mercoledì 29 luglio 2015
"L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio", Haruki Murakami
Nel più profondo del suo spirito, Tazaki Tsukuru capì. A unire il cuore delle persone non è soltanto la sintonia dei sentimenti. I cuori delle persone vengono uniti ancora più intimamente dalle ferite. Sofferenza con sofferenza. Fragilità con fragilità. Non c’è pace esente da grida di dolore, non c’è perdono senza sangue sparso sul terreno, non c’è accettazione che non nasca da una perdita. Perché alla radice della vera armonia ci sono dolore, sangue e perdite.
Dopo le notti insonni passate sul “Potere del cane” di Winslow, cercavo qualcosa che potesse mantenere un buon livello, così ho deciso di provare con Murakami, che di solito non delude mai le aspettative.
“L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio” (Einaudi) è stato un altro centro. Con Murakami non si sbaglia mai, anche quando il prodotto finale è magari un po’ oscuro, come capitato con “Kafka sulla spiaggia”.
Questo romanzo invece riporta il miglior Murakami, a suo agio tra queste pagine ben descritte, dosate alla perfezione, estremamente leggibili e cariche di riflessioni accennate, mai appesantite, che lasciano al lettore il compito (la possibilità) di approfondirle o meno.
La storia prende le mosse da un incontro che Tazaki Tsukuru fa a Tokio con una donna, Sara. Questo incontro lo porta a parlare del gruppetto che Tazaki frequentava ai tempi del liceo nella sua città d’origine. Il gruppetto era composto da altri quattro ragazzi, due maschi e due femmine, ognuno con personalità e aspirazioni molto diverse. Il gruppetto, incredibilmente affiatato, aveva resistito anche quando, alla fine del liceo, proprio Tazaki aveva sorpreso tutti ed era andato a studiare all’università di Tokio, lontano da lì.
Tutto sembra andare bene finché un giorno uno degli amici chiama Tazaki al telefono e lo informa che non è più il benvenuto nel gruppo. Senza una spiegazione, senza un motivo.
Il libro ci mostra come Tazaki, molti anni dopo, spinto da Sara, decide di fare luce sul perché il gruppetto aveva deciso che proprio lui –il più tranquillo, il più accomodante di tutti- fosse stato fatto fuori. Investigando –compiendo il suo personale pellegrinaggio- scoprirà la sconvolgente verità dietro quell’abbandono, e questo gli permetterà di capire anche tante cose di se stesso.
Mi sono dilungato un po’ sulla trama (e spero di non aver ceduto alla tentazione dello spoiler) perché la premessa del libro, come spesso in Murakami, è tanto semplice e comune quanto potente. Oltre la storia in sé, si nasconde molto di più.
Non è un caso che l’aggettivo “incolore” si trovi anche nel titolo. Gli altri quattro membri del gruppo del liceo, infatti, possiedono tutti nomi che all’interno hanno anche nomi di colori. Takazi Tsukuru è invece l’unico che non lo ha. Il suo nome significa infatti “costruire”. La mancanza di colori, di contrasto invece a quelli netti, vividi dei suoi ex-amici, lo perseguiterà per tutta la vita.
Perché questo romanzo è un libro di colori, che sono quelli dell’adolescenza, di quando ancora c’è tutto da fare. Murakami parla di linee d’ombra, di quella fase delicata, interessante e disumana che è la fine della fanciullezza e l’inizio dell’età adulta, lì dove i sogni enormi dei ragazzi vengono messi al muro, misurati, e spesso freddati senza pietà.
Murakami ci ricorda quanto splendido e crudele (cit.) possa essere quel periodo della nostra vita, e quanto sia difficile attraversarlo. Non usa l’occhio della nostalgia, ma cerca di far rivivere quei traumi che sono propri di quell’età di passaggio, che ci portano a non sapere più chi siamo, a non riconoscere nemmeno più il corpo che sta cambiando allo specchio ogni giorno.
Il tutto accompagnato dalla colonna sonora (immancabile nei libri di Murakami), che in questo caso è il “Mal du Pays” di Frank Lizst, una melodia bella e malinconica, che parla di cose perdute per sempre, di panorami che ci siamo lasciati indietro, di facce che non rivedremo più.
No, pensò, non sono né tranquillo né cool, e non seguo il mio ritmo. È soltanto una questione di equilibrio. Sono semplicemente abituato a distribuire il peso che mi porto addosso. Può anche darsi che agli altri questo sembri indifferenza. Ma non è un’impresa semplice. Richiede più sforzo di quandto l’apparenza lasci credere. Inoltre, anche se si riesce a raggiungere l’equilibrio, non significa che la massa complessiva che pesa sul fulcro diventi più leggera.
“L’incolore Tazaki Tsukuru” è un libro delicato come quella melodia, fatto di incontri, riflessioni, spazi vuoti, e parole che scivolano leggere.
Alla fine vi troverete come dopo l’ascolto di un pezzo classico carico, breve, che vi piacerà senza che capiate subito perché. Che vi sembrerà familiare, a volte consolante, a volte spiazzante. Che vi rapirà.
E che non vi deluderà.
venerdì 10 luglio 2015
"Il potere del cane", Don Winslow
Deliver my soul from the sword; my love from the power of the dog.
Premetto al volo un paio di cose: intanto, che questo genere (noir o hard-boiled o poliziesco o comunque vogliate chiamarlo, tanto alla fine esula da tutte queste definizioni e poi spiegherò perchè) non è tra i miei favoriti, anzi non lo leggo quasi mai.
Poi, che a questo libro sono arrivato nella maniera forse più improbabile, cioè tramite una citazione in uno dei fumetti del noto disegnatore romano Zerocalcare.
Fine delle premesse, passo subito al punto: “Il potere del cane” è una bomba.
Comunque ci sia arrivato, in qualunque genere vogliate incasellarlo, posso solo dire che è un libro che vi terrà prigionieri fino all’ultima pagina, poi chiederà un riscatto ma nel frattempo avrete sviluppato una tale sindrome di Stoccolma che tutto quello che vi resterà da fare, una volta liberi, sarà aspettare l’uscita del tanto annunciato seguito, “The Cartel” (e sul film di futura uscita).
E a quel punto ricomincerà tutto daccapo.
“Il potere del cane” di Don Winslow basa la sua storia sulle vicende del narcotraffico in Sudamerica (in particolare in Messico) che vengono ad intrecciarsi alle vicende sociali e politiche dei vari Paesi, oltre che a quelle dei vicini Yankee.
Tutto qui? Non proprio, visto che Winslow fa sfilare, nella sua storia, la mafia vecchio stile di New York, gli eserciti clandestini comunisti, i servizi segreti deviati, i giochi di potere del Vaticano e tantissimo altro. Non solo: gli snodi importanti della storia si rifanno a fatti realmente accaduti (come la famigerata Operazione Condor, e il terremoto di Città del Messico) e a personaggi reali, come il patron Pablo Escobar.
I personaggi, già: come da copione (specie in questo genere), Winslow ci presenta il buono da una parte –l’agente della DEA Art Keller- e il cattivo dall’altra –il patron Adan Barrera. In più il buono è l’americano, il cattivo è messicano. Tutto nel clichè, sembrerebbe.
Bastano poche pagine per capire che le cose non stanno esattamente così. “Il potere del cane” racconta le vicissitudini di un pugno di personaggi lungo l’arco di oltre vent’anni, e nessuno di essi è dato per scontato. Ognuno di loro, prima o poi, si trova a dover prendere una decisione importante, a doversi sporcare le mani, e, dopo, a fare i conti con le conseguenze. Spesso ad azioni genuinamente ben intenzionate seguono risultati disastrosi ed imprevisti.
Pur distinguendo sempre tra buoni e cattivi, Winslow mischia con mestiere le carte. Nessuno dei suoi personaggi è innocente. In momenti estremi, ci si può perfino trovare a parteggiare per i cattivi. I buoni, dal canto loro, si fanno a volte prendere dal “potere del cane”, quella forza istintiva, irrazionale, che può trasformare il bene in male, fino a cancellare ogni confine.
Per quanto mi riguarda, ho letto “Il potere” in lingua originale, e l’ho trovato incredibilmente scorrevole, con una prosa tagliente, cazzuta, mai stereotipata. Averlo letto in formato ebook mi ha forse salvato dallo shock di vedere le 700 e passa pagine tutte insieme, ma posso assicurare che non sono un problema: una volta iniziato, vorrete sapere come va a finire, e vorrete saperlo in fretta. Alcuni personaggi principali usciranno di scena in maniera imprevista (niente spoiler, tranquilli!), e i colpi di scena non mancano. Da parecchio non mi capitava un libro di quelli che sfrutti qualsiasi momento per macinare altre pagine, o che ti fa mormorare “Cazzo!” nel cuore della notte mentre la tua ragazza ti dorme al fianco.
Il riferimento a fatti storici reali dà una cornice interpretativa importante, e distingue questo libro dal classico noir o thriller, gettando molte ombre non solo sulle vicissitudini sudamericane di quegli anni, ma anche sulla condotta degli Stati Uniti. Come detto, nessuno esce innocente da questo libro.
Niente difetti, stavolta, ma solo applausi per Winslow, che sa creare un mondo credibile e spietato, e una storia che non perde mai colpi.
Leggetelo. Non ve ne pentirete.
domenica 5 luglio 2015
"Sottomissione", Michel Houellebecq
Ma solo la letteratura può dare la sensazione di contatto con un’altra mente umana, con l’integralità di tale mente, le sue debolezze e le sue grandezze, i suoi limiti, le sue meschinità, le sue idee fisse, le sue convinzioni; con tutto ciò che la turba, la interessa, la eccita o le ripugna. Solo la letteratura può permettere di entrare in contatto con la mente di un morto, in modo più diretto, più completo e più profondo di quanto potrebbe fare persino la conversazione con un amico; per quanto profonda e solida possa essere un’amicizia, in una conversazione non ci si abbandona mai così completamente come davanti a una pagina bianca, rivolgendosi a un destinatario sconosciuto.
Di norma, preferisco non farmi mai prestare libri (così come li presto col contagocce, e solo a chi so io). A prescindere dalla qualità del libro, voglio qualcosa da poter riprendere quando voglio, nella mia libreria Billy e (ora) anche in quella virtuale del mio Kobo.
Quando G. è venuta con una copia di “Sottomissione”, però, ho ringraziato e cominciato a leggere nel giro di 12 ore.
Due motivi: il primo, che questo libro, uscito per pura coincidenza dopo gli attentati a Parigi dello scorso gennaio, aveva fatto molto parlare di sè, passando dall’islamofobia all’islamofilia nel corso dello stesso paragrafo. Ero quindi curioso di vedere quanto, ancora una volta, avevano travisato Houellebecq.
Secondo: Houllebecq mi piace, e parecchio. Non sempre sono d’accordo con le sue conclusioni o col suo passo, ma ritengo sia uno dei pochi che, in questo 2015 deumanizzato, logorato, ammosciato e politicamente corretto, riesca ancora a provocare, senza doverlo fare per il puro gusto della provocazione. Leggerlo ti da sempre l’idea di uno con una testa che fuma, ma che allo stesso tempo non vuole farlo pesare, e anzi è per lui stesso un fardello di cui si libererebbe volentieri. A volte ci riesce persino, tramite i suoi protagonisti: quando si ubriacano, quando si imbarcano in improbabili avventure sessuali, quando –come in questo caso- decidono di cedere e, appunto, sottomettersi.
“Sottomissione” (Bompiani) segue la storia di Francois, introverso docente ossessionato da Huysmans, che, suo malgrado (ed è proprio il caso di dirlo, visto che tutto è diventato ormai indifferente per Francois) si trova nel bel mezzo di uno storico mutamento politico e sociale in Francia.
Il libro si addentra parecchio nei meccanismi politici francesi ed europei, così come nella visione della società musulmana, in qualcosa che ricorda il romanzo distopico (dove, appunto, si immaginano versioni parallele della nostra storia e realtà). Ciò nonostante –e per fortuna- “Sottomissione” non è un mattone. Tutt’altro. La storia di Francois, della sua solitudine, dei suoi incontri, si fa leggere, in una delle opere più asciutte e scorrevoli di Houellebecq (di cui ancora ignoro la pronuncia, spero un giorno di poterci arrivare).
Inoltrandosi nella lettura, si capisce subito come mai questo libro abbia suscitato tante polemiche (anche a causa della sua sfortunata vicinanza con i fatti di Charlie Hedbo). Come sottolineato dal giornalista dell’Espresso, Gilioli, (che spiega in questo articolo, e molto meglio di come potrei mai fare io, i contenuti politici, sociali ed esistenziali del libro), chiunque abbia letto altre opere di Houellebecq, vedrà tornare qui i suoi temi ricorrenti (che, quindi, non si limitano ad una sterile critica o acclamazione dell’Islam), dalla decadenza sociale e culturale dell’Europa laica al fallimento della società individualistica.
Francois, al pari di altri protagonisti di Houellebecq (leggetevi, se vi va, “Estensione del dominio della lotta” e “Le particelle elementari”), è il frutto di questo individualismo, e ne rappresenta tutto il fallimento: isolato, rinchiuso nelle sue meditazioni infinite, con relazioni sessuali brevi e insoddisfacenti, indifferente a tutto. Solo nel (provocatorio) finale riuscirà a superare questa chiusura, con una scelta di vita radicale.
Di nuovo: se volete farvi un’idea dei contenuti politici e culturali, date un’occhiata all’ottimo articolo di Gilioli. Per quel che mi riguarda, umilmente posso dire che “Sottomissione” è un bel libro, che si fa leggere volentieri –pure a dispetto di parecchi tecnicismi e iperdettagli- e che pochi autori contemporanei riescono a creare protagonisti altrettanto intrisi di solitudine, disperazione e tiepido dolore –alienati nei quali è impossibile che la società di oggi possa non rivedersi.
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