaciuto avere più tempo. Una seconda opportunità. Avevo ancora dei versi da comporre, perdio. Qualcuno mi mise addosso la mascherina dell’ossigeno. Non volevo. Non volevo cedere. Non volevo...
Ero in un corridoio e stavo vomitando qualcosa. C’era sangue, ma non troppo. La dottoressa Hannah era lì. Disse qualcosa sul chiamare Mouro.
Si chiama Mauro, dissi ripulendomi.
Oh sì, Mauro, sorrise lei.
Qualcuno prese il mio letto e lo portò in un reparto senza finestre. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Quando li riaprii, ero in un ambiente che ricordava uno di quei campi medici durante la guerra. Non c’erano muri, la gente andava e veniva di fretta, si sentivano rumori di macchinari e pazienti che si lamentavano. Realizzai che ero in terapia intensiva.
Poi realizzai che avevo attaccate alle braccia quattro cannule diverse, più un respitatore per l’ossigeno.
Poi realizzai che ero vivo.
L’anestesia era ancora troppo forte, quindi ci pensai incidentalmente, del tipo, toh guarda, sono sopravvissuto. Ce l’ho fatta. Quando arrivarono i miei amici, già capivo il concetto un po’ di più. Non ricordo cosa dissi loro mentre li abbracciavo, fuori di me dalla gioia, con la mascherina che mi cadeva e le cannule che tiravano e i fili che si intrecciavano, ma ripetevo una cosa senza sosta: gli ho rotto il culo.
A chi o cosa, non lo dissi, ma di una cosa ero convinto: gli avevo davvero rotto il culo.
Passai una notte difficile, piena di dolori, il sangue che sgorgava dal naso, il sonno che mi schiacciava al materasso ed io che non potevo muovermi, l’infermiera cinese che mi urlava ordini che eseguivo senza pensare in quella dormiveglia oscura, in quella guerra dove si stavano sparando gli ultimi colpi di mortaio. Sognai tanto. Sognavo cibo. Per la prima volta in un mese avevo appetito. La vita mi stava richiamando indietro.
La mattina dopo l’infermiera mi fece le spugnature. Fu imbarazzante e piacevole. Poi mi diede la spugna e, indicando il pacco, mi disse, adesso pulisca da sè le sue “parti private”. Non potei nascondere il mio disappunto.
Qualche ora dopo venne il dottor M., che sostituiva la mia neurologa. Come tutti i dottori, si avvicinò con quel viso che non potevi mai sapere se portassero buone notizie o cattive. In quel momento mi ricordai che la biopsia era solo un passaggio obbligato: le cose serie cominciavano adesso.
M. cominciò a parlare, e la prese lontanissima. Ecco, ci siamo, dissi. Troppo bello per essere vero. Ascoltai il suo blabla monocorde, tanto che non mi accorsi che aveva già detto cos’avevano trovato. Glielo feci ripetere, e poi glielo feci dire ancora una volta. Non potevo crederci. Era esattamente quello che speravamo tutti. Lo guardai dubbioso.
Quindi, gli dissi, questa è una buona notizia, o no?
Lui mi guardò con la stessa identica espressione. Certo, disse, un’ottima notizia.
In quel momento me lo sarei abbracciato, quel figlio di puttana, e al diavolo l’incapacità dei dottori di trasmettere delle emozioni, di darti soddisfazione. In quel momento avrei abbracciato chiunque. Pensavo che avrei pianto, e invece risi e basta. Risi come un cretino, risi senza potermi fermare.
Ed era strano, perchè da quel che sapevo, i bambini appena nati piangono una volta venuti alla luce.
Perchè questo ero io: una persona nata una seconda volta.
E non potevo smettere di ridere.
(Continua)
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