mercoledì 9 marzo 2016

Cose che ho imparato in 6 mesi di Latinoaustraliana



Senza neanche capire come, “Latinoaustraliana” ha soffiato le sue prime sei candeline – una per ogni mese passato dalla sua pubblicazione.
Lo scorso settembre, per chi fosse arrivato solo adesso, ho pubblicato il mio primo romanzo - che come suggerisce il titolo, ha qualcosa a che fare con il Paese dal quale mi trovo a scrivere adesso. Il libro, pubblicato dalla Nativi Digitali di Bologna in formato ebook, ha visto appunto la luce il 2 settembre 2015, anche se era stato presentato già qualche giorno prima a Messina.
Potrei perdermi in originali commenti sul tempo che passa senza che nemmeno ce ne rendiamo conto (e che di solito riservo per compleanni o quando scordo di pagare le bollette), ma questa ve la risparmio. Volevo concentrarmi più sulle cose che ho imparato in questi sei mesi di Latinoaustraliana.
Perchè di imparare, banalmente, non si finisce mai.
Intanto, ho imparato qualcosa che già intuivo: quando aspetti e rincorri così tanto qualcosa, quando poi si avvera non è mai come avevi immaginato. Prima di quel settembre ci sono stati più di dieci anni di fogli scarabocchiati, idee cestinate, prove, abbattimenti, colpi di genio, depressioni e bicchieri svuotati accanto a tastiere appiccicose –e per tutto il tempo avevo solo un obiettivo in mente: le mie parole messe in fila, nell’ordine che volevo, che finalmente uscivano da quella stanza.
Però ho imparato anche che, se uno è un po’ elastico (e il cielo sa se lo sono), anche così non è affatto male, anzi. Le sensazioni sono sempre lì, magari segnate dal passare del tempo, un po’ schiacciate dalle preoccupazioni di giorni uguali e prosaici –ma sono loro. E quando vedi per la prima volta la tua copertina, quando leggi il nome, quando cominci a sfogliare le pagine, capisci che è una gran bella sensazione.

Ho imparato che non è facile NON passare per scrittore. D’altronde c’è una prova che ti inchioda adesso. Hai scritto un libro? Allora sei scrittore.
E forse è vero, e io dovrei solo versarmene uno e prenderla più alla leggera. Però non ce la faccio. Sono uno studentello, con i miei capelli bianchi e le mie cicatrici. Lo scrittore per me è un’altra cosa –sacra, probabilmente irreale- e la tendenza che ho a girarmi ogni qualvolta mi chiamano così, per capire con chi ce l’abbiano, è forte. Alla fine ho ceduto, ma solo per convenzione sociale, e perchè così si fa prima.
Ho imparato che non è facile essere scrittore (e dagli!). Perchè ti rendi conto che qualcosa di tuo, così intimo, sta passando per mani sconosciute, finirà in luoghi che nemmeno sai bene dove sono, e tutto questo è eccitante e pauroso come una sveltina in piedi di sabato sera dietro la birreria.
Perchè molti ti conosceranno attraverso quelle parole, e si formeranno un giudizio che a volte ti sembrerà un’etichetta ingiusta e altre una deformazione troppo generosa di come ti vedi tu. Quello è il tuo stile, quello è il tuo pascolo: se provi ad uscire di qui, ti spariamo. Solo perchè tu lo sappia.
Perchè molti non ti conosceranno, ma sapranno benissimo chi sei.
Perchè dovrai metterti a nudo, e solo allora ti ricorderai che l’hai già fatto –tu l’eremita, tu quello riservato, che si è spogliato pagina dopo pagina, mostrando molto, talvolta troppo, sperando che lasciassero una buona mancia sul comodino.
Perchè non giocherai alla pari con gli altri, avendo svelato le tue carte –un po’ come andare ad un appuntamento al buio ma lei sa già tutto di te, e specialmente i tuoi punti deboli.
Ho imparato che però, se riesci a tenere alla bada tutto questo (e la tua testa matta), essere uno scrittore (argh!) è davvero una gran figata. E ve lo dice uno che non ha mai desiderato essere un divo del cinema o un grande sportivo (ok, una rockstar maledetta sì), ma in stanza aveva un poster di Hemingway e in cucina delle citazione di Bukowski appiccate sul muro in una notte ubriaca d’agosto.

Ho imparato che essere uno scrittore sconosciuto, di questi tempi, è un lavoro a tempo pieno. Bisogna far promozione, essere presenti sui social, andare in giro a rompere le palle, corteggiare bloggers, rincorrere recensioni e così via. Il che nel 2016, con la crisi del mercato, la saturazione, la diminuizione dei lettori e il successo di Zalone, è comprensibile e lo fai con piacere ed entusiasmo.
Ho imparato che ti puoi perdere in questo meccanismo del diventare l’agente di te stesso, e dimenticarti un piccolo particolare: lo scrittore, tra le altre cose, ogni tanto dovrebbe pur scrivere.
Ho imparato che è davvero strano parlare ad altri, in pubblico, di qualcosa che è nato tra quattro mura solitarie. Le prime volte è come se ti chiedessero a bruciapelo di svelare un tuo segreto imbarazzante davanti a tutti. Dopo un po’ ci fai pace e lo accetti. Continui a pensare che uno scrittore non debba mai niente a nessuno se non le proprie parole, e non una in più –ma di nuovo, bisogna essere elastici. Salinger poteva permettersi di mandare tutti affanculo, tu ancora no, e allora meglio capire che, in fondo, hai l’occasione per dire qualcosa che ti sta a cuore a gente che ti ascolta per quei cinque minuti, senza dover per forza spiegare il romanzo o i buffi aneddoti che ci sono dietro.
Ho imparato che parlare in pubblico è come un primo appuntamento: all’inizio ti sembra quasi di annegare nell’imbarazzo e vorresti dartela a gambe, ma una volta che capisci come gira, puoi mostrare il meglio di te. Ho imparato anche che non esiste un pubblico uguale ad un altro, pure se composto da dieci persone. Ognuno di loro mi ha dato una vibrazione diversa, ogni faccia è entrata a far parte di un poster che ho appeso proprio qui, di fronte alla tastiera, e che mi motiva sempre a continuare.
Ho imparato che sensazione goduriosa sia, trovarsi una recensione positiva su Amazon o incontrare una signora sessantenne che ti dice che si è letta il tuo libro due volte da quanto le è piaciuto. Momenti in cui capisci che tutte le ore perse a ingobbirti dietro ad uno schermo, forse un po’ di senso l’avevano.

Ho imparato perfino cose nuove su un libro che io stesso ho scritto, e che pensavo di conoscere come la mia casa. Altri invece ci si sono aggirati dentro, con altri occhi, facendomi vedere degli angoli nascosti, delle crepe sul pavimento, talvolta persino una facciata che avevo dato sempre per scontata, e questo è solo uno dei tanti miracoli legati alla scrittura e alla lettura.
Ho imparato che probabilmente nessuna location batterà mai quella della prima presentazione –seduto su uno sgabello in spiaggia, gli altri sdraiati sulle stuoie, davanti lo Stretto e una luna che illuminava a giorno.
Ho imparato anche che andare in trasferta a presentare non è male, al di là delle necessità low-cost e delle ore smozzicate per il lavoro, ti lascia sempre quell’aria da rockstar in tourneè –specie dopo la prima litrata di birra.
Ho imparato che ci sono amici che ancora non sai, che ti aspettano in città che non avevi mai visto prima e in città che ti sembrava di conoscere, amici che ti regalano delle serate che porti con te per sempre –così come ricordi la prima “fan”, una ragazza sconosciuta che si è avvicinata dopo la presentazione per farsi firmare l’ebook-card, alla prima serata in spiaggia, con te che rigiravi nervosamente una Tennent’s tra le mani e non capivi nemmeno bene dov’eri, e lei che ti ringraziava con un sorriso e qualcuno scattava una foto e qualche strana magia era appena avvenuta ma l’avresti capita soltanto dopo.
Ho imparato che, viaggiando, succede sempre qualcosa e si conosce sempre qualcuno –ma questo mi sa di averlo già scritto da qualche parte.
Ho imparato che non vedo l’ora di partire per il prossimo giro.

Ho imparato che la gente reagisce in maniere strane e inaspettate, al fatto che tu possa aver scritto un libro. Lorenzo Sartori (altro autore dei Nativi Digitali) non ci era andato lontano con questa sua guida ironica. C’è gente insospettabile che si congratula con te, riemergendo da anni di oblio, e altri attesissimi che invece si fanno desiderare.
Ho imparato anche che, senza la mia ragazza, avrei preso sul serio molta più roba di quel che dovevo, e mi sarei gustato di meno quel che di buono mi capitava.

Ho imparato, in fondo, che questo è solo un inizio. La candelina grossa sarà tra altri sei mesi, quando avrò imparato ancora altre cose, e allora faremo qualche bilancio –che per me anche ora, nonostante tutto, non può che essere totalmente, limpidamente positivo.
Perchè questo libro mi ha salvato da un bel po’ di roba, sia allora quando l’ho scritto, sia adesso che è pubblicato.
A voi –che avete dovuto leggere tutto questo- mica tanto.

Tanti auguri fanciulle e fanciulli, la torta è di là. Per lo spumante, vi passo la boccia quando ho finito.
E so di non dirvelo abbastanza, ma grazie davvero di tutto.
Alla prossima.
Buona Latinoaustraliana a tutti.



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