lunedì 23 maggio 2016

"Io odio John Updike" - Giordano Tedoldi



La letteratura è un viaggio delusionale e delirante, infligge la delusione che quel mondo non esista veramente, e questo lo si fa solo inventando.


Per concludere la settimana dedicata ai racconti, dopo Aldo Nove e Giorgio Falco mi sono fatto guidare dalla Minimum Fax (casa editrice che mi ha regalato delle soddisfazioni da lettore), con questo “Io odio John Updike” di Giordano Tedoldi. E stavolta mi sa che sono cascato male.

Sicuramente non ha aiutato venire dalla letture dell’”Ubicazione del bene”, coi suoi racconti densi e scarni. I racconti presenti in questa raccolta sono di tipo diverso, e non necessariamente brutti o altro –solo, non sono per niente il mio genere.
Si vede subito che Tedoldi sa scrivere, che il suo stile è scorrevole, che sicuramente non manca di immaginazione. Eppure ho faticato non poco a procedere nella lettura, finendo per leggere gli ultimi quasi distratto ormai.
Il racconto di Tedoldi è frammentario per scelta, come sottolinea l’autore nella prefazione, e si vede. Le storie, piuttosto che svilupparsi, procedono per flash, per scene, per dialoghi improbabili e incontri casuali. Non caratteristiche negative di per sé, intendiamoci: il bello del racconto è che ti permette appunto di sperimentare, di non dover necessariamente essere lineare. Però deve esserci una base, un aggancio, qualcosa che ti permetta di uscire dal tuo guscio e navigare dentro la storia, dimenticandoti della realtà che ti circonda, appassionandoti di personaggi incontrati per poco, e che tra poco usciranno dalla nostra vista. Qui invece i personaggi non riescono a coinvolgere, assorbiti pure loro dalla frammentarietà di tutta l’impalcatura. Finti duri, pseudo-intellettuali, scrittori confusi: è come se tornasse lo stesso personaggio in vesti diverse –con ironia, certo (sempre apprezzabile), ma che non riesce a farsi amare o odiare del tutto, restando sospeso tra le pagine. Di sicuro non aiuta la storia che, pur non lineare, manca di un’ambientazione forte, di un “respiro” che ti tiene incollato anche alle narrazioni più surreali, una profondità e una capacità che ti svelano processi e simboli anche nel racconto più ambiguo o assurdo.
Qui invece si vaga tra le pagine, con l’interesse (mio) che si è abbassato al punto che non m’importava più tanto di capire se e quali metafore si nascondessero. In alcuni punti avevo la sensazione che l’autore, parafrasando uno dei suoi personaggi, scrivesse parole, solo parole. Quando leggo frasi come “il taxi si è fermato e ti trovi all’esterno di un propileo lucidato dai raggi di fine maggio che solo scendendo potrai ammirare in tutta la sua incongrua posizione”, al netto di ogni ironia e/o provocazione letteraria, la mia mente comincia a pensare a cosa ci sarà per cena.
Non è un libro tremendo, e sicuramente Tedoldi sa usare la sua penna: a me, però, lasciatemi andare a mangiare.

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