giovedì 5 febbraio 2015

"Il grande Gatsby", Francis Scott Fitzgerald

Gatsby credeva nella luce verde, nel futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggia davanti a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa – domani saremo più veloci, stenderemo le braccia più in là.


Sapevo che sarebbe arrivato, in queste recensioni che mi auto-infliggo (e infliggo un po’ anche a voi), il momento del libro che non mi è proprio andato giù, e senza volerlo fare apposta, è capitato con uno dei più famosi e amati di sempre.
Ci avevo già provato in passato a leggere “Il grande Gatsby” (Gingko Edizioni). In tanti mi avevano fatto una testa così, dicendo quanto era bello e quanto mi sarebbe piaciuto. Non avevo mai letto niente di Fitzgerald, così, una volta arrivato in Australia, decisi di provare a leggerlo in lingua originale. In fondo erano solo 150 paginette, che problema poteva dare?
Non riuscii ad andare oltre la terza pagina. Pensai che il mio inglese non era ancora abbastanza buono (nonostante già leggessi altri libri in quella lingua) e lasciai perdere.
Ci riprovai due anni fa con il film. Vado al cinema due o tre volte l’anno, e decisi di concedere a Fitzgerald questo enorme onore (passando anche sopra la presenza di Di Caprio). Attirato dall’offerta coca ghiacciata più popcorn giganti a 7 dollari, dimenticai il semplice fatto che libro e film non sono mai la stessa cosa. Per la prima volta in vita mia, mi addormentai al cinema.

Con queste premesse, vi chiederete per quale assurdo motivo abbia mai deciso di provare nuovamente a leggerlo.
Un po’ perchè sono cocciuto, un po’ perchè non ho smesso di incontrare gente che mi diceva quanto era bello e importante quel libro. Tanto, mi sono detto, c’è da imparare da tutti i libri, anche da quelli brutti (sarei tentato di dire: soprattutto).
Così ci ho riprovato, stavolta in italiano, e ho capito che almeno il mio inglese non era ridotto così male: semplicemente, Fitgerald utilizza un linguaggio così ricercato, ricco, denso, che è difficile uscirne vivi anche nella propria madrelingua.
Mi trovo abbastanza d’accordo con la recensione famosa fatta da Mencken (scopritore, tra l’altro, di John Fante), e cioè che la trama del libro è molto semplice, quasi elementare: una storia d’amore rimandata, nascosta per tanti anni, che torna alla luce solo per andare incontro alla tragedia. Di sicuro, mi sono detto, questo libro non poteva essere così bello & così importante per l’intreccio.
I personaggi, allora: c’è un narratore, Nick, con il quale sfido chiunque ad identificarsi. Tutti gli altri sono caricature un po’ pompate (come fatto notare anche da Mencken), stereotipate, dal riccone sportivo arrogante alla timida fanciulla indecisa che non sa per chi palpita il proprio cuore, fino a Gatsby, l’anima di tutta la storia come si desume dal titolo. Gatsby incarna quella nuova classe di pre-yuppie di inizio secolo di cui Gatsby intende parlare, nati poveri ma disposti a tutto, anche all’illecito, pur di salire velocemente la scala sociale. Qui Gatsby ci viene presentato come un tipico self-made man, uno che ce l’ha fatta, che è venuto dal nulla e che adesso ha tutto, pur non avendo niente (sentimentalmente parlando). Indubbiamente, Gatsby è il personaggio più riuscito del libro, e quello che fa procedere la storia verso il suo (inevitabile) finale, e Fitgerald riesce ad umanizzarlo quanto basta per strapparlo a forza dallo sfondo fatto di feste, eccessi e vacuità, e presentarcelo come un uomo infelice che non possiede l’unica cosa che vorrebbe veramente. Tutti gli altri personaggi mi hanno, di volta in volta, suscitato noia o rabbia da frustazione (“fa qualcosa, per l’amore del cielo!”).
Forse questo libro sarà bello & importante per il suo contenuto storico (come capitava in Fitzgerlad), per come affronta gli enormi cambiamenti culturali, sociali, economici dell’America del suo tempo. E sicuramente il suo libro ha fatto un po’ da apripista, gettando luce su un nuovo mondo che stava nascendo. A volte si trasforma un po’ in qualcosa del tipo “anche i ricchi piangono”, nonostante lui sia bravo a non calcare troppo la mano. Resta il fatto che un tema simile è stato trattato in maniera infinitamente superiore (seppure in un contesto e in un’epoca molto diversi) da Hemingway in Avere e non avere.
La prosa, allora, dev’essere quella per cui se ne parla così tanto. E la prosa, effettivamente, è notevole. Come notava ancora Mencken, non esiste una pagina uguale all’altra nel “Grande Gatsby”. C’è una ricerca, un lavoro sulla parola, che sfiorano il maniacale. Non c’è paragrafo che non si faccia carico di un pugno di metafore delicate e sublimi. Sembra di entrare in una di quelle chiese barocche, così piene di decorazioni e rilievi e minuscoli dettagli da farti girare la testa. Laddove però Mencken elogiava questa prosa, a me non è piaciuta granchè. O meglio: riconosco lo sforzo, e mi rendo bene conto che qui Fitgerald ha creato una di quelle cose che a vederla la gente fa Oooh, mirabile davvero. Però io nelle chiese, barocche o meno, dopo un po’ mi sento sempre un po’ a disagio e ho bisogno di uscire per prendere un po’ d’aria. Esattamente la sensazione che ho avuto alla fine di questo libro. Facevo fatica a proseguire, perchè era come se tutto il tempo l’autore mi tirasse per la manica a dirmi, Hai visto quanto sono bravo?
Forse non è una coincidenza che, molte delle persone che mi hanno fatto una testa così per questo libro, l’avessero letto quando erano molto giovani. Effettivamente è quel tipo di scrittura che ti cattura subito all’amo, se sei giovane e inesperto, e con una tendenza particolare al bello. A 35 anni forse diventi più pragmatico: il bello va bene per antipasto, ma mica ci riempiremo lo stomaco con questo?
Sono sicuro che questa recensione troverà molti in disaccordo. Nessun problema: se volete trovare me, invece, cercatemi fuori, che sono uscito a prendere un po’ d’aria.

Consigliato a:
chi ha voglia di un classico breve; chi ha ancora l’età e il tempo per libri graziosi; chi vuole sapere chi cavolo era questo Gatsby senza doversi sorbire due ore di Di Caprio e hip hop

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