martedì 16 ottobre 2007

Factotum in Oz


"Le griglie erano pesanti. Bastava sollervarne una per stancarsi. Se si cominciava a pensare che bisognava farlo per otto ore, centinaia di volte, si lasciava perdere in partenza.
Lavori del genere stancano gli uomini. Di una stanchezza che va al di là della fatica fisica. Si dicono cose folli, brillanti. Fuori di me, imprecavo, parlavo, cantavo e sfornavo una battuta dietro l’altra. L’inferno ribolle di risate"

Charles Bukowski, "Factotum"


Comincia un po’ più tardi delle solite sei del mattino. Ho deciso di prendermela più comoda, anche in vista di quello che mi aspetta. Arrivo a Chatswood, nel mio solito grattacielo, alle dieci, con tutta calma. Saluto tutti quelli che sono rimasti. Alcuni sono già partiti, altri stanno per prendere il volo, in giro per questo continente che sta per diventare caldo caldo caldo. Siamo diventati amici, in queste settimane, complici di furti alla cucina dell’ufficio e compagni di sbronze nelle pause-pranzo (sì, abbiamo fatto anche questo, e anche spesso). Ci diciamo che ci ritroveremo, però, qui da qualche parte, nel deserto o dalle parti di Cairns, su e giù la costa Ovest, a sinistra di Byron Bay o tra Melbourne e la Tasmania. Il lavoro è stato stressante, nove ore battenti ogni giorno, ma tutto sommato sopportabile grazie anche al nostro cazzeggio di sopravvivenza e ai nostri tè ogni dieci minuti. Qualche scazzo con la capa, ma le persone si sa, sono quello che sono, e non migliorano mai nemmeno se vanno in Australia.

In giro aria da ultimo giorno. Non si sa se continueremo o se finisce qui, nemmeno la capa lo sa, o semplicemente non ce lo vuole dire. Io faccio il mio, come sempre. Mi spostano in un altro ufficio. Ribecco tutti giù, alla pausa pranzo, col solito panino e un’insolita tempesta che spazza via i tavolini. Scambio di numeri, foto, alcune ragazze straniere che vedevamo sempre ci rivolgono la parola, alla fine, anche solo per dirci ciao. Un italiano divide un tiramisù con me. Dice che non vuole tornare a casa, in Italia. Dice che ora forse va in Nuova Zelanda. Io torno su, al mio piano, per le mie ultime 3 ore di lavoro qui.

Alle 4 salto sulla sedia, prendo le mie cose e prendo il volo, con un salernitano che mi augura buona fortuna, qualche altro saluto e ancora tanto da fare. Vado giù in strada, mi dirigo verso i taxi, ne prendo uno. Provo a parlare un po’ col tassista, ma non andiamo al di là del tempo. Non è in giornata. Io invece guardo tutto con occhi curiosi. Tagliamo in due la città, passando anche sopra l’amato Harbour Bridge. Corriamo anche sopra un altro ponte, l’Anzac, e subito dopo siamo arrivati. Pago l’uomo –tutti soldi che mi verranno restituiti- e mi guardo intorno. Vedo Balmain per la prima volta. Non mi sembra questo granchè, ma il cielo è nuvoloso, e non voglio giudicare. È ancora troppo presto, così mi faccio un giro per le stradine, per conoscere un po’ la zona. Tutto sembra ronfare col ritmo tipico del primo pomeriggio. Mi siedo ad una panchina e mi leggo un po’ del mio "Giovane Holden" in inglese, che mi porto sempre appresso. L’ultimo momento di pace, ma io ancora non lo so.

Entro al ristorante alle 5 in punto, come da accordo. Saluto, stringo mani, ascolto nomi che subito dimentico nella fretta delle cose. La capa –un’altra capa- comincia a vomitare raccomandazioni, indicazioni, proibizioni. Oggi dovrò sostituire, in via eccezionale, il lavapiatti, che sembra sia sul piede di guerra sindacale. Avevo detto di sì, preparandomi al peggio.
Ovviamente, è stato ancora peggiore.
Ancora stordito, mi infilo un enorme grembiule di gomma. Ascolto metà delle cose che mi vengono dette. Non ho tempo nemmeno di scoprire dov’è il cesso, di bere un bicchiere d’acqua, niente. Mi dicono, lì ci sono i guanti. Li prendo. Mancano un paio di dita. Chiedo per altri guanti. Ci sono lì quelli usa e getta. Li prendo. Una busta di plastica farebbe più spessore. Non ti preoccupare, mi dice la capa, usane quanti ne vuoi. Detto ciò, si comincia. 6 ore di lavoro al mattino, ancora con le mie Puma ai piedi, e ora mi ritrovo a sgrassare pentole e posate unte e bisunte. La capa aveva detto un milione di cose tutte insieme, di fretta, ed era tornata ai cazzi suoi. Il tizio accanto a me, che sembra sui 35, mi spiega cosa fare. In sostanza, dopo aver lavato i piatti devo metterli in questa lavastoviglie bassa, dove l’acqua, precisa, è a un milione di gradi. Da lì li prendo e li metto su un mobile, poi li asciugo, li metto al loro posto, e da lì torno a lavare altri piatti, poi lavastoviglie, mobile, asciugatura, sistemazione, e di nuovo. Questo senza contare che in un momento di caos ci possono essere 40 piatti tutti insieme e pentole e tutto il resto. Questo senza contare bicchieri e posate, che hanno bisogno di altri trattamenti, e che poi devo portare di là, in sala, ed asciugare uno per uno –e per favore, precisa la capa, quando vai in sala ad asciugare togliti i guanti, ok?
Lavo e faccio la prima lavastoviglie. Quando finisce la apro. Il vapore caldissimo mi appanna gli occhiali –cosa che si ripeterà migliaia di volte quella sera. Nella semi-cecità afferro i piatti. Sono incandescenti. I guanti usa e getta, che ne posso usare quanti ne voglio, non servono a un cazzo. Comincio a sudare. Lo spazio e' strettissimo.

La gente comincia ad arrivare. È venerdì sera, che qui è il giorno più incasinato, e questo venerdì sarà anche più incasinato del solito. I ragazzi della cucina –loro simpatici, va detto- mi dicono che è una guerra. I piatti si accumulano in pile impossibili da smaltire. Ce n’è sempre una e una e una. L’acqua mi arriva dappertutto, sui jeans, sulle scarpe. Devo usare quella bollente per sgrassare, e la temperatura sfiora i climi tropicali. Mi arriva sulla braccia, sugli occhiali. L’orologio è proprio dietro di me, ed è una tortura. Mi obbligo a non guardarlo, ma poi commetto lo stesso l’errore. I secondi durano anni. Il tempo non passa mai. I piatti si accumulano. Più veloce, mi dicono. In sala servono piatti. Poi i bicchieri. Corro, tolgo i guanti e vado ad asciugare i bicchieri. In quel momento, mentre guardo i tavolini pieni, realizzo che ancora non ho visto nemmeno il locale –e credetemi, è un buco. Sto lavando non-stop dalle 5. Non riesco nemmeno a pensare a quanto tempo è che non mi siedo, o anche solo che mi fermo un istante a tirare il fiato. Ho troppo da fare.
Continuo a lavare, infilare nella macchina, ad asciugare. Una furia. Non c’è tempo per pensare. Il tizio sui 35 mi porta un bicchiere d’acqua per pietà, e quando la bevo mi sembra la cosa più bella del mondo.

Alle dieci in teoria il ristorante chiude, ma è venerdì e la gente non ha voglia di andar via. I piatti continuano ad arrivare. Mi servono bicchieri, mi dicono, mi servono posate. I guanti sono tutti bucati, ho acqua dappertutto. A forza di abbassarmi per mettere le cose dentro la lavastoviglie migliaia di volte mi viene un maldischiena micidiale. A forza di tirare fuori i piatti bollenti mi si bruciano tutte le punta delle dita. Perdo la sensibilità in alcune parti del corpo. Un paio di momenti le cose da lavare sono così tante, che ti viene voglia di pensare che mollare tutto e andartene tanto è impossibile farcela. Alla fine poi la prendi come una scommessa con te stesso, come una sfida, come una semplice follia e lo fai. Non devi pensare, sennò sei fottuto. Il trucco è tutto qui. Lo fai e basta. È questo che vogliono, e tu glielo dai. La differenza tra te e la lavastoviglie a un milione di gradi è che la lavastoviglie non si ferma mai, tu sì. Non ci vuole molto a capire a cosa tengono di più, lì.
Con le mani ustionate, sudato, con centinaia e centinaia di piatti, pulendo la merda che altri hanno lasciato, cominci a scivolare nella pazzia. Comincio a canticchiare, a borbottare, a parlare con gli altri o anche solo con me stesso. Penso a me stesso con quel grembiule e rido, scuotendo la testa.

Anche l’ultimo cliente va via. I piatti però non smettono di accumularsi. Trovo il tempo di parlare un po’ col tizio 35enne mentre cerchiamo di smaltire tutta quella catasta. Parliamo di Australia, donne, visti. Mi dice che ha il working-holyday. Ma quanti anni hai, chiedo.
26, risponde lui.
Lo guardo in faccia. La serata è finita.
La capa mi dà i soldi del taxi, più le mance. Nemmeno li guardo. Ho dimenticato che ero qui solo per loro. Mi dice che domani farò il cameriere di sala, ma che domenica dovrò sostiuire per l’ultima volta il lavapiatti. Domenica. 48 ore.
Esco di lì col proposito di godermele tutte. Corro verso la fermata dell’autobus –perso quello, posso solo fare l’autostop. Tutti i muscoli mi fanno male. Sono bagnato, sono sudato, sono stanco. Non mi siedo dalle 5, e ora sono le 11 passate. Nell’autobus sprofondo, mentre alcuni ubriachi si raccontano le loro storielle. Poi ancora mezzora di treno.
Alla fine, forse, a casa.

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