lunedì 4 febbraio 2013

La stanza dello stucco

Di solito le camere di un'hotel sono numerate.
Questo albergo, però, è così vecchio e saggio che forse può starci avere una stanza senza alcun numero. La targa sarebbe scolorita dal tempo e graffiata dalle risse passate, da piatti scagliati dalle mogli verso i mariti, dalle urla di bambini che giocavano a farsi paura, dagli artigli di gatti che correvano lungo il corridoio inseguiti da cani e da porci.

Ci sta, in tutto questo affascinante abbandono, che io mi svegli di colpo in quella stanza, oltre quella porta con la targa ormai andata ed inutile. Una stanza nuova, provata una notte quasi per gioco, in balia di un sogno, dell'alcool, d'un'inquietitutine d'animo o d'un delirio di onnipotenza.

Ora è lì che mi sveglio, nella mia nuova stanza. Guardo il soffitto come fosse sempre lo stesso, ma non è così. Mi alzo e accendo il termosifone, guardandomi intorno, affatto sicuro di come le coperte, quel poster e la bandiera australiana abbiano fatto a raggiungermi qui.

Eppure è qui che ora sono, nella Stanza dello Stucco: una camera dal nome semplice ma misterioso, che sta all'ottavo piano, un piano oltre il settimo cielo e due sopra il sesto senso. Le pareti non sono perfette e il pavimento è opaco. Il giorno la luce la invade, eppure il sole non la degna nemmeno, la notte il balcone s'affaccia su un mare di luci, migliaia di piccoli fuochi che spirano verso il mattino e lasciano una coltre bassa di fumo, a volte così spessa che puoi sognare di essere sopra le nuvole, nonostante dalle profondità dell'inferno la metro sappia ancora farsi sentire.


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