giovedì 28 gennaio 2016

"Ogni cosa che tocco è un’astronave" - Alberto Calligaris


Quello che sto cercando di dire è che il gioco della letteratura funziona solo da digiuni, solo quando hai fame. Solo allora lo spirito si modifica, solo allora il cuore cambia il battito, la carne impara dal sangue, il sangue dall’aria nei polmoni. Il gioco della letteratura è solo per chi non mangia. Il mestiere di scrivere è per chi non ha da mangiare. Il mestiere di leggere è per chi ha la stessa fame di chi scrive. Questo è tutto quello che avevo bisogno di sapere, e lo avevo capito da sola. Non avevo bisogno di sapere altro. Fu quello il giorno in cui smisi di andare all’università. Continuavo a frequentare ma era un film già visto.

Della mia storia d’amore con Calligaris sapete già tutto (se non lo sapete, potete leggerlo qui), e va avanti con un parallelismo pieno di coincidenze che non lo sono, al punto che ormai sono sicuro che un giorno ci ritroveremo a Udine, a Sydney, in Cornovaglia, a bere un whisky che inghiotta tutte le parole che sono rimaste di fuori.
Perché solo le parole giuste sono rimaste dentro questo “Ogni cosa che tocco è un’astronave”, romanzo del 2014 pubblicato dalla ‘round midnight edizioni su cui ho avuto la fortuna di mettere le mani. Più ancora che nel suo “Il volo delle anatre al rovescio”, infatti, la prosa è tagliente e le parole perfettamente accatastate e scorrevoli.
Tutto questo senza neanche menzionare il fatto che è una gran figata di libro.
Potrei raccontarvi la trama, ma con Calligaris sarebbe come voler imbottigliare un torrente in piena –e, a giudicare dalle svolte della storia, qualcuno deve aver sciolto qualche sostanza allucinogena nell’acqua…
Vi dirò solo che la protagonista della storia, Sara, una normale commessa di una normale libreria di Udine, si ritroverà suo malgrado a dover affrontare un viaggio in camper attraverso l’Europa, inseguita da degli scagnozzi improbabili, armata di una spada, e alla ricerca del reggiseno di Sylvia Plath.
E non vi ho nemmeno accennato alle parti più folli del romanzo. Fate un po’ voi.

Come al solito Calligaris prende generi diversi, dal noir al thriller, mischiandoli senza freni ai toni da commedia, a riflessioni esistenziali e pezzi erotici, fregandosene di qualunque classificazione, cercando di nascondere la cosa più importante: che questo libro, in fondo, parla d’amore.
L’amore di Sara, certo, che si confronta con diverse figure maschili lungo tutta la storia, scoprendo che non sono mai adatte, capendo forse che sono solo riflessi e appigli di quello che è lei in quel momento, e di tutto ciò che le fa paura.
Ma “Ogni cosa che tocco” è anche una storia d’amore per le storie. I libri sono al centro di tutte le vicende improbabili del romanzo, e in più parti Calligaris si ferma a riflettere sull’importanza del raccontare storie, e anche dell’ascoltarle. Ci sono libri che bruciano, dice ad un certo punto uno dei protagonisti. Le storie assumono un potere salvifico, quasi sciamanico, tale da poter guarire le ferite del corpo, o quantomeno fartele dimenticare.
Di sicuro, sono capaci di farti innamorare.
Lo stesso reggiseno della Plath, al centro dell’intrigo del libro, è un simbolo potentissimo: creduto capace di dare, a chi lo indossa, l’abilità di scrivere dei capolavori, finisce per rappresentare l’illusione che scrivere sia appunto “solo” questo, qualcosa che c’è e non c’è, e non vada invece guadagnata a morsi, partendo dalla fame a cui si rifà la citazione iniziale.
Questo romanzo vi farà ridere, vi farà riflettere, vi risucchierà tra le sue pagine che finirete prima di quanto vorrete, e vi farà capire una cosa: a Calligaris non serve proprio nessun reggiseno.
Maledizione, leggete ogni cosa che quest’uomo ha scritto –e che ha trasformato in astronave.
Io lo aspetto ancora con quel whisky in mano.

mercoledì 20 gennaio 2016

"La storia di Lisey", Stephen King


Every long marriage has two hearts, one light and one dark. Here again is the dark heart of theirs.

La protagonista di questo romanzo di Stephen King datato 2006 è Lisey (dopo le prime duecento pagine ho smesso di chiedermi come si potesse mai pronunciare), vedova dello scrittore di successo Scott Landon –ancora una volta, proiezione letteraria dello stesso King. Nonostante siano passati due anni dalla morte del marito, Lisey sembra ancora bloccata nel lutto, incapace di tornare ad una vita piena, non ancora pronta a staccarsi dalla figura di Scott. Soprattutto, ignara del fatto che sono successe tante cose, durante il loro matrimonio, su cui la stessa Lisey ha steso un velo –o meglio, una tenda viola- perché troppo oscure, difficili o anche solo incredibili da credere. Una parte oscura del loro rapporto, come succede in tante coppie –anche se Lisey e Scott non erano una coppia come le altre. Soprattutto Scott era molto diverso dagli altri.
Rimettere in ordine gli oggetti lasciati da Scott insieme alla sorella Amanda, sensibile e decisamente sopra le righe, darà il via ad una serie di avvenimenti vorticosi che sconvolgeranno tutto quello che Lisey credeva di sapere su Scott e sul suo rapporto con lui, riaprendo vecchie ferite e ponendola di fronte ad alcune domande rimaste in sospeso. Naturalmente, trattandosi del Re di Bangor, questa presa di coscienza passerà attraverso una serie di pericoli, alcuni molto reali come un fan fuori di testa, altri legati ad un mondo magico chiamato “Boo'ya Moon”.
Questo libro, nato qualche anno dopo l’incidente stradale che era quasi costato la vita a King, è in parte ispirato ai pensieri di mortalità che quei momenti gli avevano suscitato. Probabilmente si sarà chiesto –cosa sarebbe successo se quel furgoncino fosse andato solo più veloce? Sembra facile anche il riferimento alla propria moglie nel personaggio di Lisey, messa in ombra dalla celebrità del marito.
Molti hanno criticato la protagonista, trovandola priva di spessore o troppo succube del marito defunto. Dalla sua, King ha ammesso in una conversazione su Reddit, che “La storia di Lisey” è il libro a cui tiene di più. Non è difficile immaginare il perché: scrivere questo romanzo probabilmente ha avuto per lui un effetto terapeutico, oltre che essere una grande dichiarazione d’amore per la moglie. La storia tra Scott e Lisey resta al centro del libro, analizzata nel dettaglio, magari a volte in maniera ripetitiva o prevedibile, ma Stephen ci teneva tanto, insomma lasciamogli fare il romanticone qualche volta.
Il concetto della piscina di miti e storie alla quale tutti attingono per poi portarle altrove, in altri mondo, non è malaccio, e Boo’ya Moon sembra un gran bel posto dove passare le ferie –o anche solo per sfuggire ai problemi di ogni giorno. “La storia di Lisey” manca un po’ della suspence di altre storie di zio Stephen ("Mucchio d'ossa" era sicuramente piu' efficace), ma sicuramente non difetta di immaginazione.
Capisco perché King ci sia affezionato, ma non posso dire lo stesso di me. Una storia onesta, non fra le migliori e a volte un po’ farraginosa, ma non vi sembrerà di aver sprecato del tempo. Il che, direi, è già qualcosa.
Ci si vede su Boo’ya Moon (portatevi un costumino).

mercoledì 6 gennaio 2016

"Anna", Niccolo' Ammaniti


Cosa si ottiene a mettere insieme “Il signore delle Mosche” di Golding, le solite atmosfere post-apocalittiche, e uno degli scrittori più sopravvalutati del panorama letterario nostrano?
Un successo commerciale del 2015, of course.
Sento parlare di crisi editoriale praticamente da quando ho imparato a leggere. Immagino ci siano una serie di cause (non ultime quelle sociali e culturali) che siano difficili da isolare, e che fanno tutte parte del problema.
Di sicuro c’è che, fintanto che continueremo a comprare libri solo affidandoci ai grandi nomi (che ormai, sempre più spesso sono di persone famose per altri motivi, dall’ultimo Grande Fratello alla relazione con il calciatore del momento) solo per il bisogno di rassicurarci, di sapere che stiamo spendendo bene i nostri 10 euro, difficilmente cambieranno le cose.
Ammaniti ha scritto dei libri onesti in passato. Ha saputo raccontare delle storie puntando sul quotidiano (a volte esasperato fino al grottesco), sul pop, perfino sul pulp. Sono arrivate le copie vendute, sono arrivati i film. E’ cominciata la mancanza di elasticità nelle gambe.
E alla fine è arrivato questo “Anna”, super reclamizzato e pompato, importante ancor prima di essere messo in vendita.
Anna è la protagonista della storia, ambientata in una Sicilia di un futuro prossimo nel quale gli adulti, a causa della solita epidemia sconosciuta, sono tutti deceduti. Sono quindi i bambini, adesso, a popolare un mondo dal destino incerto –perché il misterioso morbo continua ad uccidere tutti i ragazzini che arrivano alla pubertà.
In questo contesto, Anna cerca di salvare se stessa e il fratellino Astor puntando all’illusoria speranza che forse, oltre lo Stretto, qualcuno sia sopravvissuto ed abbia trovato la cura al misterioso morbo.
Al di là dell’implicazione simbolica di un morbo che uccide chiunque varchi la soglia dell’età adulta, lasciando vivi solo i bambini, la storia apocalittica sa troppo di deja-vù, in un periodo dove questo tipo di storie, da “The last man on earth” a “The walking dead” (per citarne solo due), abbondano su libri e tv.
La storia di Anna, poi, viene narrata sotto gli standard di altri lavori precedenti dell’autore. Ammaniti sembra ispirarsi, tra gli altri, a Stephen King, specie nelle parti “horror”, ma non riesce a far trovare ai suoi personaggi la profondità e la credibilità che il Re di Bangor dà ai suoi. Le storie sembrano appiccicate insieme, senza molta forza, non riuscendo ad evocare nessun sentimento particolare per il mondo appena finito, o per quello che prova disperatamente a sopravvivere. Per il resto, come detto, i personaggi non aggiungono niente: Anna è una bambina cazzuta come una cinquantenne, il cane che la segue è un personaggio da fumetto, e il ragazzino Pietro è una creatura di carta.
Da siculo, poi, ho trovato particolarmente poco riuscita l’ambientazione. La Sicilia post-apocalittica nella quale si muovono i protagonisti sembra uno sfondo di cartapesta, qualcosa messo insieme da chi quei luoghi non li conosce e prova a mescola panorami turistici e particolari da fiction. Il risultato è che Anna e gli altri si muovono in una Sicilia di cartone.
Lo stile è sempre scorrevole, il ritmo abbastanza veloce –e nonostante questo, ho trovato comunque difficile arrivare fino al (prevedibile) finale.
E con questa, possiamo prepararci agli altri luminosi successi editoriali del 2016.
E che il morbo abbia pietà di noi.