Poteva andarci
peggio
-potevamo diventare come quelli
che commentano le notizie
sui quotidiani online
come quelli che leggono
un libro l’anno
per non sentirsi in colpa
che bastano titoli & facce
e non serve mai
andare più a fondo
come quelli che sorridono solo
nella foto profilo
che si vendono nella maniera più
brillante
e offline
non sono niente
Potevamo diventare come quelli
che dicono “ormai”
che le rivoluzioni le vedono solo
in streaming
per commentarle poi a
pranzo con i
colleghi
Potevamo diventare come quelli che
dieta a maggio e dopo le feste
city car, iTunes, gita fuori porta
per la crisi
come quelli che hanno tante citazioni
e nemmeno un pensiero
quelli che non si guardano mai
indietro
quelli che si sono dimenticati
che c’erano anche loro
Potevo diventare come quello
ancora aggrappato a
quella città, quel tempo
quell’illusione
quel dolore
Potevo
ed era facile
diventarlo
Ma grazie a te, a voi
alle trincee e alle risate
con fatica
a stento
sono riuscito a
diventare
me
stesso.
Marco Zangari © 2014
(pubblicato anche su Last Drink in Big Sur)
domenica 23 marzo 2014
lunedì 17 marzo 2014
Di trentenni, sagge verità, rompimenti di cazzo e birre al sole
A trent’anni passati (abbondantemente), puoi cominciare a dire di conoscerti un poco –almeno in parte. E non è una sensazione troppo brutta, anzi.
Te ne rendi conto in maniera intuitiva, senza molti ragionamenti: come capire al volo cosa ti va per cena, o il tipo di compagnia che vorresti per il finesettimana. Piccole cose, apparentemente esteriori, che però dicono tanto.
Oggi, per esempio. Mi sono preso una giornata di vacanza al lavoro senza un motivo particolare –solo perchè me la potevo prendere, tutto qui. Sapevo che la giornata sarebbe stata bella, nonostante siamo ormai in autunno e la serate comincino ad allungarsi e rinfrescarsi. Dopo un finesettimana di pioggia torrenziale, Sydney avrebbe preso per il culo tutti coloro che sarebbero andati al lavoro con una mattina da sole estiva e grassa.
Avevo detto agli amici che sarei andato al mare. Eppure, per quelli che mi conoscevano, era difficile crederlo. Probabilmente pensavano che avrei preferito schiaffarmi sull’amaca in giardino a prendere il sole, leggere, bere birra fredda e non pensare a niente –che è poi esattamente quello che ho fatto.
Non c’entra solo la pigrizia. Non c’entra nessuna ragione materiale nè di distanza, e non è che non mi piaccia andare al mare.
Solo questo: per chi mi conosce bene, era facile immaginare cosa avrei fatto.
Crescere vuol dire cominciare a sentirsi bene nella propria pelle. Non proprio piacersi, però sappiamo cosa possiamo e non possiamo fare, come una vecchia macchina che arranca sicura.
Non vale per tutti, chiaro. Le persone ottuse lo sono anche a 15 anni, spesso senza possibilità di redenzione. Però, superati i 30, finalmente ci capiamo un po’ di più. Da quel caos continuo, incadescente, strappiamo fuori alcuni princìpi e mezze verità che precisano quello che siamo e che cavolo ci facciamo in mezzo agli altri su questo simpatico pianeta. Bene o male, siamo meno estranei di quando avevamo vent’anni –e anche questa direi che é una gran cazzo di bella sensazione, dopo quel rollìo continuo, ubriaco, di anni passati a sentirci incompresi, fuori di testa, troppo stupidi o troppo sprecati.
Non ci si ama per forza, quello no: ci si comincia ad accettare, e forse in qualche misura anche a perdonare. 30 anni sono un discreto periodo da mettere tutto insieme (anche se, di nuovo, questo vale più per alcuni che per altri), e lì in mezzo ci sono già abbastanza sangue, amori, delusioni, errori e depressioni per una decina di romanzi. É chiaro che a quel punto, conoscersi un po’ aiuta a sopportare tutto questo carico.
Non si tratta di evitare altri sbagli in futuro: la storia, lo sappiamo, tende a ripetersi quasi sempre, in una forma o nell’altra. Lì bisogna essere fortunati o forti abbastanza da rompere quel cerchio maledetto, o trovare qualcuno che ci aiuti a farlo.
Ed io, in quello, sono stato molto fortunato.
Il punto è, finalmente, poter dire: io sono così, prendere o lasciare. Cominciamo col dirlo a noi stessi (nei momenti in cui non possiamo fare di più, o diversamente) e finiamo per dirlo anche a chi ci circonda. Non è una difesa, non è un rinchiudersi, non è un non voler evolvere o migliorarsi: significa dire, questo è quello che sono, che gli eventi mi hanno fatto diventare, che io sono stato in grado di dirigere, che i giorni di sole e quelli di pioggia sono riusciti a forgiare. E non è poco.
Per me è rassicurante alzarmi la mattina e sapere che le mie mani sono ancora attaccate ai polsi, che il mio cuore funziona ancora a dovere, e che so perdermi e poi trovarmi (quasi sempre). Sapere che ho i miei punti oscuri e i miei slanci che sorprendono anche me, i miei molti vizi e le mie virtu' da lunedi' mattina, i miei pregiudizi e i miei sogni, i miei limiti e quello che ancora posso e voglio fare. E, per quanto possibile, faccio in modo che questo non resti solo una frasetta del cazzo da linkare su Facebook.
Anche perchè, alla mia età, non saprei come fare.
Poi è vero, magari possiamo capirci ma non venire capiti dagli altri. Io ho avuto, per esempio, sempre parecchi problemi col mio concetto di socialità.
A vent’anni il mio motto era lo stesso del vecchio Bukowski: Umanità, mi stai sul cazzo da sempre.
Non è che sia cambiato molto da allora, ma ho smorzato un po’ i toni. L’ho fatto sia perchè ero stanco di combattere ogni giorno per dover spiegare questo mio diritto alla solitudine, sia perchè, dovendo avere a che fare per lavoro con centinaia di persone, ho imparato a conoscere meglio questa mia asocialità, a capire che non è totale ma va a periodi e maree, e quando una di queste maree mi sommerge so ormai che devo star fermo ed aspettare che passi, e nel frattempo proteggere quell’ “uccello azzurro” che mi canta dentro (per citare ancora il vecchio Buk) dalla stupidità e banalità violenta degli altri. Per me vale sempre il principio di quell’altro figlio di puttana di Sartre: l’inferno sono gli altri.
Per chi non vive queste cose, non è semplice da accettare, ma come dicevamo qualche giorno fa col compare Mauro, c’è un’altra cosa che a trent’anni ormai hai capito, e cioè che vuoi meno rompimenti di cazzo possibili. Di quelli ce ne sono già troppi, fisiologici, nel vivere quotidiano, nel lavorare, nel tirare avanti giorno per giorno. A questo punto diventa vitale eliminare tutti quelli superflui.
Per questo adesso ogni amico, ogni donna che entrano nella nostra vita, devono avere un’idea del dove stanno entrando. Devono prenderci così come siamo, e pretendere lo stesso con loro. In caso contrario, la porta è quella. Mentre i quaranta diventano un numero quasi concreto (argh!), il tempo per discussioni e rompimenti di cazzo diminuisce drasticamente: o rispetti quello che trovi, o è meglio che continui dritto.
Con le donne è fondamentale: ce ne sono troppe in giro (e vale lo stesso anche per gli uomini, ovviamente) che, più che te, vogliono una versione “migliorata” di quello che sei, magari in prospettiva futura. Il che mi sembra un ottimo modo per non conoscere mai la persona che hai davanti.
Non voglio un mondo di asociali: voglio solo che la mia asocialità venga riconosciuta come una parte di me, nè da estirpare nè da glorificare, semplicemente una parte di me –e come questo, anche tutto il resto, a prescindere che lo si classifichi come pregio o come difetto.
So che sembra tutto il discorso di un vecchio scassacazzo e brontolone. Mi sa che non siete lontani dalla verità.
A costo di ripetermi, ci tengo a dirlo: a me i trenta piacciono. E nemmeno poco.
E non mi sta troppo sui coglioni neanche questo vecchio bisbetico.
Tutto qui.
Ora scusate, ma ho un’amaca che mi aspetta.
Buona vita che vi è capitata a tutti.
Zango
Te ne rendi conto in maniera intuitiva, senza molti ragionamenti: come capire al volo cosa ti va per cena, o il tipo di compagnia che vorresti per il finesettimana. Piccole cose, apparentemente esteriori, che però dicono tanto.
Oggi, per esempio. Mi sono preso una giornata di vacanza al lavoro senza un motivo particolare –solo perchè me la potevo prendere, tutto qui. Sapevo che la giornata sarebbe stata bella, nonostante siamo ormai in autunno e la serate comincino ad allungarsi e rinfrescarsi. Dopo un finesettimana di pioggia torrenziale, Sydney avrebbe preso per il culo tutti coloro che sarebbero andati al lavoro con una mattina da sole estiva e grassa.
Avevo detto agli amici che sarei andato al mare. Eppure, per quelli che mi conoscevano, era difficile crederlo. Probabilmente pensavano che avrei preferito schiaffarmi sull’amaca in giardino a prendere il sole, leggere, bere birra fredda e non pensare a niente –che è poi esattamente quello che ho fatto.
Non c’entra solo la pigrizia. Non c’entra nessuna ragione materiale nè di distanza, e non è che non mi piaccia andare al mare.
Solo questo: per chi mi conosce bene, era facile immaginare cosa avrei fatto.
Crescere vuol dire cominciare a sentirsi bene nella propria pelle. Non proprio piacersi, però sappiamo cosa possiamo e non possiamo fare, come una vecchia macchina che arranca sicura.
Non vale per tutti, chiaro. Le persone ottuse lo sono anche a 15 anni, spesso senza possibilità di redenzione. Però, superati i 30, finalmente ci capiamo un po’ di più. Da quel caos continuo, incadescente, strappiamo fuori alcuni princìpi e mezze verità che precisano quello che siamo e che cavolo ci facciamo in mezzo agli altri su questo simpatico pianeta. Bene o male, siamo meno estranei di quando avevamo vent’anni –e anche questa direi che é una gran cazzo di bella sensazione, dopo quel rollìo continuo, ubriaco, di anni passati a sentirci incompresi, fuori di testa, troppo stupidi o troppo sprecati.
Non ci si ama per forza, quello no: ci si comincia ad accettare, e forse in qualche misura anche a perdonare. 30 anni sono un discreto periodo da mettere tutto insieme (anche se, di nuovo, questo vale più per alcuni che per altri), e lì in mezzo ci sono già abbastanza sangue, amori, delusioni, errori e depressioni per una decina di romanzi. É chiaro che a quel punto, conoscersi un po’ aiuta a sopportare tutto questo carico.
Non si tratta di evitare altri sbagli in futuro: la storia, lo sappiamo, tende a ripetersi quasi sempre, in una forma o nell’altra. Lì bisogna essere fortunati o forti abbastanza da rompere quel cerchio maledetto, o trovare qualcuno che ci aiuti a farlo.
Ed io, in quello, sono stato molto fortunato.
Il punto è, finalmente, poter dire: io sono così, prendere o lasciare. Cominciamo col dirlo a noi stessi (nei momenti in cui non possiamo fare di più, o diversamente) e finiamo per dirlo anche a chi ci circonda. Non è una difesa, non è un rinchiudersi, non è un non voler evolvere o migliorarsi: significa dire, questo è quello che sono, che gli eventi mi hanno fatto diventare, che io sono stato in grado di dirigere, che i giorni di sole e quelli di pioggia sono riusciti a forgiare. E non è poco.
Per me è rassicurante alzarmi la mattina e sapere che le mie mani sono ancora attaccate ai polsi, che il mio cuore funziona ancora a dovere, e che so perdermi e poi trovarmi (quasi sempre). Sapere che ho i miei punti oscuri e i miei slanci che sorprendono anche me, i miei molti vizi e le mie virtu' da lunedi' mattina, i miei pregiudizi e i miei sogni, i miei limiti e quello che ancora posso e voglio fare. E, per quanto possibile, faccio in modo che questo non resti solo una frasetta del cazzo da linkare su Facebook.
Anche perchè, alla mia età, non saprei come fare.
Poi è vero, magari possiamo capirci ma non venire capiti dagli altri. Io ho avuto, per esempio, sempre parecchi problemi col mio concetto di socialità.
A vent’anni il mio motto era lo stesso del vecchio Bukowski: Umanità, mi stai sul cazzo da sempre.
Non è che sia cambiato molto da allora, ma ho smorzato un po’ i toni. L’ho fatto sia perchè ero stanco di combattere ogni giorno per dover spiegare questo mio diritto alla solitudine, sia perchè, dovendo avere a che fare per lavoro con centinaia di persone, ho imparato a conoscere meglio questa mia asocialità, a capire che non è totale ma va a periodi e maree, e quando una di queste maree mi sommerge so ormai che devo star fermo ed aspettare che passi, e nel frattempo proteggere quell’ “uccello azzurro” che mi canta dentro (per citare ancora il vecchio Buk) dalla stupidità e banalità violenta degli altri. Per me vale sempre il principio di quell’altro figlio di puttana di Sartre: l’inferno sono gli altri.
Per chi non vive queste cose, non è semplice da accettare, ma come dicevamo qualche giorno fa col compare Mauro, c’è un’altra cosa che a trent’anni ormai hai capito, e cioè che vuoi meno rompimenti di cazzo possibili. Di quelli ce ne sono già troppi, fisiologici, nel vivere quotidiano, nel lavorare, nel tirare avanti giorno per giorno. A questo punto diventa vitale eliminare tutti quelli superflui.
Per questo adesso ogni amico, ogni donna che entrano nella nostra vita, devono avere un’idea del dove stanno entrando. Devono prenderci così come siamo, e pretendere lo stesso con loro. In caso contrario, la porta è quella. Mentre i quaranta diventano un numero quasi concreto (argh!), il tempo per discussioni e rompimenti di cazzo diminuisce drasticamente: o rispetti quello che trovi, o è meglio che continui dritto.
Con le donne è fondamentale: ce ne sono troppe in giro (e vale lo stesso anche per gli uomini, ovviamente) che, più che te, vogliono una versione “migliorata” di quello che sei, magari in prospettiva futura. Il che mi sembra un ottimo modo per non conoscere mai la persona che hai davanti.
Non voglio un mondo di asociali: voglio solo che la mia asocialità venga riconosciuta come una parte di me, nè da estirpare nè da glorificare, semplicemente una parte di me –e come questo, anche tutto il resto, a prescindere che lo si classifichi come pregio o come difetto.
So che sembra tutto il discorso di un vecchio scassacazzo e brontolone. Mi sa che non siete lontani dalla verità.
A costo di ripetermi, ci tengo a dirlo: a me i trenta piacciono. E nemmeno poco.
E non mi sta troppo sui coglioni neanche questo vecchio bisbetico.
Tutto qui.
Ora scusate, ma ho un’amaca che mi aspetta.
Buona vita che vi è capitata a tutti.
Zango
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