“Alla fine delle due ore ci scambiamo i fogli; ciascuno corregge gli errori di ortografia dell’altro con l’aiuto del dizionario e, in fondo alla pagina, scrive: Bene o Non Bene. (...)
Per decidere se è Bene o Non Bene, abbiamo una regola molto semplice: il tema deve essere vero. Dobbiamo descrivere ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo. Se scriviamo “L’attendente è gentile”, non è una verità, perchè l’attendente può essere capace di cattiverie che noi ignoriamo. Quindi scriveremo semplicemente: “L’attendente ci regala delle coperte” (...)
Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti”
Ero arrivato a questa “Trilogia della Città di K.” di Agota Kristof ben consigliato, ed era uno di quei libri che mi ripromettevo sempre di comprare e poi dimenticavo sempre. Non sapevo niente di questo libro, tanto che pensavo che la K. stesse per Kafka, chissà perchè. Non c’ero andato lontanissimo, alla fine.
Con i consigli sui libri, la questione è sempre difficile. Uno fa finta di segnarsi i nomi mentalmente e poi dimentica tutto qualche secondo dopo. Io ho le mie fonti sicure, di quelle che non toppano quasi mai.
Questioni di gusti, poi.
Vale sempre, ed in particolare con lo stile col quale è scritto questa Trilogia. Uno stile scarno, fitto come un intrico di rovi, dove non passa mai il sole, neanche per sbaglio. Il rischio, con un linguaggio del genere, è alienare e stancare il lettore esattamente come potrebbe fare uno stile troppo ricco e descrittivo. La Kristof, invece, arriva fino in fondo, e lo fa davvero alla grande.
La Trilogia è, per l’appunto, composta da tre parti, scritte in fasi diverse dall’autrice, con uno stile che varia da una parte all’altra, così come l’io narrante. Il libro comincia seguendo la storia di Lucas e Claus, due ragazzini affidati dalla madre alla nonna durante la guerra, in un Paese dell’Est mai menzionato. I ragazzini decidono di tenere un diario –o meglio, un Grande Quaderno- per raccontare quello che fanno. Sono due tipi molto tosti, così come tosta è la vita da quelle parti ed in quel periodo. Tramite esercizi fatti di privazioni e persino violenze tra di loro, provano a fortificarsi e cominciare a difendersi da quella realtà che si fa ogni giorno più aggressiva.
La prima parte del libro è scritta in maniera stilisticamente impeccabile. Non viene concesso niente alla fantasia, gli aggettivi sono praticamente inesistenti, la narrazione è asciutta e tiene incollati alla pagina. Le altre due parti del libro cambiano un po’ regime e sono leggermente meno riuscite –in particolare l’ultima, che sembra un po’ messa insieme per risolvere gli enigmi rimasti insoluti all’inizio, rovinando quell’atmosfera di mistero e irrealtà che si era creata fin dalle prime righe.
Nonostante questo, una volta iniziato, questo libro è uno di quelli che vi porterete dietro e continuerete a leggere finchè non sarete arrivati all’ultima pagina, e non tanto (o non solo) per scoprire cos’è reale e cosa no, ma perchè non riuscirete a staccarvi da un flusso narrativo avvolgente come pochi.
La bravura della Kristof, stile a parte, è di catturare il lettore e portarlo con sè in una storia cupa come poche, disperata e tetra, in bilico sempre tra una razionalità impeccabile e un’atmosfera irreale che confonde fatti e personaggi. La storia di Claus e Lucas permette alla Kristof di mettere sul piatto il tema della verità –che cos’è? Esiste davvero? Dove finisce la fiction e inizia la vita vera? É più vero quello che ci raccontiamo, o quello che accade?
Tutti i personaggi –credibili e mai caricaturali- ne cercano una propria (incluso il libraio Victor, che da figura secondaria fa un’apparizione che lascia il segno), senza mai riuscire ad ottenerla –e anche quando ne trovano una, parziale e provvisoria, succede sempre qualcosa a portargliela via. Da questo punto di vista, le bugie che ci raccontiamo sono più affidabili, e ci danno più senso. Non per niente, il libro si conclude con il capitolo chiamato “La terza menzogna”.
La Trilogia è, alla fine, una storia di solitudine e dolore, claustrofobica e ben raccontata, dove non saprete mai se quello che sta succedendo è vero o meno, e che vi lascerà col fiato sospeso fino alle ultime pagine che sveleranno alcune delle menzogne, e ne lasceranno in sospeso altre.
É una storia oscura, senza possibilità di vittoria o redenzione. Di quelle da leggere quando fa freddo e fuori piove, e sembra non smettere più.
Consigliato a:
tutti, specie quelli con poco tempo (si legge in fretta); chi sta cercando una storia “invernale”; chi ama lo stile “minimalista” (qualunque cosa voglia dire).
lunedì 10 novembre 2014
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2 commenti:
Bene, una trilogia da leggersi in fretta non è da tutti i giorni, l'ultima trilogia che ho tentato di leggere era quella della frontiera di mccarthy (spero si scriva così) ma ho finito per perdermi via solo al primo (che poi credo fosse il secondo) dei tre libri.
Mi chiedo pero'... Claus e Lucas sono nomi anagrammatici, centra qualcosa? o è solo sintomo di "pigrizia tastierica" dell'autore :-) ?
Se svelassi qualcosa, incapperei nel rischio "spoiler"....
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