domenica 30 aprile 2017

Il materassino (racconto)


Parcheggiò la macchina e la sua vita in un luogo in cui non si sarebbe mai voluto trovare, non una domenica mattina di inizio agosto. Simone Paduli scese dall’auto col sudore che scorreva giù dai pochi capelli rimasti. Venticinque minuti –venticinque- solo per trovare un posto –e per tutto quei venticinque minuti Renata Paduli, sua consorte, non aveva smesso di lamentarsi pressapoco di qualunque cosa –il caldo, la folla, le macchine, i pedoni, l’ora, il giorno, il mese, l’anno. Eppure, ricordava Simone, era stata sua l’idea di andare in spiaggia. Lui avrebbe preferito mille volte restare a casa e riposarsi dopo quella settimana di merda. Ogni volta che ci ripensava, riusciva (unico momento) a sorprendersi di se stesso: come era finito a fare quel lavoro del cazzo insieme a quella gente del cazzo? Sembrava troppo persino per Simone Paduli. Ma la risposta in fondo la sapeva già, ed era, banalmente, una promozione a quadro dirigenziale. Così italiano medio, pensò. Ma quei soldi gli avrebbero fatto comodo. Una nuova auto, rinegoziare il mutuo, perfino una settimana bianca con Renata che gli teneva il muso per inverni interi, sperando e maledicendo. E invece...
«Non stai dimenticando niente?» chiese Renata.
«Cosa?»
«IL MATERASSINO, Simone! Il materassino di Federico!»
«Il materassino, sì, ho capito, che bisogno c’è di urlare?»
Federico stava già camminando verso la spiaggia, le piccole spalle volte verso di loro. Lo faceva sempre, si allontanava e poi Renata si sgolava per farlo tornare. Lui tornava, alla fine, con un sorrisetto e nessun senso di colpa.
Simone andò a prendere il materassino nel cofano. Non c’era una parte del suo corpo che non fosse sudata. Si mise sottobraccio il materassino e si avviò alla ricerca di Renata e Federico. La spiaggia era piena zeppa, non ci poteva muovere senza pestare qualcosa o qualcuno. Ovunque puzza di sudore e abbronzante, radio accese e chiacchiere impalpabili. Simone rischiò di bucarsi un occhio con un ombrellone. Alla fine trovò la moglie che stava schiaffeggiando il figlio nella schiena. Il figlio si sforzava di piangere senza riuscirci. Simone sistemò le asciugamano. Appena ebbe finito arrivò Renata.
«Perché le hai messe sulle pietre?» chiese.
«Pensavo…» cominciò, poi rimase zitto mentre lei le spostava un metro più in là, borbottando. Renata era arrabbiata, come sempre più spesso le succedeva. Simone era arrivato al punto che spesso le chiedeva scusa senza sapere bene perché. Lo faceva sentire come se stesse facendo sempre qualcosa di sbagliato. Inutile chiederle anche il motivo del suo umore, il dialogo ormai era ad una via. Persino quando, quella mattina, aveva parlato di andare al mare, non l‘aveva chiesto: l’aveva ordinato.
Il tutto si traduceva nel continuo e inutile tentativo da parte di Simone di fare arrabbiare Renata il meno possibile. Inutile, perchè ormai aveva capito che quello era il suo umore di default. Doveva limitarsi a camminare sulle uova, prevenendo ogni elemento che potesse irritarla ancora di più. Se poi osava dire una parola in sua difesa, chiedere, chiarire, era la fine. Renata si metteva a strillare e rinfacciare qualsiasi cosa, non importava se vera o meno. Non c’era modo di vincere quelle discussioni, quindi Simone preferiva star zitto. Inghiottiva, diceva di sì e abbassava la testa, fino alla sfuriata successiva.
E questo era quello che lo aspettava ogni giorno quando tornava da un lavoro che detestava.
Gli amici avevano anche smesso di chiedergli perché non sorridesse mai.
Si sdraiò sull’asciugamano. Renata indossava occhiali da sole e sentiva qualcosa con le cuffie.
Simone Paduli se ne restò un po’ lì, nel tentativo di riposarsi. Subito pensò: domani sarò di nuovo al lavoro. Questo è il mio giorno libero. Il sole gli dava fastidio, facendolo sudare ancora di più. Desiderò ancora di essere rimasto a casa.
«Pa’, il materassino»
Chiuse gli occhi, sperando servisse a qualcosa.
«Pa’, IL MATERASSINO!»
Dio, pensò.
«Dammi cinque minuti, ok, Federico? Il tempo che mi riposo due secondi», e tornò giù.
«Papi, dài, IL MATERASSINO! VOGLIO FARE IL BAGNO!»
La voce stridula del figlio si unì a quella di tutti gli altri bagnanti. Una sola voce da unghie sulla lavagna, a strappargli via dallo stomaco ogni desiderio di pace.
Simone Paduli sbuffò, riaprì gli occhi e si tirò su.
«Ok, dammi quel cavolo di materassino e la pompa»
«Non ho la pompa» disse Federico.
«Come no? Ti avevo detto di prenderla dalla macchina!»
«Non mi hai detto niente» disse Federico.
Per un secondo Simone guardò suo figlio, i capelli biondi, le lentiggini, le braccia magre, ed ebbe voglia di assestargli un calcio in culo. Non gli restò invece altro che incamminarsi di nuovo verso la macchina, attraversando quella giungla incomprensibile di corpi sudati e ombrelloni. Col figlio non c’era nessun tipo di dialogo. Simone Paduli, in fondo, non aveva mai realmente voluto essere padre, ma quando era successo aveva pensato che avrebbe fatto del suo meglio. Adesso il figlio gli parlava solo per chiedergli qualcosa. Era l’arma in più di Renata, il movente supremo per tutte le sue crisi isteriche. Ancora una volta, Simone preferiva evitare la guerra e dire di sì. Era facile dire di sì.
Forse troppo facile.
Andò alla macchina, prese la pompa, tornò alle asciugamani. Renata ascoltava ancora la musica. Il figlio si era allontanato di nuovo. Simone attaccò la pompa al materassino. Era una di quelle pompe in cui si schiaccia un pedale migliaia di volte e il materassino si gonfia. Simone cominciò a schiacciare il pedale. La sabbia non faceva presa e ogni tanto la pompa gli scappava da sotto i piedi. Il figlio non si vedeva. Continuò a pompare, sentendosi un coglione a farlo lì, sotto il sole, sudando come una fontana.
Ci impiegò dieci minuti. Federico arrivò nell’esatto momento in cui Simone aveva finito.
«Grazie» disse con un angolo della bocca, poi afferrò il materassino ma era troppo pesante per lui. Era un materassino matrimoniale, in tela. Renata l’aveva voluto così. Simone pensava che per Federico bastasse quello piccolo. Non aveva protestato.
Aveva pagato e basta.
«Mi aiuti?» disse il ragazzino.
Simone sbuffò, si chinò a prendere il materassino e lo portò in acqua.
Finalmente riuscì a sdraiarsi per cinque minuti. Era così stanco che si stava quasi per addormentare, ma il sole era troppo caldo. Avrebbe voluto portare un ombrellone, ma Renata aveva detto che avrebbe ingombrato troppo. Non più di un materassino di due metri per tre, aveva pensato Simone senza dirlo.
Continuava a sudare. La gente intorno era impossibile da guardare, sudata e compiaciuta di qualcosa che sembrava terribilmente sbagliato. Contenta senza motivo per esserlo. Si sentiva insofferente. Avrebbe voluto parlare con Renata, magari anche sfogarsi un poco, ma era impossibile. Un tempo facevano delle lunghe chiacchierate a letto. Parlavano di tutto. Adesso ci dormivano e basta.
Renata non era più la stessa nemmeno fisicamente. Non che fosse ingrassata o altro, ma l’eterna incazzatura le aveva fatto perdete quella bellezza naturale che aveva un tempo.
Simone si mise a sedere sull’asciugamano guardandosi in giro. Non riusciva a smettere di pensare al lavoro. Una volta svanita la promozione –che era stata solo un’esca adatta per un allocco del suo calibro, ormai lo sapeva- era rimasto con in mano un lavoro che non voleva e dei colleghi che non sopportava.
E allora? Poteva andarsene, certo. Come no? Il mutuo, le bollette, il dentista per Federico, la palestra per Renata. Aveva convinto Renata, all’ultimo minuto, a non insistere per un viaggio durante le ferie estive, perché aveva paura di non farcela. Lei ne aveva fatto una scenata. Solo un mese prima aveva comprato un divano di pelle da 4.000 euro, senza consultarlo. Se l’avesse fatta lui, una cosa del genere… aveva i brividi solo a pensarci. E intanto però i quattromila doveva trovarli lui.
Così ogni nuovo conto era un chiodo in più, piantato sulla bara di quel che era diventata la sua vita. Si sprofondava un poco ogni giorno –non tanto, quel che bastava perchè, in breve tempo, risalire diventasse prima difficile e poi impossibile.
Simone si guardò intorno. Quanti erano come lui, incastrati e senza possibilità di fuga? Molti, forse tutti. Eppure sorridevano. Qualcuno lo avrebbe chiamato coraggio contro le avversità. Simone li detestava ancora di più.
Sospirò. In momenti come quello si malediceva per aver smesso di fumare.
«Dov’è Federico?» chiese Renata, risvegliandosi dal suo torpore.
«A mare, col materassino»
«Lo stai controllando?»
«Certo»
«Ah, ho parlato con Giorgia ieri. Lei e Enrico vanno in Sardegna, fra un paio di settimane» disse Renata. Si fermò un attimo, poi lo guardò. «Mi ha chiesto se volevamo andare con loro»
«Tesoro, ne abbiamo già parlato. Lo sai che adesso non è il momento migliore…»
«Per te non è mai il momento migliore» disse lei, girandosi su un fianco e rimettendosi le cuffie.
Le gioie del matrimonio, pensò Simone. Queste cose non te le dicono, quando vai all’altare. Colpa di quei maledetti film americani.
Era fatta. Sapeva che lei sarebbe rimasta arrabbiata con lui tutto il giorno. Ancora una volta Simone si sentì colpevole di qualcosa, senza sapere bene cosa.
Tornò al suo sole e ai suoi pensieri da ulcera. Pensò a Iacopo, il tizio che aveva preso quella promozione ed era diventato il suo capo. Mai visto qualcuno così poco qualificato, così pigro, così sprezzante in quel pur ragguardevole panorama umano che era il suo posto di lavoro, ma Iacopo li batteva davvero tutti. Quella promozione, per Simone, sarebbe stata la vacanza, il mutuo, la macchina –tutte cose che in fondo non voleva, ma non era questo l’importante.
Tutte cose che Renata voleva, ed era quello che contava.
Per questo odiava Iacopo.
No. Per questo odiava se stesso.
Federico arrivò bagnato.
«Dov’è il materassino?» gli chiese Renata.
«E’ troppo pesante per me. Fallo portare a papà»
Adesso non mi parlano nemmeno più direttamente, pensò Simone Paduli. Le gioie di avere una famiglia.
«Vai a prendere il materassino, prima che se lo porta via la corrente» disse Renata a Simone, con un tono che lasciava capire che comunque era ancora arrabbiata con lui.
Simone Paduli si alzò senza dire niente e andò verso il mare. Nonostante il caldo, non aveva alcuna intenzione di fare il bagno. Il materassino però si stava allontanando dalla riva. Simone mise un piede nell’acqua. Dio, non gliene fregava niente di quel cazzo di materassino. Federico l’aveva usato per... quanto? Cinque minuti? Ci aveva messo più lui a gonfiarlo. Perché non poteva lasciarlo alla corrente?
Si girò indietro, vide Renata che da lontano lo controllava, quindi mise anche l’altro piede a mollo. L’acqua era fredda. Prese un grande respiro e si tuffò. Era tutto un brivido, ma in qualche modo non era una sensazione troppo spiacevole. Sembrò anzi svegliarlo un poco. Riemerse e vide che il materassino si continuava ad allontanare, così cominciò a nuotare verso di esso. Più nuotava più il materassino schizzava via veloce, spinto da correnti beffarde.
Alla fine lo raggiunse. Stanco, ci si aggrappò con le braccia, appoggiando la testa sulla tela. Era piacevole stare così. Decise di riposarsi un attimo in quel modo. Chiuse gli occhi, co metà corpo sospeso in acqua. Si sentiva meglio, molto meglio. Li riaprì, e capì anche perché: non c’era nessuno intorno, nessuna voce, nessuno. Era un black-out temporaneo che apprezzò molto. Si rese però conto che si era allontanato molto dalla riva.
Ancora aggrappato per metà al materassino, con le sole gambe in acqua, cominciò a nuotare verso la riva. Era molto faticoso perché la corrente era forte, e il materassino pesante. La sensazione piacevole svanì. Ricominciò a sudare.
Mentre sbatteva le gambe in acqua gli venne in mente che Iacopo lo aspettava in ufficio il giorno dopo, con le sue storie stupide e i suoi modi arroganti. Subito dopo pensò a Renata che lo aspettava lì sull’asciugamano, arrabbiata perché non guadagnava abbastanza, perché non era bravo abbastanza. La sua faccia rabbiosa si unì a quelle della gente della spiaggia, volti deformati dalle preoccupazioni, dalle sconfitte, dalle necessità per niente necessarie, vittime pronte a diventare carnefici in un’istante. Mille pensieri vorticavano nella testa di Simone Paduli. Cose da fare, scadenze, pagamenti, rate. Gestire i rapporti all’ufficio, e tornare sano a casa. Gestire i rapporti a casa, e tornare sano all’ufficio.
Si fermò per riposarsi un attimo. Questo materassino è enorme, pensò Simone. Decisamente troppo per Federico. Ah già, anche Federico. Simone salì sul materassino per intero e si sdraiò. La tela era gradevole al tatto, e le onde muovevano piano il materassino in su e in giù. Il sole gli arrivava addosso, senza essere più troppo caldo.
Tornò la sensazione piacevole di prima, stavolta ancora più forte. Sapeva che si stava allontanando velocemente dalla riva, e non gliene importava niente. Mise una mano in acqua. La corrente lo portava via velocemente. Guardò il cielo per un attimo, poi chiuse gli occhi.



Marco Zangari © 2008
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giovedì 20 aprile 2017

"Il mestiere dello scrittore" - Murakami Haruki


Desideravo semplicemente scrivere qualcosa che riflettesse quello che avevo dentro di me. Era una sensazione molto forte che non lasciava spazio ad altro, così mi sono messo seduto al tavolo senza pensare al prima e al dopo, e mi sono messo al lavoro. E mentre scrivevo mi divertivo, provavo una naturale sensazione di libertà.

Ancora una volta in ritardo con le recensioni e con una lunga lista da smaltire, ricomincio da “Il mestiere dello scrittore” di Murakami (Einaudi). Come ben sapete, ho una predilezione per l’autore giapponese, e occupandomi io stesso di scrittura (con risultati decisamente diversi), non potevo farmi scappare questa sorta di manualetto dedicato a tutti gli aspiranti scrittori.
Nonostante si tratti di non-fiction, anche questo libro di Murakami, come gli altri suoi, scorre velocemente e utilizza un linguaggio semplice e diretto, che rende la lettura decisamente piacevole. Nel “Mestiere”, Murakami spiega appunto come e perchè si è accostato alla narrativa –e lo fa con un candore tale che ti fa quasi incazzare. Mentre ogni aspirante romanziere si lambicca il cervello, si prepara alla prima opera talmente tanto che a volte non la completa mai (o nemmeno la comincia, se è per questo) perché non sembra mai il “tentativo buono”, Murakami racconta come, un bel giorno, si è seduto al tavolo della cucina e ha buttato giù il primo romanzo. Non aveva mai sognato di diventare scrittore, non aveva mai fatto alcuno studio in tal senso, era solo un buon lettore e niente di più; poi, un giorno, era arrivata questa spinta, inaspettata quanto naturale, e il primo romanzo era venuto fuori.
Insomma, il buon Haruki la fa così facile che verrebbe voglia di sbatterti la testa al muro, tu che hai bruciato notti e diottrie dietro l’idea giusta. Ma come si fa ad arrabbiarsi con Murakami?
Il libro diventa una sorta di guida per scrittori, ma può essere indiorizzata anche a chi ama i libri di Murakami, perché il volume è pieno di riferimento ai suoi romanzi, a come sono nati, alle circostanze biografiche che li hanno accompagnati. Lo stile semplice e rigoroso dell’autore sembra, appunto, così semplice, che quasi ti stupisci che non lo faccia qualunque scrittore –te compreso.
Poi ti ricordi dei cento demoni e delle mille tentazioni giornaliere che ogni essere umano, scrittore o meno, si porta dietro, e che non c’è niente di semplice. Gli orari fissi di Murakami, le dieci pagina da produrre ogni giorno (e al diavolo l’ispirazione), non sono da dare per scontati. La vita dello scrittore, come ribadito anche qui, è solitaria, faticosa, ripetitiva fino all’autismo. Quando poi si completa il proprio lavoro, si apre la porta di casa e si aspettano le critiche.
Ecco perché la gente preferisce partecipare ai reality show piuttosto che scrivere.
Un consiglio che ho trovato molto interessante, personalmente, è stato quello riguardo l’esercizio fisico: Murakami, infatti, da tanti anni si è imposto di correre almeno un’ora al giorno, con qualunque tempo e umore (sulla corsa ci ha pure scritto un libro). Pur essendo un’aspirante campioni per i mondiali di Pigrizia, ho da poco cominciato anch’io a intervallare le sedute al computer con corsa e pesi, e devo dire che aiuta parecchio –sia perché rappresenta uno sfogo importante, dopo una giornata da monaco benedettino, sia perché aiuta a sentirti meglio –e ne hai bisogno, quando ti immergi in quel mondo di parole che rischiano di travolgerti dietro ogni angolo.
Libro consigliato agli appassionati di Murakami, che troveranno l’ennesima lettura scorrevole, e consigliatissimo agli aspiranti scrittori (ancora meglio se fan dell’autore giapponese).

Dello stesso autore ho recensito:

Uomini senza donne;
L’incolore Tazako Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio;
Kafka sulla spiaggia;
-L'elefante scomparso e altri racconti.

Marco Zangari
www.marcozangari.it

martedì 11 aprile 2017

L'inverno arriva per tutti


Questa mattina sono uscito in giardino ed era lì. Il cielo basso, costretto da nuvole grigie in uno spazio senza respiro, nuvole frustate da un vento adatto a spingere galeoni alla scoperta del mondo e a farci sentire nudi, infreddoliti, nella nostra vita dove tutto ormai è stato scoperto, conquistato e infine rovinato.
L’inverno è arrivato anche qui, in questa parte di mondo al contrario.
Lo aspettavamo, e ne siamo sempre sorpresi. Non io, però, non stavolta. Quando l’inverno te lo porti appresso, in una serie di momenti e umori che non riesci a scrollarti di dosso nemmeno ai tropici, quel cielo è solo una conferma.
Sono rimasto a fissarlo a lungo, mentre il cane cercava il suo angolo per pisciare e poi andava a inseguire foglie e farfalle che erano state ingannate dal calendario. Mi piaceva, quel cielo. I miei ricordi più belli sono legati all’estate, la primavera è sempre stata un’occasione per dare una seconda opportunità ai posti in cui vivevo, degli umori dell’autunno ho già scritto.
L’inverno è onesto. Ti dice le cose come stanno, senza contare sui riflettori del sole per strappare un applauso facile. E’ sconveniente, impopolare, malvoluto –come tutte le verità alla loro prima apparizione. E’ democratico, perchè non guarda in faccia nessuno, e tutti si beccano la loro porzione di gelo, che se la siano meritata oppure no. L’estate ti costringe a uscire, a misurarti col mondo; l’inverno ti riporta al punto di partenza, lì dove hai lasciato tutti i conti in sospeso.
L’estate è una promessa che raramente viene mantenuta.
L’inverno viene a riscuotere le nostre puntate giocate male.
L’estate è per pochi.
L’inverno, invece, arriva per tutti.
Arriva anche qui a Sydney, la città che ha eretto la spensieratezza forzata a legge, ed esclude con violenza tutti coloro che non vogliono o non sanno partecipare al suo eterno trenino. Anche in questa città, dove il sabato sera tutti sembrano vestiti per andare ad una festa in cui tu sei l’unico non invitato. Niente può farti sentire solo come un luogo dove tutti sono amici e non possono fare altro che ridere e godere il momento.
Ti frega, Sydney, perchè ti fa firmare un contratto in un giorno di sole, ti dice che tutto è facile, così facile. E allora perchè a te riesce tutto così dannatamente difficile?

I social media sono diventati il nuovo strumento per livellare l’umore, per indirizzarli tutti verso un ideale, utopico benessere che nessuno, in fondo, raggiunge mai, e tutti soffrono per non riuscire a farcela. E’ uno sgomitare, una corsa l’uno sull’altro per arrivare alla totale piattezza emotiva fatta di sorrisi, mare, amici, feste, luci, vacanze, tramonti. Partecipiamo ad un rito che in realtà ci esclude ogni giorno, e ogni giorno abbiamo bisogno di inventarci delle nuove strade per la Felicità Condivisa.
In tutto questo, non c’è ovviamente spazio per l’inverno. Abbiamo escluso dalla nostra coscienza tutto ciò che è negativo. Essere tristi è un lusso che non ci possiamo piu permettere. Sentirsi giù –ma giù davvero, non la ricerca di attenzione che pure abbonda nella vita e nei social (c’è ancora distinzione?)- è un marchio infamante, un disturbo per pochi, una menomazione da cui ci teniamo alla larga. Non guardandola, eviteremo di esserlo a nostra volta –e forse, piano piano, dimenticheremo che in fondo lo siamo anche noi, in una forma o nell’altra. Perchè non può esistere lo stare bene senza lo stare male, e non è questione di religione, o di scritte ispirazionali sul nostro Facebook. Eppure, quella parte non esiste. Non sappiamo più cosa dire a chi si sente giù, a chi sta vivendo un inverno troppo lungo, e allora non diciamo niente. Smettiamo di comunicare. Tirati su. Sorridi, dai. Ti chiamo, uno di questi giorni.
L’imbarazzo che si prova ad un funerale, ma la persona davanti a te è viva. Non ha bisogno di niente, o almeno, non delle cose che pensi tu. Faresti prima a chiederglielo, ma preferisci immaginare il peggio, e questo ti zittisce ancora prima di cominciare. E poi, c’è la grande Festa alla quale dobbiamo tornare. Il grande progetto al quale stiamo lavorando, non abbiamo tempo, mi spiace, la prossima volta sicuro. Continuiamo a credere che il senso di tutto sia in una spiaggia d’estate, col sole, il mare cristallino e nessun pensiero – eppure quella stessa spiaggia d’inverno, col mare in tempesta e l’orizzonte verde, fuso con il cielo, sarebbe molto più veritiero.
Sarebbe molto più reale.
Per questo apprezzo di più le persone con volti interessanti, uomini e donne che si portano in viso il segno delle guerre che hanno combattuto. Non parlo di quelle barbe del cazzo da hipster, nè di piercing o trucchi. Parlo di gente che si porta impressa nello sguardo ogni battaglia, che ha inciso sulla pelle i mille inverni del cuore, e rughe intorno agli occhi per un sorriso che riscalda dentro. Sono persone con delle storie, persone che hanno abbracciato le loro nuvole, che non si sono lasciate abbattere –o magari l’hanno fatto, ma sono rimaste comunque a vedere come andava a finire.
L’inverno, per loro, è un ritorno a casa, ma non perchè siano persone tristi o negative. Sentono ancora, a volte sentono di più, e non riescono o non vogliono raccontarsi altre bugie. Sanno che il benessere non arriverà da un giorno di sole, e allora ne cercano uno loro, privato, a misura. Non sempre arriva, ma loro ci contano sempre, inverno o non inverno.
Sanno che l’inverno è lungo. Per questo stringono i denti, si coprono, si preparano. Forse passeranno anche questa.
Sono pronti.
Quando torno in giardino, un timido sole si sta affacciando in mezzo alle nuvole, in questo mondo battuto dal vento. Lo guardo per un attimo, poi torno in casa.
Sono pronto.


Marco Zangari © 2017

mercoledì 5 aprile 2017

Destino


destino di gatto
steso al sole
di ossa lasciate
ad asciugare

di calendario
costretto a saltare
i giorni buoni

di furti ai galeoni
sotto stelle vere e finte
con le guardie già pronte
in spiagge notturne

destino di barchetta
carica di tesori nella penombra
e un oscillare
un oscillare tale
che il naufragio sembra
l’unico
destino possibile.


Marco Zangari © 2017
www.marcozangari.it

lunedì 3 aprile 2017

"Non è successo niente" - Tiziano Sclavi


Se dovessi amare il mio prossimo come me stesso, sarei un serial killer.

Partiamo dal presupposto che quando parlo di Tiziano Sclavi, non posso essere imparziale. Ammetto di essere un fan di Dylan Dog della prima ora –quello quando ogni storia era un capolavoro, che già cominciavi a innamorartene dalla copertina appesa all’edicola in quell’appuntamento mensile che era un piacere che non tornerà più. Sclavi non aveva creato solo un personaggio che funzionava o delle atmosfere azzeccate: aveva creato un genere completamente nuovo, qualcosa che non c’era prima in Italia. Prima delle graphic novel e delle nuove ondate di fumettisti, è stato lui a dare una dignità letteraria ai fumetti, con storie ben congegnate, piene di humour (nero o bianco), un intero mondo che respirava e che per noi lettori era diventata una seconda casa.
Poche chiacchiere: non posso non voler bene a Tiziano.
E non si può, di conseguenza, non voler bene anche a questo “Non è successo niente” (Mondadori), romanzo del 1997 che riprende temi, storie e personaggi collegati in qualche modo all’esperienza di Dylan Dog (che nel libro diventa il controverso fumetto “Daryl Zed”).
Il romanzo segue, infatti, alcuni personaggi, con vicende apparentemente slegate all’inizio, e intrecciate con alcune pagine di un possibile seguito di “Dellamorte Dellamore” (best-seller di Sclavi e ispirazione per Dylan Dog, portato anche sul grande schermo in un film che rivedo sempre molto volentieri).
E se i personaggi di Tom l’acolizzato e Cohan il nevrotico sembrano entrambi richiamare a Sclavi stesso, nel libro si possono riconoscere tanti personaggi legati al mondo di Dylan Dog, dall’editore Bonelli a editor, sceneggiatori, fumettisti –tutta gente che i lettori patiti di DYD hanno imparato a conoscere col tempo. Il romanzo, in qualche misura, fornisce una sorta di dietro le quinte del mondo del fumetto, in un momento in cui la Bonelli era sulla cresta dell’onda con vendite incredibili. Sclavi sputtana con affetto i vari addetti ai lavori, in un’operazione che, invece di ridicolizzarli, li fa sentire ancora più umani e di famiglia (e tra l’altro scoprirete anche come nascevano le famigerate battute a raffica di Groucho).
Al di là di questo aspetto, che farà felici i fan di vecchia data, “Non è successo niente” è un romanzo davvero molto piacevole, pieno di riflessioni brillanti, ironia e personaggi ai quali finisci per affezionarti talmente tanto che vorresti poterli incontrare nella realtà. Sclavi rende benissimo i dialoghi, e il tutto è così verosimile dal diventare quasi il racconto che ti fa un amico riguardo alcuna gente che conosce –e un racconto credibile e divertente.
Intendiamoci: Sclavi tratta anche argomenti serissimi in questa storia, affrontando alcuni demoni personali come l’alcolismo. Nel degrado in cui è immerso Tom è facile vedere lo stesso Sclavi ai tempi in cui era schiavo del bere. Cohan, invece, rappresenta la “parte successiva”, lo Sclavi che ha superato la dipendenza e ora si trova a combattere le proprie nevrosi, supportato/sopportato dalla moglie. In generale, i personaggi del romanzo sono talmente imbevuti in un mondo di paranoie, di nevrosi e di depressioni, che leggerlo potrà farvi sentire bene per riflesso. Tom, Cohan e gli altri non capiscono il mondo e non vogliono capirlo (uno dei personaggi ha una filosofia sintetizzabile nella frase: non me ne frega un cazzo), e quando devono averci a che fare, usano l’ironia per restare a galla.
Con mia grande sorpresa, il romanzo non ebbe il successo previsto, portando Sclavi ad allontanarsi ancora una volta dalla parola scritta (prima di abbandonare anche, seppur temporaneamente, il fumetto). Il che è un vero peccato, perché “Non è successo niente” è stato per me uno di quei libri che leggi di slancio, che ti porti dietro anche nei 5 minuti libri che ti riesci a ritagliare qui e lì, non tanto o non solo perché vuoi sapere come va a finire, ma perché è un libro che finisce per tenerti compagnia –il che, credo, sia un risultato eccezionale per un autore.
Se vi piaceva Dylan Dog, vi piacerà anche questo libro. Se non vi piaceva, vi prenderà lo stesso –e lo rileggerete tra qualche tempo, garantito.

Marco
www.marcozangari.it