martedì 24 gennaio 2017
Non siamo eroi, noi che partiamo, ma nemmeno (tutti) stronzi
Premessa necessaria: a settembre saranno dieci anni dal mio arrivo in Australia. Nessuno mi ci ha costretto nè tantomeno mandato. Sarei potuto tornare indietro in qualunque momento –come in effetti ho realmente fatto, ad un certo punto. Ho passato la fase della luna di miele con Oz, quella della nostalgia struggente del Belpaese, quella della repulsione italica e quello dell’insofferenza australiana. Alla fine ho raggiunto un mio equilibrio.
Come dice Paul Valery: “Mi sono amato, mi sono odiato, e poi siamo invecchiati insieme”.
Non passo il tempo sui gruppi Facebook di italiani downunder a dimostrare se sia meglio l’Italia o l’Australia, sia perchè non lo so, sia perchè non me ne frega niente. Con gli anni ho capito che sei tu, non è il luogo. Poi certo, magari per l’Alaska ti devi attrezzare, ma si può fare anche quello.
Con questa premessa, mi sono trovato –dopo anni- a passare il Natale a casa. Con il Natale, così come con tante altre cose, ho avuto un rapporto conflittuale in passato. Ma era passato del tempo, ed ero felice di passarlo con la mia famiglia. Quella ristretta, intendo.
Perchè in ogni famiglia allargata, ogni Natale, c’è sempre uno zio o una zia che sente il bisogno, no, l’URGENZA di farti partecipe del suo punto di vista sul mondo –che si tratti di politica, di religione o più semplicemente della tua schifosa vita.
Non starò a ripetermi perchè ci siete passati tutti. Quei momenti in cui, seduti a tavola alla ventisettesima portata, già ti illudi di averla scampata, e invece.
E invece gli Zii partono all’attacco. Sembrano conoscere i tuoi punti deboli pure se non glieli hai mai detti. Se sei single, ti chiedono subito dove hai lasciato la fidanzatina. Se sei all’università, ti chiedono quando ti prenderai questa benedetta laurea. Quando ti sei laureato, ti chiedono quando lavorerai. Quando cominci a lavorare al call center, ti chiedono quando ti troverai un lavoro vero –e via discorrendo.
E magari ancora vi chiedete perchè avevo un rapporto conflittuale col Natale.
Ci siamo passati tutti, tra un pandoro e “Una poltrona per due” alla tele.
Memore di tutto questo, sono andato alla solita cena mentalmente preparato.
La Zia mi aspetta. Ella di solito siede all’altra capo della tavolata e ti osserva. Tu sei Quello Dell’Australia, e ci sta. Se avete fatto avanti e indietro abbastanza volte, sapete già di che sguardo parlo. Va da quello più ingenuo –com’è che non sei diventato un surfista biondo dopo tutti questi anni?- a quello più sospettoso –e certo, vieni qua a fare lo zio d’Australia, ma chi ti credi di essere?
E lo capisco pure. Tra quelli tornati indietro ci sono sempre quelli che devono far vedere, disperatamente, che Loro sono stati dall’altra parte del mondo, Loro hanno girato, Loro hanno visto. Se le cose erano andate bene in Australia (e talvolta anche quando non lo erano andate, tanto chi sarebbe mai andato a controllare?) dicevano che Loro avevano fatto i Soldi. E voi, poveri stronzi che siete rimasti qui? Che mi raccontate di bello?
Ne ho visti così. Alcuni si preparavano la Loro versione dei fatti mentre erano ancora in Australia, per essere pronti a tornare come Salvatori della Patria. Quasi meglio dei marò.
Ce ne sono, e di sicuro sono uno di quei drammi statistici che rovinano un po’ la reputazione a chi così non è, e ha semplicemente voglia di condividere un momento che, nel bene e nel male, spesso lascia il segno. Per fortuna Loro sono la minoranza. Se non avessero diritto di voto come te, nemmeno ci faresti caso.
La prima domanda della Zia è sempre la stessa.
Com’è l’Australia?
Avessi avuto un soldino per ogni volta che l’ho sentita, a quest’ora viaggerei in business avanti e indietro. Per carità, va anche bene, io stesso lo chiederei. Solo che La Zia te lo chiede Ogni Fottuta Volta che ti vede. E non è che l’Australia è cambiata nel frattempo, eh. Ho pure scritto un libro, “Latinoaustraliana”, per non dover rispondere ogni volta daccapo. Tiè, leggi e lasciami bere questo whisky in pace.
Ma La Zia non molla, e tu allora ti tieni sul vago –mah, lo stesso, ora è estate lì (informazione che sembra non venire registrata mai, visto che viene sempre accolta con enorme sorpresa). Dopodichè torni a sorseggiare il tuo bicchiere sperando sia finita lì. In queste situazioni mi piace diventare tappezzeria, trattenere il fiato e aspettare che la serata passi. Non perchè non mi piace parlare (e scrivere) dell’Australia; semplicemente, ormai so quando la persona davanti è realmente interessata, e quando invece ti sta stuzzicando.
Con La Zia, non ci vuole molto a capire le sue intenzioni. Subito dopo arriva infatti il classico:
Ma quanto si guadagna in Australia?
Domanda anch’essa innocente, non fosse per il fatto che ti aspettano al varco. Non esiste una risposta giusta, e lo sai.
Se dici che si guadagna tanto, allora te la stai tirando –e sei uno stronzo, specie a dirlo in un Paese con disoccupazione al 40% e Kasta eccetera eccetera,
Se dici che si guadagna poco, allora ti guardano come se fossi scemo pensando, e allora perchè cazzo sei andato fin lì?
Anche in questo caso, fai cadere una rapida risposta diplomatica, sperando che dopo ti lascino in pace: si guadagna più di qui, ma è tutto molto più costoso.
Là, punto. Ora, davvero, tornate a parlare di traffico calcio e meteo, e lasciatemi in pace.
La Zia fa passare il tempo di una portata, poi torna all’attacco.
Eh, certo che lì è diverso da qui!
Un’osservazione del tutto innocua, trita e ritrita. La realtà, però, è che questo è il segnale di via per schiaffare in un discorso tutti i luoghi comuni su un Paese e sull’altro, dove vince chi la spara più grossa prima che la pasta sia pronta. Quello che mi lascia più basito, ovviamente, sono i commenti sull’Australia da gente che non ci ha mai messo piede, che raramente ne legge le notizie (che sui media italiani sono quasi sempre sul modello: coccodrillo sbuca dal cesso di una casa di Darwin e azzanna genitali di simpatico bifolco), ma mi forzo a tacere. Ho smesso da anni di partecipare a questa stupida gara. Per dirla con Arthur Koestler: "Viaggiando, si impara che tutti i popoli hanno torto."
Come esercizio zen, comincio a fare delle palline con le molliche di pane. Le modello con le mie mani, aggiungo man mano altra mollica. La conversazione prosegue, le palline si fanno più grosse.
E tu che ne pensi?
La voce della Zia mi coglie completamente impreparato, concentrato com’ero sulle palline. Ho un deja-vù di quando chiamavano all’improvviso il mio nome in classe, e io non sapevo nemmeno a che ora fossimo arrivati.
Il fatto che La Zia sia una professoressa in pensione, non fa che peggiorare la sensazione.
Vorrei dirle che non stavo ascoltando, ma Ella è lì in attesa. Devo dire qualcosa, qualunque cosa.
Forza. Dai.
Beh, sì, certo è impossibile paragonarli, e poi, sai, l’Australia è cambiata anche rispetto a quando sono arrivato io, figurati –e intanto fisso un punto nel vuoto, alle spalle di tutti, sperando che arrivi la campanella a salvarmi. Il miracolo di Natale si compie, la pasta arriva, Eddie Murphy diventa amico con Dan Akroyd e io posso ritornare alle mie palline di pane.
E’ solo più tardi, diciamo tra la quarte e quinta portata, che la Zia ricomincia –così, con nonchalance.
Certo che voi che siete andati via, che coraggio incredibile!
E questa ti frega. Perchè, anche se sai che l’ha detto la Zia, non puoi negarlo: c’è voluto del coraggio, è vero. Anche solo per affrontare 22 ore di volo col pollo al curry come unico vero nutrimento. Anche solo per decidere di farlo, di mettere da parte tempo e soldi. Di darti un’altra opportunità in un mondo che sembra lasciarti battere solo un rigore, e poi sarai per sempre, nonostante tutto, quello che l’ha tirata troppo alta.
Anche solo per aver dovuto salutare e incamminarti verso il gate, senza guardarti mai indietro per paura di lasciare pezzi di cuore sparsi per il terminal.
Poi mi ricordo due cose.
La prima, che quella frase era pronunciata dalla Zia, quindi non era un apprezzamento sincero, ma solo un’altra trappola.
La seconda, che non ho mai creduto che chi partisse fosse un eroe, così come non l’ho mai pensato di chi restava. Sono parole prive di senso, colorate dall’umore e da un futuro capriccioso. Non è furbo chi parte, non è martire chi resta. Ognuno ha le sue ragioni, le sue ispirazioni, le sue limitazioni. Ogni storia, vivaddio, è diversa. A volte chi è partito avrebbe fatto meglio a restare, altre chi è rimasto magari avrebbe dovuto farsi un giro fuori. Non c’è una Regola Universale, nonostante le Zie di tutto il mondo la vadano cercando da sempre, inutilmente.
La Zia sente che l’ultimo attacco non ha funzionato, e allora parte per l’ultimo, il più disperato, il più infame. Quello che coinvolge le tua famiglia, i tuoi cari, la gente che se sei fortunato vedi una volta all’anno –ogni volta un po’ più corti, con più rughe, con più storie da raccontare e meno memoria per farlo.
Ma tu che sei andato così lontano, non pensi a chi lasci qui?
Ah beh. Mi cadono le palline di pane per terra. Fanculo. Sono stato seduto qui a sorbirmi tutto –i conti in tasca, le valutazioni, perfino le indicazioni- ma questo no. Non siamo eroi, noi che partiamo, ma nemmeno (tutti) stronzi. Non siamo tutti uguali, d’accordo. Alcuni trovano fortuna, altri continuano a fare il primo lavoro che hanno trovato. Alcuni hanno lasciato dietro gli affetti, altri botte e incomprensioni. Ma tutti, indistintamente, ci siamo lasciati dietro una storia, bella o brutta che fosse. E quella storia si arricchisce ogni volta che torniamo a casa e usciamo dall’aeroporto e soffochiamo in un abbraccio. E quella stessa storia ti viene riflessa nel finestrino dell’aereo –di troppi aerei- al ritorno, quando ci sono ricordi, pensieri in bianco e nero, frasi non dette, promesse che non potrai mantenere. Chi parte può aver ragione o torto, ma ha anche il sacrosanto diritto che nessuno gli venga a dire come ci si sente, quando l’aereo chiude il portellone, quando tutto quello che conosciamo si fa piccolo e poi remoto, freddo o caldo, preciso e poi sfocato.
Chi parte, sa come ci si trascina, assonnati e distratti, per quegli aeroporti a Dubai, Hong Kong o Singapore, sempre troppo uguali e con le luci troppo forti per occhi che si devono ancora riabituare.
Chi parte sa che non ci sono solo il lavoro, lo stipendio, l’affitto, l’articolo sul giornale sulla qualità della vita –c’è anche l’amore, ostinato e contrario, per niente scontato, che sopravvive alle notti nel deserto degli stop-over e ti porti dietro anche nelle stagioni al contrario della tua vita australiana.
A quel punto faccio l’unica cosa da fare: con un sorriso mi alzo, ringrazio, saluto, stringo la mano dalla Zia e me ne vado. Perchè l’eroe non è chi parte o chi resta, ma chi riesce a resistere a queste cazzo di cene.
E io non sono nato per fare l’eroe.
Marco Zangari © 2017
www.marcozangari.it
Pagina Facebook: Marco Zangari Autore
lunedì 23 gennaio 2017
"L'età della febbre" - Autori Vari
È stato un periodo disordinato, frammentato, con spazi ristretti e scatti di corsa. Per questo, l’unica lettura possibile sono stati i racconti, da masticare tra una fuga e un ritorno, in attesa, tirando il fiato.
La Minimum Fax è una delle mie case editrici preferite, con una cura e una ricerca nei suoi prodotti che creano un risultato spesso di qualità. Per questo mi sono fidato nella lettura dell’antologia “L’età della febbre”, che riuniva tutte le voci più innovative e importanti under 40 (fa un po’ strano pensare che ci rientrerò solo per pochissimi anni ancora). Il tema dell’antologia era, inevitabilmente (ma non banalmente) questo tempo di crisi, di cambiamento veloce e difficile da catalogare, di sovra-informazione, precarietà, distacco e amore a ore. Colpevolmente, avevo solo sentito parlare di alcuni di questi autori, forse di Raimo avevo letto qualcosa, quindi ero curioso di poterli vedere finalmente all’opera.
Il risultato, personalmente, non è dei più convincenti.
I racconti di questa raccolta hanno sicuramente grande inventiva, sfociando spesso in sperimentalismi molto azzardati, più o meno riusciti, fino al fumetto di Manuele Fior (molto interessante, ma difficilmente fruibile sul lettore ebook, come spesso capita con i fumetti). Ci sono trovate bizzarre come in “Il prodotto interno lordo” di G. Zucco, dove una madre legge il futuro tramite gli scarti intestinali del figlio (che forse ci voglia dire qualcosa sui tempi di merda che viviamo?). Ognuno degli autori ha una sua voce, un suo stile, il che è da apprezzare, ma il risultato finale mi lascia perplesso. Come se questa crisi fosse troppo ovvia, e bisognasse allora trovare una via alternativa per parlarne. Così facendo, però, a mio giudizio, ci si è allontanati troppo dal soggetto, finendo per perdersi lungo la strada. Lo schifo e l’incertezza che ci circondano davano materiale più che a sufficienza, senza bisogno di girarci troppo intorno. E questo ho notato nella raccolta: un bel gioco di gambe, anche abile a tratti, ma quando si trattava di far partire il gancio decisivo, ci si fermava a riflettere, dissimulare, ripetere, confondere. Paradossalmente, il racconto che più si è avvicinato al suo soggetto –e l’unico che mi ha permesso una qualche identificazione- è stato “Alta marea” di Emmanuela Carbè, che, pur immaginando una Roma distopica del futuro con una burocratizzazione invasiva e un destino già deciso, riesce comunque a parlare di questo tempo in maniera molto riuscita.
Gli altri racconti mi sono sembrati, chi più chi meno, esercizi di stile su un palcoscenico che non lascia troppi segni una volta che è stato tirato giù il sipario. Non brutti, nemmeno scritti male, e alcuni hanno abbastanza humour e abbastanza innovazione. Il problema è che la forma racconto –che permette di raccontare storie, di giocare con esse, di creare sensazioni brevi e intense- non è stata sfruttata come avrebbe potuto. Un buon tentativo, ma se c’è una finestra accanto, forse è il caso di guardarci attraverso.
A volte basta questo.
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