Da ieri, Rett non
c’è più.
Ho ricevuto la
notizia in una bellissima sera d’estate anticipata, uno di quei momenti in cui
l’anima viene fuori a prendere fiato pure lei dopo le botte dell’inverno.
Subito dopo il messaggio, l’estate è sembrata un’altra illusione di questo 2013
dagli infiniti freddi.
La notizia mi ha
riportato in mente estati diverse, lontane nel tempo, le mie prime in questo
Paese. Così lontane da sembrare figure di foto da guardare con nostalgia e
stupore per gli anni che si sono messi in mezzo tra noi e quello che eravamo.
In quell’attimo
ho sentito la violenza di una parte della mia vita che si chiudeva per sempre,
e che ho amato più di quanto sospettassi.
Sembra ieri che
sentivo Rett bisbigliare con la figlia dopo il mio primo incontro con lui e,
dopo avermi studiato un po’, decidere che io ero un “fine, young gentleman”.
Ancora oggi, è uno dei complimenti a cui tengo di più (e pazienza per quel “young”,
che fa ridere ogni giorno di più).
Sembra ieri
vederlo bere impassibile quel famoso Grand Marnier all’arancia invecchiato 22
anni e versarcene ancora mentre io e Mauro eravamo già sotto il tavolo.
Sembra ieri che
lo sentivo ripetermi che, quando uno stringe la mano all’altro, lo deve fare
con decisione, non con forza. Capii che non c’era ostentazione in quel gesto,
ma solo la volontà di sapere con chi aveva a che fare.
Rett aveva avuto,
come tutti, la sua dose di esperienze che gli avevano fatto capire che, come
diceva Hemingway, essere uomini è il mestiere più difficile, e pochissimi ci
riescono. Rett, il suo lavoro, lo faceva discretamente bene.
E come nei
racconti di guerra di Hemingway (guerra che Rett aveva solo sfiorato, ma in
qualche modo gli era sempre rimasta dentro), sapeva che questi uomini sono eroi
imperfetti, pieni di paure, umani.
Rett aveva
commesso la sua parte di errori, che adesso il suo essere nonno mitigava, nella
speranza che, alla fine, potesse farsi due conti col sorriso sulle labbra. La
coscienza delle sue limitazioni lo portava ad essere quello era: un essere
umano più che decente, una persona buona e gentile come poche, un gentleman
come è difficile trovarne più. Un uomo all’antica, ma nel senso buono.
La notizia mi ha
riportato quel senso di vuoto che ho provato altre volte. Non per niente, una
delle ultime cose che aveva fatto mia nonna prima di finire in una stanza d’ospedale
dalla quale non sarebbe più uscita, era stata quella di guardare delle foto che
avevo fatto nel mio recente viaggio in Australia. Nelle foto c’era Rett, la sua
casa, il giardino che tanto amava. Mia nonna indicava le foto alla vicina e
diceva –Visto? Quello è il mio consuocero. Un giorno andrò anch’io lì in
Australia, a vedere quei campi, quel verde, quel sole.
Non aveva mai incontrato
Rett di persona, e anche se lo avesse fatto, non si sarebbe potuti scambiare
nemmeno una parola a causa della lingua. Eppure sentiva che era, come lo
definiva lei, un “bravo cristiano”.
Forse perchè lo
era anche lei.
Quando lei se n’è
andata, ho sentito questo vuoto. Una mancanza non solo, ovviamente, della
persona, e dei miei ricordi con essa. Era come se un pezzo di storia, con la
esse sia minuscola che maiuscola, se ne fosse andato per sempre. Come se quelle
storie che lei amava raccontare più e più volte, mentre fumava di nascosto
seduta sul dondolo, si sarebbero perse con lei.
Quelle mancanze
che ci lasciano più giovani, ma nel senso più triste del termine: con tutto il
futuro che ci pare, ma senza più un passato che ci dica chi siamo.
Lo stesso mi è
successo ieri. Rett, oltre alla persona, per me rappresentava anche una grossa parte di quell’ “australianità” che ero andato a rincorrere dall’altra parte
del mondo. Mi aveva messo a mio agio, mi aveva accettato e mi aveva raccontato
le sue storie.
Mi ricordo ancora
ad aggirarmi tra le stanze della sua bellissima casa in campagna, e trovare
negli scaffali dei libri che avevo letto, e altri che avrei voluto leggere. Se
la mia lingua e il suo udito lo avessero permesso, avremmo passato giornate
intere a discutere di guerre mondiali, economia, politica e barzellette zozze.
Ma quello che ci
siamo detti è bastato, ed ha fatto sì che lui continuasse a vivere, appunto,
nel personaggio di Rett e nel mio mondo.
L’ultima volta
che l’ho visto è stato ad una cena, parecchi mesi fa. Era già malato, e la
consapevolezza di questo rendeva le sue storie meno nitide e al tempo stesso
più urgenti. Il tempo assumeva la sua tragica importanza. Io lo ascoltavo e
pensavo che è bello quando, nella vita, ci capita di incontrare una persona con
l’anima buona. Una persona di stile, dotata di umorismo, che sapeva come
intrattenere chi gli stava di fronte, e che amava tutto di questa terra che era
stata generosa con lui in maniera alterna.
Adesso lui non c’è
più e noi ci troviamo ad uscire da questo maledetto 2013 un po’ più soli e
poveri di prima. Le sue risate mi
sembrano una danza estrema con la Morte, ma non è forse quello che facciamo
tutti? Far finta di niente, sedurla, cercare magari di metterle la lingua in
gola? É un gioco, e lui ha saputo giocare. Forse questo conta alla fine.
Questo, e le
storie che possiamo raccontare.
No, forse non
usciamo così poveri da questo anno. Abbiamo le loro storie, la loro
ispirazione, quello che sono stati, per spingerci ad essere anche noi eroi
imperfetti e mortali, grandiosi e stupidi, ad arrivare fino a domani, fino al
2014, fino al futuro.
Io, da parte mia,
non smetterò di ascoltare e raccontare. Mi sembra l’unico modo.
Buon viaggio.
Questa è per te,
Max.