lunedì 30 marzo 2009

"Psicologia dell'Ospedale", o anche: perchè non ho fatto ingegneria?

Anni fa, mentre preparavo l’ennesimo appello per le mia Storia Infinita con l’Università di Psicologia, mi ero imbattuto in un testo. Il titolo era “Psicologia dell’Ospedale”. Come spesso mi capitava con libri di testo e a volte intere materie, ero (ingenuamente) catturato dal titolo. Sapevo che da qualche parte quella cazzo di università doveva PUR iniziare a essere interessante. Un pochino psicologica, solo un pochino.
La faccenda andò come tutte le altre volte. Presi il libro, lessi la prima pagina, la seconda, lessi le prime dieci, il primo capitolo, il secondo, tornai all’indice per vedere se ci fosse dell’altro, lessi dei capitoli a caso, poi chiusi il libro e mi domandai ancora una volta se non era fosse stato il caso di iscrivermi ad ingegneria come dicevano i miei.
Ora, avevo una mia vita (e anche qui si potrebbero aprire delle parentesi...), e sicuramente non avevo riposto tutte le mie speranze da futuro psicologo in “Psicologia dell’Ospedale”. Ma non mi aspettavo di trovarmi davanti quello che in effetti mi ritrovai: un testo tutto incentrato sul concetto che il malato è un congegno rotto che fa riaggiustato e poi risbattuto a calci in culo fuori così che se lo posso fare ben bene il culo al posto di lavoro. In alcune parti di quel prestigioso tomo, anzi, sembrava quasi che il malato fosse una specie di simulatore, uno che tirava a fregava la mutua, uno scroccone parassita che non voleva saperne di sgobbare e che si inventava chissà quali malattie per non fare niente. sfogliavo le pagine, senza sapere se ridere o incazzarmi. sfortu natamente non ricordo più l’autore del libro. La sua prospettiva, però, era chiarissima: era scritto dalla parte dei padroni, di quelli che se lo schiavo si ammala imprecano e sputano per terra perchè stanno perdendo tempo e soldi e lo devono pure fare rattoppare, e se farlo rattoppare poi gli costa troppo lo buttano e se ne comprano uno nuovo.
(A tal proposito apro una parentesi graffa a mia volta per riaffermare il proposito di scrivere un giorno un libro sui padroni, le loro rappresentazioni mentali, i loro desideri, il loro pensare. “Psicologia del Ducetto” potrebbe essere un’idea per un titolo, ma sono aperto a tutto. Si indagherà su fenomeni conosciuti ai più, come il fatto che in ogni posto di lavoro il capo è sempre riconoscibile perchè è la persona che lavora di meno e si lamenta di più del lavoro che fa).
Questa la Psicologia dell’Ospedale. Un’enorme kafkiana catena di montaggio dove il tizio entrava malato (perchè? Era davvero malato? Fingeva? E anche se fosse? E se davvero aveva bisogno di riposo? Qualcuno glielo ha chiesto? Che cazzo, ma fatelo respirare), e doveva uscire sano ma NON per il suo bene, oh no no no, mica cazzi, eh che siamo in convento?, qua si lavora per la SCIENZA con la i, no, usciva sano per essere di nuovo funzionale e UTILE alla società e al MONDO DEL LAVORO. Ah! Beccato!
Insomma, il tizio non ha il tempo nemmeno di togliersi le flebo e staccarsi i cerotti che già la campanella lo richiama al chiodo. Da qua non scappi bello mio, che credevi? Te la sei fatta la bella vacanza lì, tra puzza di disinfettante, cessi luridi, infermiere dal culo duro e dottori scazzati?adesso si ritorna, caro.
Lessi e rilessi il libro, cercando di capire dove fosse la Psicologia lì. Doveva pur esserci, da qualche parte. Ci avevano fatto comprare il libro, qualcuno lo aveva messo nel programma, qualcuno addirittura forse ce lo avrebbe anche chiesto all’esame (non successe). Qual’era la lezione, lì?
Presi il libro, lo chiusi. La lezione era che forse per una volta nella loro vita i miei avevano ragione. Che psicologia non aveva ancora una volta deluso le aspettative. Che l’unico a guadagnarci lì era stato l’editore.
Mandai tutto a memoria, ricordando tutto senza imparare niente. ero anch’io pronto per essere funzionale e UTILE alla società e al mondo del lavoro.

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