giovedì 7 aprile 2016
“Libertà” - Jonathan Franzen
Scrivendo recensioni (soprattutto se a tempo perso, raccontandole al proprio ombelico) il rischio è sempre lì dietro l’angolo: quello di trovarsi a stroncare un autore popolare. Come ti permetti tu, PincoPallino, osar dire qualcosa contro Xxx Yyy? Ma sai quanta strada devi fare per arrivare lì dov’è arrivato/a lui/lei? È chiaro che la tua è solo invidia, torna nell’oscurità astiosa dalla quale provieni, sciocco!
L’ho letto davvero in giro, non scherzo. Ciò presuppone che per poter criticare un autore conosciuto tu debba diventarlo a tua volta, sennò zitto e ciucciati la tua lingua biliosa. (E meno male che nessuno ha fatto caso alla mia ultima recensione di un libro di Eco…). Non nego che c’è chi stronca gli autori affermati perché così fa figo (sì, ho letto quel Murakami, niente di che, so scrivere meglio io), però insomma, al netto di invidie e gelosia, chiunque può scrivere una cagata –anche un autore conosciuto e osannato.
Anzi, magari spesso è conosciuto e osannato proprio per questo (e qui gli esempi sarebbero tanti, troppi…).
E Jonathan Franzen conosciuto e osannato lo è sicuramente. Da tempo viene visto come uno dei nuovi scrittori americani più importanti, i suoi libri vincono premi su premi e Obama non manca mai di dargli una pacca sulla spalla nel suo tempo libero.
Di solito mi accosto a questo genere di autori per motivi, diciamo, “di studio”. Per capire per cosa vengono osannati, qual è il trucchetto (spesso ce ne sono tanti, ma non nel senso buono), e anche per capire che aria tira –editorialmente parlando. Uscire dal recinto dei classici per farsi un bagno di contemporaneità.
E tornare al recinto di corsa.
Che poi questo “Libertà” non comincia nemmeno malaccio. La storia, molto comune, è quello di una coppia americana, del loro matrimonio, del rapporto con i figli. Un quadretto semplice di cui presto Franzen svela i retroscena, scavando nel passato e rivelando quelli che, col tempo, diventeranno dei buchi neri sempre più potenti e inesorabili nella loro relazione.
Devo dire che il libro si fa leggere all’inizio, e si intuisce che Franzen ci sa fare con le parole. Pur leggendolo in originale, ho divorato pagine a gran velocità.
A poco più della metà ho cominciato a vacillare, stentando, forzandomi a proseguire, fino ad arrendermi all’evidenza: quello che avevo davanti era un pessimo libro.
La storia, che partiva con buone premesse e con personaggi ben definiti, si perdeva lungo il cammino in una marea di dettagli inutili, di munizie narrative e di analisi psicologiche sfiancanti che, onda dopo onda, vanno a formare quello tsunami di noia rappresentato dalle 650 pagine finali. Di alcuni personaggi, per quanto ben tratteggiati, non ti frega mai molto per tutta la storia –e altri scadono nelle stereotipo, come il truce rockettaro maledetto. Alcune svolte della storia suonano poco credibili o fin troppo prevedibili, un po’ come quei film americani che sai già come andranno a finire. Altre parti, come quella legata agli uccelli e alla loro estinzione, sono narrate con un profluvio di dettagli che ti portano a scorrerli e andare oltre per non addormentarti –e la metafora legata agli uccelli e alla loro libertà annega insieme al nostro interesse. I tentativi di inserire riferimenti politici e sociali sono goffi, banali e tristemente fuoriluogo.
Peggio di tutto, questo è il tipo di libro che vuole esprimere un concetto (in questo caso, confusamente legato alla libertà inviduale, alle responsabilità, alle regole), ma ci mette così tanto tempo che finisce per non importare più.
“Libertà” ha vinto tanti premi, ma chi riesce a finirlo dovrebbe averne uno ancora più importante –che però non gli restituirà mai il tempo perso dietro questo polpettone.
Se vi volete bene, usate meglio i vostri euro e il vostro tempo.
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