Ogni tanto, quando incontro qualcuno che ha letto il mio “Latinoaustraliana” –un fenomeno a metà tra gli unicorni e la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno- capita che mi chiedano: oggi lo riscriveresti nello stesso modo?
Che domande, verrebbe da dire. Chiaro che uno scrittore cresce, cambia, si evolve, si fissa, impara, dimentica, si trova o si perde. "Latinoaustraliana" è stato scritto tra il 2008 e il 2010, quindi sono passati sette anni. Un autore non dovrebbe ripetersi mai, dovrebbe mirare a crescere, bla bla bla.
Forse dovrei dire tutte queste cose.
Eppure l’unica cosa che penso è: no.
Non perchè sette anni siano tanti, ma perchè è successo tanto.
Troppo, forse.
Ho fatto guidare la mia ragazza, perchè sapevo che non sarei stato dell’umore, nonostante la giornata fosse passata abbastanza liscia –un po’ come a volte si sa che sta arrivando la tempesta quando in cielo è ancora sereno. Innocentemente, spudoratamente sereno.
Già all’ingresso mi guardavo intorno stranito. Me lo ricordavo più largo, qui. Me lo ricordavo davvero?
Non c’era più la mia ragazza, non c’era la gente che andava a veniva, i pazienti che si fumavano una sigaretta di nascosto, le infermiere che finivano il turno e quelle che lo iniziavano. Non c’era più nessuno –solo io e quel maledetto ospedale.
Mi guardavo intorno, sguardo torvo, questo l’hanno spostato, lì hanno chiuso, questo lo ricordavo di là. Un pessimo ritrovarsi, come visitare la tua cella dopo un tot di tempo che ci hai passato da innocente.
Abbiamo comprato un orsetto al negozio dei souvenir. Non volevo comprare fiori. I fiori muoiono male, in questo posto.
Non volevo prendere nemmeno l’orsetto. Chi ha bisogno di ricordare?
Anche a me, una volta, ne avevano regalato uno. Non lo avevo mai buttato. Avevo solo fatto in modo di perderlo, e di dimenticarmi di cercarlo.
Scendiamo al piano, ci incamminiamo. E’ quasi sera, ora di visita, e la gente si avventura per corridoi e stanze, si perde, si maledice sottovoce, rimpiange casa e tutto ciò che è casa. Tutto ciò che non è questo labirinto di pareti bianche, cartelli minacciosi e puzza di disinfettante. Anche se fai di tutto per evitarlo, l’occhio cade dentro le stanze, trasformando i corridoi in una serie di letti bianchi e piedi e gambe, con o senza parenti al fianco –di solito senza.
Dovrei andare nella mia grotta-rifugio, attivare quel pilota automatico che è stato la mia salvezza insieme all’ironia e a quattro parole in fila su un foglio. Ma sarà la stanchezza di fine giornata, sarà il caldo, sarà questo odore che avevo imparato ad escludere dai miei ricordi, mi sento circondato da flash, brevi epifanie, dettagli stupidi e dettagli dolorosi che avevo gettato, indistintamente, nella discarica nel retro della mia mente. Seppelliti lì sotto come un cimitero maledetto su cui qualche imbecille, negli horror, finisce sempre per costruirci sopra una casa.
E cosa ho costruito io lì sopra? Cosa ho cercato di sopprimere, con quintali di mattoni, cemento e fughe?
La stanza è quasi alla fine del corridoio. Prima di entrare, il marito viene fuori e ci dice che dobbiamo indossare dei camici protettivi e dei guanti. Sfidando l’afa, ci inguainiamo ed entriamo finalmente nella stanza.
E. fa un cenno, ci dice di avvicinarci. Ha dei solchi così neri sotto gli occhi che a momenti scompaiono, inghiottiti dalla penombra forzata della stanza. Non c’è nessun altro, oltre lei e il marito. Quattro mura strette intorno a loro, e una finestra su un panorama che dimentichi subito dopo. La mia ragazza abbraccia E., poi tocca a me. Quando la stringo sento la debolezza nella sua carne, nei suoi gesti –quando il corpo non ti ubbidisce più e ti devi sudare ogni minima azione.
Conosco quella sensazione.
La mia ragazza si siede in una delle due sedie, il marito occupa l’altra vicino la finestra. Io mi appoggio al muro, vicino al bagno. Ogni tanto sentiamo passare dal corridoio le rotelle di una barella. Ricordo quando quel rumore scandiva le mie notti. Ero arrivato a pensare che non avrei preso più sonno senza quel suono stridente, sgradevole. Poi le medicine facevano il loro lavoro e il sonno finiva sempre per arrivare –per poi sparire qualche ora dopo, nel cuore della notte, quando qualcuno in reparto cominciava ad urlare fino a squarciare le tenebre, cercando con disperazione un’alba che semplicemente non era lì.
E. racconta la sua storia – il ricovero, la perplessità dei medici, il menù sempre uguale, l’attesa di notizie, i dottori che passano guardano e proseguono senza dire nulla, senza pensare che tu valga nulla, l’attesa, le previsioni del mattino completamente cancellate all’ora di pranzo, le mille voci contrastanti, il dolore che sale che cresce che non fa dormire, le telefonate, le visite volute e quelle meno, lo sbattimento, il trovarsi mani e piedi in una corrente impazzita, che non riesci in alcun modo a direzionare, lo sconforto, il sentirsi privati del controllo su se stessi, la mancanza di privacy, la mancanza di spazio, la mancanza di tutto, il “poteva andare peggio” quando un meglio nemmeno sai immaginartelo, i bilanci che fai la notte tardi quando tutti sono andati via, tornati alla loro vita che prosegue fuori da quelle mura, mentre tu continuerai a fissare un panorama che tutti dimenticano un secondo dopo averlo visto.
Mentre E. racconta tutto questo, ho caldo. Sento una nausea strana, appiccicosa, venirmi su all’improvviso. Per un attimo, penso di vomitare lì per terra. Potrei andare in bagno, ma mi sentirebbero. Non posso uscire, perchè sennò dovrei togliere il camice protettivo. Sono in trappola. Guardo la finestra ma non mi aiuta. Vorrei guardare l’orologio, trovare conforto nel fatto che è passato abbastanza tempo, che tra un po’ potrò dire che mi sta scadendo il parcheggio e purtroppo dobbiamo andare, dobbiamo tornare alle nostre vite e dimenticare quel panorama. Ma non lo penso per noia, no.
Vorrei solo non essere mai venuto.
«Ma come è cominciato tutto?» chiede la mia ragazza.
«All’improvviso, dal nulla» risponde E.
Non batto ciglio, eppure so che è QUESTO l’elemento più agghiacciante che abbiamo sentito in questa ora fatta di operazioni, incisioni, infezioni e dipartite evitate per un soffio.
All’improvviso.
Dal nulla.
Quello che nessuno pensa mai, quello che tutti provano a dimenticare. Naturalmente siamo sicuri che succederà solo fra decenni e secoli, si capisce, e quando comunque arriverà, ci sarà la musichetta struggente come nei film, ci saranno sguardi pieni di comprensione e saggezza e amore, ci sarà il tempo per riflettere, per ricordare, per sistemare le ultime cose.
Una certezza granitica, che il suono fastidioso delle ambulanze per strada prova a intaccare malignamente, senza però riuscirci.
Noi siamo indistruttibili. Noi siamo diversi. Noi siamo già salvi.
Quando ormai sto sudando da troppo e la nausea è passata a martellarmi le tempie, dico scusa E., dobbiamo proprio andare.
Lei capisce ed è contenta così –già sfibrata dall’aver parlato per quell’ora e qualcosa.
Stringiamo mani, ci abbracciamo. Quando mi avvicino, E. mi guarda negli occhi.
«Io e te lo sappiamo, cos’è» dice lei. «Non sei più la stessa persona di prima, vero? No, non puoi esserlo»
Faccio un gesto che vuol dire tutto e niente, eh beh, ma sì, che ci vuoi fare, la saluto ancora e vado via.
Ma da quelle parole no, non riesco ad andare via, nemmeno quando ripasso per quell’ingresso che ricordavo esattamente così, ed esco a riprendere finalmente un po’ d’aria.
Perchè E. lo sa.
Sa che è vero, che noi non siamo né indistruttibili né diversi, né tantomeno salvi.
In macchina restiamo in silenzio. La mia ragazza sa cosa mi passa per la testa, e non dice niente. Io mi vedo addosso una diversità che pensavo di aver messo da parte –come se bastasse tornare a preoccuparsi del meteo, dei semafori, del traffico, del sonno, perchè tutto sparisse.
Invece non sparisce proprio niente. E. aveva ragione: non siamo mai le stesse persone, alla fine di quella esperienza.
Di un’esperienza che inghiotte tutte le altre.
Per questo non potrei mai più riscrivere “Latinoaustraliana” come l’ho scritto –anche se sono felice e orgoglioso di come l’ho scritto. Quel libro aveva bisogno di quella leggerezza, quell’allegria, quella lieve follia in tutto.
Per questo non vedo l’ora di mettere altre parole in fila, anche se so che non verrà facile –perchè sarà lungo, sarà tortuoso, sarà pieno di fantasmi e bivi e strade di notte, e momenti quotidiani e speciali che la mia mente ha evitato a lungo, accuratamente, di recuperare.
Per questo, ho bisogno di un altro libro (che sto già scrivendo) che parli di quello che è successo in questi sette anni. Del momento in cui ho scoperto che non siamo indistruttibili, diversi o salvi –e di come tutto, le notti infinite, il malditesta, i tetti scoperchiati delle case, le trappole e l’oltraggio, fossero finiti poi qui, sette anni dopo, in questa auto, mentre procediamo in silenzio e la mia mano stringe la mano di lei, e finalmente, nonostante tutto, miracolosamente, torniamo verso casa.
Marco Zangari © 2017
domenica 5 marzo 2017
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