Fra tutti i tipi dell'essere umano, soltanto l'artista si assume la responsabilità di dire che "non può" lavorare. Ma è verissimo; ci sono momenti in cui non si può lavorare. Ancora i quattrini, sempre i quattrini! La mancanza di quattrini diventa disagio fisico e morale, significa squallide preoccupazioni, significa mancanza di tabacco, significa coscienza onnipresente del proprio fallimento, soprattutto significa solitudine. Che altro puoi essere se non un povero diavolo tutto solo con due sterline alla settimana? E in una solitudine di tanta tristezza non si potrà mai scrivere un libro degno di questo nome.
Ci sono libri che leggi in un momento particolare della tua vita, particolarmente da giovane, e ti restano dentro per qualche motivo che sai solo tu, e che anzi troveresti parecchio complicato da spiegare a qualcun altro. Sai solo che, in un angolo della tua testa, quel libro è sempre vivo, nonostante tu cominci a dimenticarne qualche passaggio, o perfino personaggi interi. Rompi le scatole ad amici e conoscenti –leggilo, ti piacerà!- e non sai neanche tu più perché.
Ci sono libri che rileggi dopo tanto tempo. Alcuni reggono, e sai che sono dei classici (almeno per te). Altri, invece, risentono di quel tempo che è passato. Forse li hai idealizzati, forse eri giovane. Forse le cose che hai imparato nel frattempo hanno coperto quelle precedenti. Non le rende meno importanti, ma senti che il tempo è passato per tutti.
Così è stato per questa rilettura di “Fiorirà l’aspidistra” (Mondadori), romanzo meno conosciuto di George Orwell. E la cosa buffa è che potrei dirvi esattamente del momento in cui ho pescato per caso questo libro tra i classici dalla costa rossa della collezione di mio nonno, di quando ho cominciato a leggerlo senza poterne staccare gli occhi, delle riflessioni che quelle pagine avevano piantato nella mia testa da diciottenne. Eppure, rileggendo la storia, mi sono reso conto di come avessi dimenticato alcuni punti importanti della trama, fin quasi a stravolgerne il significato –o almeno, quello che ci avevo visto io. È strano realizzare come forziamo i vari pezzi nella nostra memoria, fino a farli coincidere con quello che vogliamo ricordare.
Venendo al libro, “Fiorirà l’aspidistra” segue le vicende di Gordon Comstock, libraio squattrinato e aspirante artista sull’orlo dei trent’anni. Presto veniamo a sapere che Comstock, cresciuto in una famiglia sulla soglia della povertà, aveva trascorso la sua giovinezza tra mille difficoltà economiche fin quando era stato assunto come copyrighter di un’agenzia di pubblicità. Era bravo nel suo lavoro, e finalmente aveva raggiunto una stabilità finanziaria mai conosciuta prima. Aveva persino conosciuto Rosemary, una ragazza con un background simile a quello di Gordon, che era diventata la sua compagna.
Tutto bene, insomma. A parte il fatto che Gordon si sentiva profondamente insoddisfatto. La sua aspirazione era quella di diventare uno scrittore, e sentiva che non sarebbe mai potuto succedere finché fosse rimasto a fare quel lavoro –ammaliato da una vita borghese e rassicurante che considerava velenosa per la sua ispirazione. Per questo motivo aveva deciso di licenziarsi all’improvviso, accettando un impiego senza pretese, con una paga minima, presso una libreria semi-deserta. Aveva pubblicato un libro di versi che era stato ben presto dimenticato e messo da parte insieme alle centinaia di tomi che prendevano polvere nella sua libreria. Passava così il suo tempo: di giorno si districava tra i pochissimi clienti, di notte tornava alla sua stanzetta solitaria e fredda per lavorare al poema che aveva iniziato anni prima, e che sperava un giorno di finire.
Col passare dei giorni, si rende conto che probabilmente quel poema non finirà mai, né diventerà uno scrittore famoso. Allo stesso tempo, Gordon non vuole tornare indietro. Nonostante debba risparmiare su ogni centesimo, a volte digiunando, è felice di non dover più sottostare a quello che lui chiama “il dio quattrino”. A niente valgono le preghiere di Rosemary (che lo ama ma teme per il loro futuro) o quelle di Ravelston, l’unico amico di Gordon, un ricco figlio di papà che cerca di guarire dal senso di colpa datogli dalla rendita che possiede, aiutando artisti sfortunati come Gordon.
Queste le premesse del libro, che seguirà le meditazioni (e le maledizioni) di Gordon, diviso tra lo sdegno per la propria povertà (nonostante sia stata scelta) e l’irrisione dei finti idoli che il consumismo andava già producendo a pieno ritmo.
Rileggendolo, il ritmo mi è sembrato decisamente più lento e ripetitivo di come lo ricordavo, così come avevo rimosso il fatto che Orwell renda Gordon uno di quei personaggi per i quali è quasi impossibile parteggiare. La sua ostinazione a volte è parossistica, tanto da farti incazzare, e purtroppo danneggia la possibilità di farne un antieroe. Questa, probabilmente, non era l’intenzione di Orwell fin dal principio, ma lo stesso il rischio è che tutte le istanze coraggiose di Gordon, come il rifiuto del posto fisso e la voglia di vivere da artista libero, vadano perse dietro l’antipatia che, pagina dopo pagina, rischia di svilupparsi verso questo personaggio.
La prosa di Orwell finisce spesso per reiterare alcuni concetti, appesantendo la lettura e rischiando di cancellare il messaggio.
Perché allora mi era piaciuto tanto, direte voi?
Forse proprio perché, come menzionato prima, l’ho letto a 18 anni –in quella fase della vita in cui sentivo già il peso degli obblighi che erano gli stessi che Rosemary e la famiglia impongono (senza imporli) a Gordon. L’idea stessa di trovarmi un lavoro, fare carriera e tutte quelle stronzate lì mi faceva rabbrividire. Di contrasto, l’idea di fare l’artista morto di fame non mi dispiaceva affatto.
Sì, mi sa che ero già fregato in partenza.
Anche se parecchio pivello, intuivo che di trappole ce ne sarebbero state parecchie. Per questo la storia di “Fiorirà l’aspidistra”, al di là di manierismi, retorica politica e qualche rallentamento, mi era piaciuto così tanto: affrontava il tema della libertà di scegliersi la vita che si vuole, senza farsi dominare dalle pressioni della società.
Che poi, rileggendolo, illustra proprio l’opposto (e non vado avanti per non fare troppo spoiler). Eppure Gordon mi piaceva, e mi piace. Forse l’idea dell’artista duro e puro, che non scende a compromessi, è ormai datata e più che abusata. Ma Orwell, che ha vissuto la povertà sulle sue ossa (a proposito, se potete leggete “Senza un soldo a Parigi e Londra”), ha il merito di spogliare questa idea di ogni romanticismo e dire quello che nessuno prima aveva detto: con la pancia vuota, anche l’ispirazione va a farsi fottere. Quello che suona poetico sulla carta, può ammazzarti poi se messo in atto.
Con uno sguardo realista e brutale, che non evita frecciate al “comodo” socialismo del ricco Ravelston (contrapposto all’incazzato nichilismo di Gordon), Orwell fa capire la difficoltà che si può incontrare ad andare “per la propria via”, e come può essere pericoloso porsi al di fuori della società.
Molti dei suoi temi sono più che attuali. Con la nostra fissazione per il posto fisso, quanti di noi lo mollerebbero, come ha fatto Gordon, per provare a realizzare dei sogni definiti da tutti impossibili e puerili?
Che poi il risultato non sia quello sperato, è un discorso diverso –importante, ma diverso. Gordon ha il coraggio di rompere con quel mondo, mandando affanculo il proprio lavoro (coronando il sogno di milioni di persone), e decidendo di vivere con pochissimo, con un rigore da monaco benedettino. Tutto, pur di non dover dipendere più da nessuno.
Ma è proprio così? Si può vivere liberi, senza dipendere da nessuno, facendo a meno dei soldi?
In tempi cinici e tosti come i nostri, la risposta è così scontata che il problema nemmeno si pone. Eppure, rileggere questo libro dimenticato di Orwell può aiutare a capire come siamo arrivati a questo. Quando abbiamo rinunciato ad essere quello che volevamo, per diventare quello che ci poteva fruttare di più.
Con tutto il peso degli anni che la sua prosa (non scorrevolissima) porta con sé, vi consiglio questo libro per riflettere, e per farvi qualche domanda.
Consigliato a:
gli amanti della prosa novecentesca; coloro ai quali è piaciuto Hamsun o Fante; chi vuole riflettere su libertà e denaro
martedì 26 maggio 2015
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