giovedì 31 marzo 2016
"Gli anni" - Annie Ernaux
Sì. Dimenticheranno. È il nostro destino, non ci si può fare nulla. Ciò che a noi sembra serio, significativo, molto importante, col passar del tempo sarà dimenticato o sembrerà irrilevante. Ed è curioso che noi oggi non possiamo assolutamente sapere che cosa domani sarà ritenuto sublime, importante e che che cosa meschino, ridicolo. E la nostra vita, che oggi viviamo con tanta naturalezza, apparirà col tempo strana e scomoda, priva di intelligenza, non sufficientemente pura, forse addirittura immorale.
Anton Cechov
Comincia così “Gli anni” (L'Orma), il romanzo della scrittrice francese Annie Ernaux, già caso letterario nel suo Paese. Ed è un bel romanzo, specie per un fissato di Storia (maiuscola) e storie (minuscole) come me –e questo libro le intreccia magistralmente l’una nelle altre, fino a far confondere sfondo e primo piano, grandi eventi e quotidianità.
“Gli anni” segue un soggetto volutamente senza nome, che ovviamente riflette l’io della scrittrice, e che per l’occasione diventa un noi: quello che succede al singolo in qualche modo succede a tutti, dai riti obbligati agli accadimenti della Storia, restando sempre a metà tra ritratto di una generazione e storia personale, piena di affetti e rimpianti.
La protagonista segue i principali avvenimenti del Novecento, dalle Guerre al Sessantotto, sviluppando al tempo stesso il proprio racconto: l’infanzia modesta di periferia, il matrimonio, l’arrivo dei figli, l’arrivo nella grande città. Attraverso uno stile ricco, lirico fin quasi all’ipnotismo, la Ernaux srotola parole e ricordi davanti ai nostri occhi, trovando tanti punti in comune con le nostre vite, con chiunque entri a far parte di quel noi collettivo, impersonale e spietato. Ma non è solo la storia particolare, o la Francia, o il Novecento (e primi anni del Duemila): con “Gli anni” la scrittrice riesce nel suo tentativo più ampio e ambizioso, e cioè usare la propria storia (personale e collettiva) per arrivare a parlare del Tempo, di come esso ci forgia, ci devia il percorso, ci cambia, e in ultima battuta, ci vince. Non gli si può sfuggire, al Tempo, così come non si sfugge alla Storia: anche al riparo della propria quotidianità, pure nel più isolato e periferico dei paesini, la Storia viene sempre, prima o poi, a bussare alla porta –e raramente sono buone notizie.
Non a caso, la scrittura qui si fa flusso, cumulo di aggettivi, di oggetti, di nomi che la memoria fatica a ricordare, di facce che escono di scena come comparse occasionali e altre che non se ne vanno, di avvenimenti che non sono mai come ce li raccontano almanacchi e memoriali, quando li abbiamo vissuti. Anche la politica si compenetra nella nostra vita, ne fa parte, a volte messa in secondo piano dalle nostre emergenze personali, ma c’è sempre.
Un bel libro, importante e ben scritto, che consiglio. Perché memoria storica e memoria personale possono far male fino ad azzannare, ma senza di esse resta solo un vuoto, sia di emozioni che di significati.
giovedì 10 marzo 2016
"Vangelo Yankee" - Nicolo' Gianelli
Eravamo cresciuti con i film americani, con i libri americani, con la cultura americana. Che tu lo voglia o no sei cresciuto qui, chiudi gli occhi e sei in America. La Ruote 66, Steinbeck e i viaggi sognando la California. Kerouac e le sue strade. I western, i fagioli nel deserto. Quante volte li avevamo già mangiati i fagioli nel deserto? L’America non è solo un continente. Non è la terra, le rocce, le spiagge, le sequoie. L’America è un immaginario collettivo, è un lungo sogno che ha attraversato le nostre vite.
C’è tutto: una colonna sonora cazzuta, una macchina che sembra una balena bianca, quattro amici storici, una sigaretta accesa e la Route 66 che si srotola sotto i pneumatici, conducendo alle tante stazioni di questa Via Crucis al contrario, un percorso forse di redenzione e forse no –ma di sicuro parecchio interessante.
E come ogni buon viaggio che si rispetti, comincia sempre dalla fine.
“Vangelo Yankee” di Nicolo' Gianelli, pubblicata dalla Roundmidnight Edizioni, segue un percorso a ritroso, con i capitoli che scandiscono un conto alla rovescia che riporterà il viaggio alle sue origini –e anche alle sue misteriose motivazioni. Ogni capitolo è dedicato ad uno Stato americano –o meglio, non lo è. Perché, proprio come recitano i vari titoli (“NON è California” e così via), l’America che Nicolò ci mostra non è l’America –più che altro, un incontro tra quel luogo ideale che noi tutti conosciamo perché ci siamo cresciuti, e un’America di fantasia, che è poi il forte di Nicolò (“Un luogo per esclusione, un posto dove l’immaginario ha capovolto la realtà”, come scrive verso la fine del romanzo). E così, tra una città e l’altra, i nostri quattro avranno a che fare con cactus pistoleri, Cadillac zombie e cartelloni stradali sbronzi. Non solo: saranno loro i veri protagonisti di ogni capitolo del libro, intrecciando le loro incredibili storie tra loro, relegando i quattro ad essere testimoni –quasi fossero il pubblico per dei raccontastorie. Perché “Vangelo Yankee”, più che un diario di viaggio o un romanzo on the road, è una storia, formata a sua volta da tante storie, di quelle che vengono tramandate nei saloon di fronte ad un bicchiere o davanti ad un fuoco nel deserto. Ogni storia ha una sua morale, un suo colore, fa ridere o fa riflettere, e alla fine ti lascia dentro bicchieri vuoti e polvere di deserto. Ogni storia contiene una parte di questo Vangelo, una ricerca di senso tra la vita e la morte; il protagonista afferma: “Invidiavo quella gente, volevo credere come loro. Proiettare tutto il mio futuro prima e dopo la morte in un contesto in cui io non avevo alcun peso. Lasciar decidere Dio, affidarmi al suo volere, credere che lui e solo lui potesse avere un’influenza sulle cose. Non volevo decidere, volevo che altri lo facessero per me. Altri che la sapevano lunga, gente competente. E non riuscivo a immaginare nessuno più competente di Dio.”.
Per scoprire come va a finire questa ricerca, l’unico modo è montare sulla Balena Bianca e percorrere questi chilometri infiniti, condensati molto abilmente in un libro che scorre più veloce di qualsiasi Cadillac, e che vorrete finire tutto d’un fiato.
Da parte mia, posso dire che ho letto tanti libri con queste ambientazioni e con l’idea del viaggio coast-to-coast (che è sempre stato uno dei miei sogni kerouakiani mai realizzati), ma raramente con la potenza, la bravura e il fascino di questo “Vangelo Yankee”. Nicolò sapeva usare le sue parole, intrigando, stupendoti col candore prima di farti ubriacare così tanto da farti correre dentro il giardino della White House. Aveva un’abilità che non si riscontra (più) così spesso negli scrittori, giovani o esperti che siano: sapeva come raccontare una storia, al punto da creare un libro quasi tridimensionale, che puoi guardare da diverse angolazioni, rileggere più volte, e trovarci sempre qualcosa di nuovo –e qualcosa che ti arricchisce.
Parlo al passato perché “Vangelo Yankee” è, purtroppo, un libro postumo. La scelta di Nicolò rimanda, in maniera estrema, la potenza e la sincerità dietro i quesiti che le sue storie ponevano. La lettera finale, in appendice al libro, dei genitori di Nicolò e di una sua amica, sono strazianti e piene di amore, e in qualche modo completano questo viaggio emozionale che finisce per accompagnarti a lungo. La morte, come realtà ultima che irrompe nel perfetto viaggio di fantasia creato da Nicolò, non lo distrugge –semmai sembra risaltare ogni pagina, rendendo la bellezza ancora più struggente, e la desolazione ancora più disperata.
Nicolò era uno scrittore completo, una voce nuova e bella. Per tutto questo, per molto altro, leggere “Vangelo Yankee” è un’esperienza che dovete fare, e di cui non vi pentirete nemmeno per un attimo.
Buon viaggio.
mercoledì 9 marzo 2016
Cose che ho imparato in 6 mesi di Latinoaustraliana
Senza neanche capire come, “Latinoaustraliana” ha soffiato le sue prime sei candeline – una per ogni mese passato dalla sua pubblicazione.
Lo scorso settembre, per chi fosse arrivato solo adesso, ho pubblicato il mio primo romanzo - che come suggerisce il titolo, ha qualcosa a che fare con il Paese dal quale mi trovo a scrivere adesso. Il libro, pubblicato dalla Nativi Digitali di Bologna in formato ebook, ha visto appunto la luce il 2 settembre 2015, anche se era stato presentato già qualche giorno prima a Messina.
Potrei perdermi in originali commenti sul tempo che passa senza che nemmeno ce ne rendiamo conto (e che di solito riservo per compleanni o quando scordo di pagare le bollette), ma questa ve la risparmio. Volevo concentrarmi più sulle cose che ho imparato in questi sei mesi di Latinoaustraliana.
Perchè di imparare, banalmente, non si finisce mai.
Intanto, ho imparato qualcosa che già intuivo: quando aspetti e rincorri così tanto qualcosa, quando poi si avvera non è mai come avevi immaginato. Prima di quel settembre ci sono stati più di dieci anni di fogli scarabocchiati, idee cestinate, prove, abbattimenti, colpi di genio, depressioni e bicchieri svuotati accanto a tastiere appiccicose –e per tutto il tempo avevo solo un obiettivo in mente: le mie parole messe in fila, nell’ordine che volevo, che finalmente uscivano da quella stanza.
Però ho imparato anche che, se uno è un po’ elastico (e il cielo sa se lo sono), anche così non è affatto male, anzi. Le sensazioni sono sempre lì, magari segnate dal passare del tempo, un po’ schiacciate dalle preoccupazioni di giorni uguali e prosaici –ma sono loro. E quando vedi per la prima volta la tua copertina, quando leggi il nome, quando cominci a sfogliare le pagine, capisci che è una gran bella sensazione.
Ho imparato che non è facile NON passare per scrittore. D’altronde c’è una prova che ti inchioda adesso. Hai scritto un libro? Allora sei scrittore.
E forse è vero, e io dovrei solo versarmene uno e prenderla più alla leggera. Però non ce la faccio. Sono uno studentello, con i miei capelli bianchi e le mie cicatrici. Lo scrittore per me è un’altra cosa –sacra, probabilmente irreale- e la tendenza che ho a girarmi ogni qualvolta mi chiamano così, per capire con chi ce l’abbiano, è forte. Alla fine ho ceduto, ma solo per convenzione sociale, e perchè così si fa prima.
Ho imparato che non è facile essere scrittore (e dagli!). Perchè ti rendi conto che qualcosa di tuo, così intimo, sta passando per mani sconosciute, finirà in luoghi che nemmeno sai bene dove sono, e tutto questo è eccitante e pauroso come una sveltina in piedi di sabato sera dietro la birreria.
Perchè molti ti conosceranno attraverso quelle parole, e si formeranno un giudizio che a volte ti sembrerà un’etichetta ingiusta e altre una deformazione troppo generosa di come ti vedi tu. Quello è il tuo stile, quello è il tuo pascolo: se provi ad uscire di qui, ti spariamo. Solo perchè tu lo sappia.
Perchè molti non ti conosceranno, ma sapranno benissimo chi sei.
Perchè dovrai metterti a nudo, e solo allora ti ricorderai che l’hai già fatto –tu l’eremita, tu quello riservato, che si è spogliato pagina dopo pagina, mostrando molto, talvolta troppo, sperando che lasciassero una buona mancia sul comodino.
Perchè non giocherai alla pari con gli altri, avendo svelato le tue carte –un po’ come andare ad un appuntamento al buio ma lei sa già tutto di te, e specialmente i tuoi punti deboli.
Ho imparato che però, se riesci a tenere alla bada tutto questo (e la tua testa matta), essere uno scrittore (argh!) è davvero una gran figata. E ve lo dice uno che non ha mai desiderato essere un divo del cinema o un grande sportivo (ok, una rockstar maledetta sì), ma in stanza aveva un poster di Hemingway e in cucina delle citazione di Bukowski appiccate sul muro in una notte ubriaca d’agosto.
Ho imparato che essere uno scrittore sconosciuto, di questi tempi, è un lavoro a tempo pieno. Bisogna far promozione, essere presenti sui social, andare in giro a rompere le palle, corteggiare bloggers, rincorrere recensioni e così via. Il che nel 2016, con la crisi del mercato, la saturazione, la diminuizione dei lettori e il successo di Zalone, è comprensibile e lo fai con piacere ed entusiasmo.
Ho imparato che ti puoi perdere in questo meccanismo del diventare l’agente di te stesso, e dimenticarti un piccolo particolare: lo scrittore, tra le altre cose, ogni tanto dovrebbe pur scrivere.
Ho imparato che è davvero strano parlare ad altri, in pubblico, di qualcosa che è nato tra quattro mura solitarie. Le prime volte è come se ti chiedessero a bruciapelo di svelare un tuo segreto imbarazzante davanti a tutti. Dopo un po’ ci fai pace e lo accetti. Continui a pensare che uno scrittore non debba mai niente a nessuno se non le proprie parole, e non una in più –ma di nuovo, bisogna essere elastici. Salinger poteva permettersi di mandare tutti affanculo, tu ancora no, e allora meglio capire che, in fondo, hai l’occasione per dire qualcosa che ti sta a cuore a gente che ti ascolta per quei cinque minuti, senza dover per forza spiegare il romanzo o i buffi aneddoti che ci sono dietro.
Ho imparato che parlare in pubblico è come un primo appuntamento: all’inizio ti sembra quasi di annegare nell’imbarazzo e vorresti dartela a gambe, ma una volta che capisci come gira, puoi mostrare il meglio di te. Ho imparato anche che non esiste un pubblico uguale ad un altro, pure se composto da dieci persone. Ognuno di loro mi ha dato una vibrazione diversa, ogni faccia è entrata a far parte di un poster che ho appeso proprio qui, di fronte alla tastiera, e che mi motiva sempre a continuare.
Ho imparato che sensazione goduriosa sia, trovarsi una recensione positiva su Amazon o incontrare una signora sessantenne che ti dice che si è letta il tuo libro due volte da quanto le è piaciuto. Momenti in cui capisci che tutte le ore perse a ingobbirti dietro ad uno schermo, forse un po’ di senso l’avevano.
Ho imparato perfino cose nuove su un libro che io stesso ho scritto, e che pensavo di conoscere come la mia casa. Altri invece ci si sono aggirati dentro, con altri occhi, facendomi vedere degli angoli nascosti, delle crepe sul pavimento, talvolta persino una facciata che avevo dato sempre per scontata, e questo è solo uno dei tanti miracoli legati alla scrittura e alla lettura.
Ho imparato che probabilmente nessuna location batterà mai quella della prima presentazione –seduto su uno sgabello in spiaggia, gli altri sdraiati sulle stuoie, davanti lo Stretto e una luna che illuminava a giorno.
Ho imparato anche che andare in trasferta a presentare non è male, al di là delle necessità low-cost e delle ore smozzicate per il lavoro, ti lascia sempre quell’aria da rockstar in tourneè –specie dopo la prima litrata di birra.
Ho imparato che ci sono amici che ancora non sai, che ti aspettano in città che non avevi mai visto prima e in città che ti sembrava di conoscere, amici che ti regalano delle serate che porti con te per sempre –così come ricordi la prima “fan”, una ragazza sconosciuta che si è avvicinata dopo la presentazione per farsi firmare l’ebook-card, alla prima serata in spiaggia, con te che rigiravi nervosamente una Tennent’s tra le mani e non capivi nemmeno bene dov’eri, e lei che ti ringraziava con un sorriso e qualcuno scattava una foto e qualche strana magia era appena avvenuta ma l’avresti capita soltanto dopo.
Ho imparato che, viaggiando, succede sempre qualcosa e si conosce sempre qualcuno –ma questo mi sa di averlo già scritto da qualche parte.
Ho imparato che non vedo l’ora di partire per il prossimo giro.
Ho imparato che la gente reagisce in maniere strane e inaspettate, al fatto che tu possa aver scritto un libro. Lorenzo Sartori (altro autore dei Nativi Digitali) non ci era andato lontano con questa sua guida ironica. C’è gente insospettabile che si congratula con te, riemergendo da anni di oblio, e altri attesissimi che invece si fanno desiderare.
Ho imparato anche che, senza la mia ragazza, avrei preso sul serio molta più roba di quel che dovevo, e mi sarei gustato di meno quel che di buono mi capitava.
Ho imparato, in fondo, che questo è solo un inizio. La candelina grossa sarà tra altri sei mesi, quando avrò imparato ancora altre cose, e allora faremo qualche bilancio –che per me anche ora, nonostante tutto, non può che essere totalmente, limpidamente positivo.
Perchè questo libro mi ha salvato da un bel po’ di roba, sia allora quando l’ho scritto, sia adesso che è pubblicato.
A voi –che avete dovuto leggere tutto questo- mica tanto.
Tanti auguri fanciulle e fanciulli, la torta è di là. Per lo spumante, vi passo la boccia quando ho finito.
E so di non dirvelo abbastanza, ma grazie davvero di tutto.
Alla prossima.
Buona Latinoaustraliana a tutti.
venerdì 4 marzo 2016
"Siamo spiacenti di" - Dino Buzzati
Scrivi, ti prego. Due righe sole, almeno, anche se l’animo è sconvolto e i nervi non tengono più. Ma ogni giorno. A denti stretti, magari delle cretinate senza senso, ma scrivi. Lo scrivere è una delle più patetiche e ridicole nostre illusioni. Crediamo di fare cosa importante tracciando delle contorte linee nere sopra la carta bianca. Comunque, questo è il tuo mestiere, che non ti sei scelto tu ma ti è venuto dalla sorte, solo questa è la porta da cui, se mai, potrai trovare scampo. Scrivi, scrivi. Alla fine, fra tonnellate di carta da buttare via, una riga si potrà salvare. (Forse.)
A volte, in queste recensioni non richieste, mi sono dedicato a scrittori che ho definito “dimenticati”. Dino Buzzati non è stato dimenticato, vista anche la sua presenza costante in libreria –ma sottovalutato, questo sì.
Intendiamoci: a molti piace quel suo gusto per la novella breve, la fiaba, la storiella morale. Ma tanti, tra questi molti, si fermano solo a quello. Buzzati, invece, nasconde un mondo.
Qualche giorno fa leggevo un’intervista a Tiziano Sclavi, il creatore del personaggio a fumetti Dylan Dog. In un passaggio definiva Buzzati una delle sue maggiori influenze a livello stilistico.
E questo non è che un piccolo esempio. La scrittura di Buzzati, sommessa e lontana dalle prime pagine, ha scavato un solco nella nostra recente letteratura, contaminando molte più persone di quanto si potrebbe pensare. Oggi ci ricordiamo più dei racconti di un Ammaniti –per dirne uno- ma pochi si ricordano del buon Dino –lui che ha preso un genere che stava perdendo smalto in Italia (mentre prosperava in America) e lo ha portato ad un nuovo livello.
Ma questo non vale solo per i racconti, chiaramente. I romanzi, dal “Deserto dei Tartari” a “Un amore”, dimostrano che Buzzati aveva polmoni buoni anche per la corsa lunga –così come sapeva esprimere dubbi e far intravedere mondi con storielle e breve annotazioni, che sono alla base di questa “Siamo spiacenti di” (Mondadori), raccolta sparsa di storie, racconti e pensieri in libertà.
Perché di Buzzati non si butta via, e anche questa sorta di “diario artistico” dell’autore risulta estremamente interessante.
In “Siamo spiacenti di” ritroviamo quella prosa che ha reso famoso Buzzati, semplice, colloquiale, da passeggiata a fine pomeriggio per le strade della città –ma anche curata, mai sciatta, come se fosse stata scritta da un aristocratico, un uomo di mondo che sa districarsi tra prime alla Scala e convenzioni sociali –salvo poi farsi cedere le ginocchia davanti ad una bellissima ragazza (le donne sono sempre state il suo punto debole). La sua è una scrittura lucida, elegante pur senza fronzoli –qui e lì magari un po’ desueta, ma anche fotografia fedele di un modo di parlare e scrivere, di un’Italia e una Milano meno conosciute.
I temi sono molto simili a quelli affrontati in altri libri, tanto da diventare quasi dei leit-motiv: la morte, lo scontro tra anziani e giovani, l’amore (spesso non ricambiato), la solitudine. Così si esprime Buzzati in un passaggio del libro:
Spesso mi dicono: “Ma perché lei scrive sempre cose allucinanti e angosciose? Ma perché non prova a cambiare? Ci sono tante cose belle e liete a questo mondo. Perché non racconta qualcosa di allegro? Sì, non si può negare che lei abbia una certa fantasia. Ma, vede, alla fine si ha la sensazione che lei scriva sempre le stesse cose”.
Al che io, naturalmente, taccio, incassando. Può forse uno scrittore ribattere alle critiche del genere? In cuor mio però vorrei rispondere: ma tutti gli scrittori e gli artisti nella loro vita, per lunga che sia, dicono ciascuno una cosa sola! Chi con grande respiro, chi con esile fiato, ma sono sempre identici a se stessi. Per forza. Altrimenti non sarebbero sinceri.
Buzzati è rimasto fedele a se stesso, interpretando il mondo con ironia, con fantasia, col paradosso, con una ingenuità che sembra ormai di un altro tempo, ma anche con una malinconia che non lo mollava mai.
E proprio per quella malinconia, ogni suo sorriso sembra più vero, più sincero, più sofferto.
Ed è per questo che non dovreste farvene scappare nemmeno uno.
mercoledì 2 marzo 2016
"I capolavori" - Henrik Ibsen
Ho scoperto che l’uomo più forte del mondo è quello che è più solo.
“Un nemico del popolo”
Dopo Hamsun, ho deciso di restare in “zona” per scoprire un autore che avevo sentito citare spesso, ma sconoscevo completamente. E’ così che mi è capitato tra le mani questo “I capolavori” (eNewton Classici) di Henrik Ibsen - norvegese come Hamsun, appunto.
Di solito non mi interessa molto leggere opere teatrali, e ho cominciato questa raccolta con quella certezza, sottile e maligna, che ti prende di fronte ad un libro che sai già non finirai mai.
Posso dire di averlo letteralmente divorato fino all’ultima riga dell’ultima opera.
“I pilastri della società”, opera che apre questa raccolta pur non essendo la migliore, presenta subito degli elementi che rendono Ibsen interessante: personaggi ben definiti, dialoghi ragionevolmente veloci, struttura solida, una scrittura chiara ed efficace. Ma “I pilastri” mostra già anche ciò che rende Ibsen diverso, la cifra stessa della sua abilità. Nessun personaggio, infatti, è quasi mai quel che sembra all’inizio. Ibsen ti frega, piazzandoti di fronte ad una storia che sembra in tutto e per tutto simile a quelle del suo periodo, drammatiche e datate –e quando sei ormai sicuro di star leggendo un altro inutile melodrammone, la storia prende una virata imprevista. Non lo fa però (solo) in virtù di un colpo di scena: quello che avviene è, spesso, un cambiamento interno dei personaggi principali –un mutamento che poteva essere notato prima in qualche elemento sparso, che finisce per esplodere all’improvviso con violenza.
E’ quello che avviene in “Casa di bambola”, di gran lunga l’opera più conosciuta di Ibsen, da molti considerata il suo capolavoro. Nora, la protagonista, si presenta infatti come una donna volubile, superficiale, un po’ sciocca. Nei confronti del marito, sembra quasi una figlia davanti al padre. Nel giro di poche pagine, Ibsen ci farà vedere chi effettivamente è Nora, la sua forza così inaspettata da farci quasi vergognare per aver dato per scontato il suo personaggio fin dall’inizio.
La figura di Nora è così potente che molti sostengono Ibsen abbia toccato, anticipando i tempi, alcuni temi che poi saranno ripresi dai movimenti femministi.
Ma anche il termine “femminismo” può sembrare riduttivo per l’opera di Ibsen, che preferisce invece lasciar liberi i suoi personaggi, uomini e donne, di sbagliare, di sperimentare, se è il caso anche di abbandonare tutto o scegliere il suicidio, come succede in “Hedda Gabler”. Ibsen gioca con molti stereotipi del teatro di quegli anni, mostrandoci donne forti e risolute accanto a uomini deboli e assaliti dai dubbi.
Ibsen da anche una grande importanza al contesto sociale e politico. Molte sue opere hanno un sottotesto, a volte palese, altre più implicito, che rivelano la sua visione della società, del potere, dei media. In questo senso, “Un nemico del popolo” è un esempio perfetto, oltre ad essere l’opera che più mi è piaciuta. Nella parabola di Stockmann, che da eroe del popolo diventa nemico nel giro di quattro atti, si possono rivedere tutte le contraddizioni della società ottocentesca (e che il ‘900 avrebbe ereditato senza fare complimenti). L’autore è efficacissimo nella sua descrizione, tenendosi lontano dalle caricature e producendo un’opera che sembra quasi grottesca, che non mancherà di farvi incazzare. Perché lo so che suona come una frase fatta nauseante, ma questo racconto è più che mai attuale (ecco, l’ho detta).
Le altre opere del libro confermano la prima impressione: che Ibsen sia uno dei grandi, e di quelli ingiustamente dimenticati.
Consigliatissimo.
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