lunedì 24 settembre 2012
Di felicita' e altre stronzate
Che cavolo sará mai questa famosa felicitá?
Chi segue il Morgana ricorderá che, qualche anno fa, avevamo posto la domanda agli abitanti dell’Hotel, ricevendo qualche risposta. Era un tema che m’interessava. Ci ho scritto alcune cose, anche qui sul Morgana. Ci ho scritto un racconto (che, essendomi io definito “scrittore in attesa di fama postuma”, necessita della mia dipartita per poter essere letto da tutti voi, insieme al resto della mia geniale produzione), Il racconto si intitolava “Vecchio”.
Chissá. Forse sono le domande che si fanno, appunto, le persone quando invecchiano. Da giovani non ce n’é il tempo, la vita detta i suoi ritmi, fa fare giri da montagne russe a mente e cuore, e si ragiona per estremi, cosicché depressione e felicitá si accompagnano in maniera quasi maniacale, e fortemente umana.
I vecchi, invece, di tempo per pensare ne hanno di piú, e quel tempo lo usano anche per farsi tristi bilanci, per farsi due conti in tasca e vedere com’é andata e come sta ancora andando.
No, non penso di essere vecchio, ma questo pensiero della felicitá mi viene ogni tanto a visitare. É un concetto etereo, vasto, difficile se non impossibile da definire. Ognuno c’ha la sua, o almeno dovrebbe.
Mi é capitato di pensare che, forse, ci sono tante persone infelici semplicemente perché si basano su un concetto sbagliato di felicitá. Come se qualche coglione avesse tirato una linea e stabilito che, di lí in poi, si é felici, ma prima no. Quell’idea di felicitá da film, quella felicitá patinata da lieto fine, le cose che girano tutte per il verso giusto, quella cosa che tanto volevamo che viene finalmente ottenuta, risate, titoli di coda, fine, pronti per stringere la mano al Padreterno e ringraziarlo.
Ci siamo fatti dare un modello per ogni cosa, anche per lo stare bene. Si é creata ormai una confusione spirituale tra ció che vogliamo e ció che crediamo di volere (o che ci hanno detto che dovremmo volere). Ogni etá ha i suoi obiettivi che si innalzano sempre piú, in modo da far sentire tutti piú o meno delle merde. Da lí in poi scatta la rassegnazione o la sfida. A pochi viene in mente che, forse, la felicitá non sta lí.
Forse la felicitá é per gli idioti, perché solo gli idioti possono permettersi di essere felici in un mondo come questo. Loro, che non vedono quello che li circonda, che il loro sguardo non va oltre le mura di casa. Loro con pensieri piccoli, tiepidi e banali, che bastano a sé stessi e dentro c’é tutto. Loro che non vogliono capire e prendono il tunnell della beata ingenuitá, che li porta dritti dritti al benessere senza troppe domande.
Magari le persone senza pensieri sono felici. Mangiano quando hanno fame, cagano quando hanno lo stimolo, scopano se devono, guardano la tv e vanno a dormire presto, senza sogni né incubi. Una vita che forse potrebbe sembrare agghiacciante, ma che sembra loro praticamente perfetta.
Di fronte agli artisti dei secoli, alle voci morte dopo essersi consumate sulle domande di noi tutti, loro sbadigliano. Di fronte ai grandi dubbi, ai perché, ai che cazzo, loro ruttano. E chissá, potrebbero avere ragione loro. Basta vedere quanto vivono a lungo.
Sul quanto vivono di questa lunga vita, é un altro discorso.
Una canzone di Vecchioni diceva “perché basta poi poco per essere felici, basta vivere come le cose che dici”. Una delle chiavi potrebbe essere questa: la fedeltá a sé stessi, la coerenza, la conoscenza di quelle pieghe della nostra anima che ci causano insonnie e cambi di umore. Il capire cosa siamo, che poi aiuta a capire anche che ci stiamo a fare tutti qui. Perché ogni volta che facciamo o diciamo (ed io ci metto pure: scriviamo) qualcosa che non ci appartiene, ci allontaniamo un po’ da questa nostra utopica felicitá.
Una delle frasette da diario che gira su Internet sostiene che la felicitá non é una meta, ma il viaggio stesso per ottenerla –che, come tutte queste frasette del cazzo, non dice niente ma suona bene. Nel viaggio sicuramente si puó scoprire di piú su noi stessi, e questo ci riporta al discorso di prima.
Ma nessuno, probabilmente nemmeno l’idiota di cui parlavamo, puó pensare di essere felice per tutta una vita. É impossibile, ma sarebbe assurdo anche se fosse possibile. Non siamo pronti ad una cosa del genere, sotto nessun punto di vista. Una felicitá completa ed eterna sarebbe aberrante, in quanto priva di ogni movimento. Non ci sarebbero stimoli, non ci sarebbe lotte, di conseguenza non ci sarebbero conquiste. Non ci sarebbe progresso, solo un ripetersi sempre uguale. Anche il piú massiccio dei sorrisi prima o poi deve scemare e spegnersi. Anche nella migliore delle giornate possono capitare degli scazzi.
Prendiamo l’amore (anche qui, lascio a voi ogni possibilitá di definizione). Quella sensazione che ti riempie finché non trabocca da tutte le parti, che ti fa sentire una scossa elettrica ai genitali. Che tutto sembra diverso dal niente che c’é di solito.
Sembra incredibile che due persone possano darsi questa sensazione l’uno con l’altra. Ma per quanto tempo? Se la danno ancora dopo 10 anni, dopo 20? Anche qui, le risposte sono aperte.
Mettete due persone nella stessa stanza. Potranno darsi un senso reciproco, riempirsi di colori e vibrazioni, oppure potranno farsi male l’un con l’altro fino a non poterne piú.
Nella maggior dei casi, le due persone in questione faranno sia l’uno che l’altro.
Con una temporaneitá del genere, dove tutto sembra contingenza, ha senso parlare di felicitá?
Se me lo dovessero chiedere (e dovessi basarmi anch’io su definizioni esterne), ripeterei quello che scrissi tempo fa: no, non sono felice. E lo sono.
O meglio. Da sempre, ho cercato di non fidarmi troppo di quello che mi dicevano sull’argomento. Ho ristretto il campo sempre di piú, finendo per identificare la felicitá con una giornata di sole che ti prende bene, con una passeggiata in riva al mare, con una festa di amici, con lei che ti guarda in quel modo da sa lei. Che novitá, direte voi, é quello che fanno tutti. Le piccole cose, di cui ho un profondo rispetto, e nelle quali ripongo la mia essenza, qualunque essa sia.
Le giornate di sole, che sono belle ma non sono tutte uguali, e di certune non ci si puó fidare troppo. Ho imparato presto ad esserne molto diffidente, a non permettermi di stare bene se prima non avessi avuto delle certezze totali. E visto che queste certezze non le potevo avere, preferivo una rassicurante quasi-felicitá (o tiepida infelicitá) piuttosto che correre il rischio. Che rischio? Di stare male perché avevo provato a stare bene. Anche io stavo prendendo la strada dell’accontentarmi.
Poi qualcosa é successa. Una persona, che mi é entrata in stanza ed ha aperto la finestra. Da quella finestra é entrato quel sole che avevo temuto per tanto tempo. É entrata aria, di cui facevo finta di non avere bisogno. Sei entrata tu ed eri tutto quello che non cercavo, e che mi era sempre mancato.
Non credo di sapere come ci si sente, a sentirsi felici, ma so che ho provato qualche cosa di simile, e la maggior parte delle volte, l’ho provato con te accanto.
Io continueró la mia lotta coi giorni di sole, coi miei fantasmi, i miei ricordi, con le mie paranoie, le mie definizioni distorte e i miei dubbi da non-idiota. Peró tu continua a far entrare luce e aria da quella finestra, per favore.
Qualsiasi cosa sia, mi sembra quasi di stare bene.
E ne sono felice.
domenica 9 settembre 2012
Le mie poesie
voglio farti sedere
versartene uno
e cominciare a leggere
a voce alta
e voglio farti capire
che le mie non sono poesie di
carta
ma vivono e respirano
usano mezzi pubblici
stappano birre
evitano di rispondere al
telefono
hanno tic e sogni
e cantano sottovoce
quando nessuno le
ascolta
le mie poesie hanno
barba lunga e jeans sdruciti
girano con occhi assonnati
e dicono troppe cose tutte insieme
fanno l’amore
hanno malditesta e manie
e quell’ombra di salvezza
in mezzo alle loro urla da
pazzo
alle due del
mattino
le mie poesie nascono in
qualche modo
e qualche volta non muoiono
ma restano li’, dietro il vetro
a vedere la pioggia cadere
il sole creare nuove forme
e tenere a bada
un intero mondo di parole
ancora tutto
da
dire.
Marco Zangari © 2012
versartene uno
e cominciare a leggere
a voce alta
e voglio farti capire
che le mie non sono poesie di
carta
ma vivono e respirano
usano mezzi pubblici
stappano birre
evitano di rispondere al
telefono
hanno tic e sogni
e cantano sottovoce
quando nessuno le
ascolta
le mie poesie hanno
barba lunga e jeans sdruciti
girano con occhi assonnati
e dicono troppe cose tutte insieme
fanno l’amore
hanno malditesta e manie
e quell’ombra di salvezza
in mezzo alle loro urla da
pazzo
alle due del
mattino
le mie poesie nascono in
qualche modo
e qualche volta non muoiono
ma restano li’, dietro il vetro
a vedere la pioggia cadere
il sole creare nuove forme
e tenere a bada
un intero mondo di parole
ancora tutto
da
dire.
Marco Zangari © 2012
mercoledì 5 settembre 2012
Morogoro, Tanzania
Morogoro è come un nuovo punto di partenza. Il primo è stato Dar, il
secondo Zanzibar Town, ma qui sembra di essere entrati nella dimensione
più selvaggia del Paese. La città si estende lunga una strada principale
come ogni villaggio del posto. Dopo lungo percorrere nel fitto verde
del territorio incontaminato, si apre uno spazio multicolore di banchi
sulla strada. Da Morogoro si inizia il cammino verso il safari nel
Mikumi Park. Dopo quattro ore di lungo viaggio in jeep, a tratti
interrotto dai posti di blocco della polizia, arrivati a Morogoro,
l'atmosfera cambia insieme al paesaggio. La lussureggiante vegetazione,
ornata da palme e baobab, lascia il posto a una distesa secca di erba
alta: la savana.
Morogoro è punto di partenza due volte; anche, infatti, quando siamo costretti a lasciare il Mikumi Park.
Lasciamo alle nostre spalle mandrie di bufali e gnu, famiglie di elefanti e antilopi, zebre e giraffe, ma soprattutto la soddisfazione di aver avvistato tre leoni nei soli due giorni che ci hanno preceduto.
Lasciamo il tepore del fuoco acceso davanti alla nostra tenda e il chiarore della luna piena nella notte, dopo ore al crepuscolo del sole in cui le ricerche del leone sono state vissute con la speranza di poterlo scorgere ancora. Maestoso, ai piedi di un albero, sotto una luce sempre più calda. Sempre più bella.
E, infine, lentamente poterci avvicinarvi.
Ripassiamo dunque per Morogoro e la gente ci fa le foto. I turisti qui non sono all'ordine del giorno. Il viaggio verso Dar diventa un lento ritorno al presente. Un ritorno alla dimensione metropolitana. La lentezza scandita dalle corse goffe delle giraffe, rallentate dal peso del loro collo, scema anche nella mia testa.
Torna l'odore di umanità alla vista delle donne intente a vendere pomodori sul ciglio della strada.
Rashid ferma la jeep per comprarne un sacco.
Loro sono pittoresche nel loro tripudio di colori e i loro pomodori sono il preambolo di un nuovo mondo, fatto di frutta e terre coltivate. Di villaggi costruiti con terra rossa e arbusti di baobab. Di piccoli, poveri centri di civiltà che dai confini della savana si estendono qua e là, fino al mare.
Morogoro è punto di partenza due volte; anche, infatti, quando siamo costretti a lasciare il Mikumi Park.
Lasciamo alle nostre spalle mandrie di bufali e gnu, famiglie di elefanti e antilopi, zebre e giraffe, ma soprattutto la soddisfazione di aver avvistato tre leoni nei soli due giorni che ci hanno preceduto.
Lasciamo il tepore del fuoco acceso davanti alla nostra tenda e il chiarore della luna piena nella notte, dopo ore al crepuscolo del sole in cui le ricerche del leone sono state vissute con la speranza di poterlo scorgere ancora. Maestoso, ai piedi di un albero, sotto una luce sempre più calda. Sempre più bella.
E, infine, lentamente poterci avvicinarvi.
Ripassiamo dunque per Morogoro e la gente ci fa le foto. I turisti qui non sono all'ordine del giorno. Il viaggio verso Dar diventa un lento ritorno al presente. Un ritorno alla dimensione metropolitana. La lentezza scandita dalle corse goffe delle giraffe, rallentate dal peso del loro collo, scema anche nella mia testa.
Torna l'odore di umanità alla vista delle donne intente a vendere pomodori sul ciglio della strada.
Rashid ferma la jeep per comprarne un sacco.
Loro sono pittoresche nel loro tripudio di colori e i loro pomodori sono il preambolo di un nuovo mondo, fatto di frutta e terre coltivate. Di villaggi costruiti con terra rossa e arbusti di baobab. Di piccoli, poveri centri di civiltà che dai confini della savana si estendono qua e là, fino al mare.
lunedì 3 settembre 2012
Dov'eravamo, dove siamo, dove saremo
Questa é una storia in due parti, che teoricamente non dovrebbe interessare nessuno di quelli che non mi conosce personalmente –e forse nemmeno loro. Non ne sono sicuro. Non sono nemmeno sicuro che sia una storia vera e propria.
Posso peró immaginare che la prima parte finiva con me in quella macchina che correva verso l’aereoporto in un tramonto infiammato, i finestrini abbassati e il vento che scompigliava capelli e ultimi pensieri e portava fino in cielo le note della colonna sonora di “Into the wild”. Avevo talmente tante cose per la mente che finivano per annullarsi, cosí chiusi gli occhi dietro le lenti scure e lasciai che “Rise” di Eddie Vedder mi portasse altrove, lontano anche da quel vento romano e dalle mie ultime ore in Italia per un bel pezzo.
Era il 2011, un anno pigro e feroce. Prima di quel momento, ce n’erano stati tanti altri, molti di questi pieni di dubbi, di strade chiuse, di piogge che cade e niente per ripararsi. Inverni troppo freddi, estati brevi e passeggere. Il gelo del cuore, finché un giorno il sole ci riscaldava il letto sfatto, e allora capivamo che eravamo sopravvissuti.
La primavera era qualcosa che ci gustavamo di nascosto. Erano state, per dirla alla De André, giornate furibonde, senza atti d’amore né calma di vento. Ci sfuggiva il senso di quello che stavamo –o non stavamo- facendo. Eravamo protagonisti di una storia che (ne eravamo certi) non sarebbe interessata a nessuno. Il libro di noi sarebbe rimasto sepolto insieme a centinaia e migliaia di altri esattamente uguali. Al mattino ci svegliavamo, ci strofinavamo gli occhi e toglievamo via un po’ di quella polvere secolare da libro abbandonato.
In quanto personaggi avremmo dovuto agire, fare cose, portare avanti un pensiero, impegnarci in azioni. Tutto peró veniva bloccato sul nascere. Quella cattiva stagione ci frustrava grandi atti ed eroiche cazzate, lasciandoci solo un retrogusto amaro e un malditesta da lunedí mattina.
Come storia non era molto originale. Gli ostacoli erano sempre gli stessi: il lavoro che non c’era e se c’era faceva schifo, i soldi che non c’erano, il futuro che non c’era. Nessuna differenza con le generazioni precedenti, in questo. L’unica era che non c’era piú distinzione tra risposte giuste e sbagliate. Ci avevano tolto pure quello.
Era una storia di tutti ma noi la sentivamo solo nostra, tenendoci stretto il proprio maldistomaco e dandogli nome e cognome. Intanto riempivamo le notti dei nostri discorsi, mentre ci riempivamo la gola di fumo e medie rosse.
Il risultato era che non c’erano risultati.
Per questo alcuni servivano pizze ai tavoli, altri si alzavano nel cuore della notte e persino il mio amico G.P, pittore, aveva smesso di dipingere. Avevamo tutti bisogno di un posto dove andare, ma sembrava che anche per quello servisse una raccomandazione.
Riuscivamo ancora a ridere, a sorridere, a sorprenderci –ma pagandolo sempre di piú, accumulando debiti per ogni nuova ingenuitá della quale ci concedevamo il lusso. Erano tempi di serrande abbassate e discorsi banali e niente eroi, ma noi non volevamo capirlo.
Una girandola di facce di voci di decisioni da prendere da subíre da rimandare, finché non fosse stato tardi abbastanza e l’alba non ci avesse dato tregua. Ma i problemi restavano lí, i problemi, i problemi...
La seconda parte cominciava con un aereo, e finiva allo stesso modo. Nel mezzo, c’ero io tornato in Italia, e tutti gli altri protagonisti della prima parte. In un modo o nell’altro ero riuscito a rivedere a tutti, a dividere con loro birre e pezzi di strada. A me era sembrata di averne fatta un po’, di strada, ma lo stesso i problemi non erano scomparsi. Stessa cosa valeva per gli altri.
In un film, tutto sarebbe filato liscio e ci saremmo fatti una risata in dissolvenza. Ma la vita decideva altri ritmi e fissava poste diverse, che non tutti riuscivamo a raggiungere. Molto banalmente, a volte un anno é solo 365 brutte mattine messe in fila.
Cos’era cambiato? Tutto, ma poi niente, se ci pensavi bene. Ed era questa la nostra forza. Niente era cambiato, e noi eravamo ancora lí, come se non ci fossero stati di mezzo aereoporti, voli, differenze di fuso, compleanni e lauree perse, Skype, incompresioni e scazzi e messaggi che ti fanno pisciare dal ridere mentre sei al lavoro e non dovresti.
“Ci sentiamo poco, ma quando ci sentiamo, ci sentiamo bene” dissi ad una mia amica a Roma, poco prima di ripartire ancora una volta. Lei capí, sorrise. Il mio viaggio stava nuovamente per finire, dopo che avevo guardato tutti in faccia, stando a sentire le storie di ognuno, contanto rughe e sorrisi da bambino. No, in un anno non era cambiato granché, e se capitava, piú spesso che altro le cose erano cambiate in negativo. Non avevamo l’impressione di stare andando verso un futuro radioso, non c’era stata restituita una virgola di quello che ci avevano fregato con l’inganno.
Ma riuscivamo ancora a giocarci le notti come volevamo, a fingerci ingenui ogni tanto, a farci qualche risata a gola piena, e perfino G.P. aveva ripreso a dipingere. Non gli avrebbe pagato il mutuo né risolto gli altri problemi, eppure era importante che lo facesse. Era importante tutto quello che loro facevano, e che avrebbero fatto in quel lungo anno davanti a noi.
La seconda parte finiva con me in un taxi coi finestrini abbassati, di corsa nel tramonto romano. Niente amici stavolta, né Eddie Vedder. Andavo di corsa perché mi avevano fregato, sopprimendo all’ultimo il treno per l’aereoporto. In quel Paese mi avrebbero fregato sempre con qualcosa, e sarei sempre tornato lí.
Se esiste qualche forma di amore, é questa.
Poi l’aereo, il bambino giapponese che mi si addormentava sul braccio, i controlli con gli occhi appiccicati dal sonno, le attese, i controlli alla dogana, infine il taxi verso casa.
“Che si dice in India, amico?” faceva il tassista, un etiope con occhiali da jazzista,
“Non saprei, dal momento che non ci ho mai messo piede. Sono italiano, io”
“See, vabbé, dicono tutti cosí” sorrise lui. Io non dissi niente ma chiusi gli occhi a quel sole caldo di un inverno freddo e strano. Ero tornato a casa –almeno, una delle case. Sentivo che era la fine di qualcosa, o l’inizio di un’altra –il che non per forza era legato.
Sentivo che la seconda parte finiva cosí, senza vincitori, senza morale, senza molto da insegnare. Ma restavano quelle notti piene di parole, le nostre speranze, restavano i dipinti di G.P. e quel modo che avevamo di andare avanti fottendocene di tutto, restava la voglia di continuare, di non chiedere mai permesso, di non lasciare che fossero solo due parti ma molte, molte, molte di piú.
E stavolta, per una volta, dipendeva da noi.
A tutti voi che mi mancate sempre, e siete sempre qui.
Alla prossima.
"Media rossa", Giancarlo Privitera 2011
Iscriviti a:
Post (Atom)