lunedì 28 settembre 2015

"Rumore bianco", Don DeLillo

-Ma la rimozione non è innaturale?
-È la paura a esserlo. Lo sono lampi e tuoni. Dolore, morte, realtà, queste sono cose innaturali. Non possiamo sopportarle così come sono. Sappiamo troppo. Quindi ricorriamo alla rimozione, al compromesso, al camuffamento. È così che sopravviviamo nell’universo. È questo il linguaggio naturale della specie.


Rumore bianco” si apre con il protagonista, Jack Gladney, che osserva l’arrivo stagionale dei nuovi studenti del college dove insegna. A bordo di station wagon, con valigie e oggetti inutili, compiono un rito che si perpetua ogni anno allo stesso modo.
Dimenticavo: Jack è il docente della cattedra di Hitlerologia. È stato il fondatore di questo corso di studi, nonostante non parli tedesco. Adesso ci sono corsi di studio su Hitler in tutto il Paese.
La famiglia di Jack è composta dalla moglie, Babette, un donnone rassicurante e un po’ svanito, e vari figli che i due hanno avuto sia da altri matrimoni che dalla loro unione.
La prima parte del libro –che è anche, a mio avviso, quella che funziona di più- descrive questa famiglia, perfettamente funzionale nella sua disfunzionalità, così assurda da sembrare esattamente identica a tutte le famiglie che conosciamo –compresa la nostra. DeLillo è molto bravo a trascinarvi nei meandri del sogno borghese americano degli anni Ottanta (il libro è del 1985), senza calcare troppo la mano, solo lasciando che sia la sua scrittura a disvelare una nevrosi dietro l’altra, in tante scenette apparentemente slegate, che diventano ritratti di qualcosa che conosciamo fin troppo bene.
Nella seconda parte, la famiglia di Jack è impegnata a fronteggiare una fuga tossica che provoca (sembra provocare?) un contagio di massa. Piano piano vengono fuori farmaci sperimentali, scienziati farfalloni, tradimenti, improbabili esami clinici e tanta altra roba, tutta permeata da una paura della morte che sembra paralizzare non solo Jack, ma anche la moglie e probabilmente, in un modo o nell’altro, tutti gli altri personaggi. Come un rumore bianco, appunto, la morte permea ogni cosa, dandole valore o togliendoglielo del tutto, fungendo da molla o da scusa, portando ad uccidere o a restare uccisi, accettando o rimuovendo.
DeLillo mette in scena la paura della morte, e lo fa ovviamente a suo modo. La famiglia stessa sembra un estremo tentativo di combattere questa paura, quasi come un nascondiglio dal mondo, con un effetto anestetico. Gli oggetti inutili di cui ci circondiamo sono come delle barriere temporanee, ganci illusori che utilizziamo per restare ancorati al terreno e non farci trasportare dalla tempesta.
Lo stile di DeLillo è quello che lo ha reso famoso, e che ha portato generazioni di scrittori (il nome di Chuck Palahniuk vi dice niente?) a ispirarsi al suo modo di scrivere. La sua prosa è ricca senza essere opprimente, intelligente senza perdere il gusto del gioco.
Ammetto che “Rumore bianco” non mi è piaciuto tanto quanto “Underworld”, il libro di DeLillo che mi ha colpito come un cazzotto qualche anno fa, e dove la sua scrittura si faceva sontuosa ed avvolgente. Alcune parti del libro possono risultare un po’ lente, o forse troppo “piene”, ma un cavallo buono può permettersi ogni tanto qualche cagatina ai nastri di partenza.
Non lo consiglierei come primo libro di DeLillo (in quel caso “Underworld” è quasi obbligatorio), ma resta un libro solido, ben scritto e da malditesta (nel senso buono).

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