venerdì 31 ottobre 2014

"I racconti dell'Ohio", Sherwood Anderson

La maestra cercava di far capire al ragazzo l’idea delle difficoltà che si sarebbero presentate come scrittore. «Dovrai conoscere la vita», affermò, e la voce le tremava per l’emozione. E preso George Willard per le spalle lo girò in modo che potesse guardarla negli occhi. «Se vuoi diventare uno scrittore, devi smetterla di giocare con le parole» spiegò. «Sarebbe forse meglio abbandonare l’idea finchè non sarai più preparato. Ora è tempo di vivere. Non voglio spaventarti, ma vorrei farti capire l’importanza di quello che stai per intraprendere. Non devi diventare un venditore ambulante di parole. L’importante è imparare a conoscere cosa la gente ha in mente, non quello che dice"

Ero arrivato a leggere “Winesburg, Ohio” (in italiano “I racconti dell’Ohio”) di Sherwood Anderson, con molte aspettative. Era considerato un classico della letteratura americana, tanto da essere stato preso come esempio, tra gli altri, da Hemingway per il suo ciclo di racconti. Di solito odio questo approccio ai libri, perchè rischia di rovinarli ancora prima di iniziare. Eppure, personalmente, questo ha retto alla sua fama.
Avevo cominciato a leggerlo molti anni fa, al mio arrivo in Australia, dopo averlo scovato in una biblioteca pubblica. Purtroppo il mio inglese non era ancora abbastanza buono, e dopo aver visto che la lettura non filava, avevo abbandonato.
Ci ho riprovato in italiano, e confermo che la scrittura non è di quelle che scorrono via pagina dopo pagina. Non che sia un linguaggio ampolloso o troppo ricercato, ma risente un po’ delle numerose descrizioni, sia dei personaggi che dell’ambiente che li circonda, e qua e là mostra i suoi ormai 100 anni da quando è stato pubblicato. Detto questo, è comunque un linguaggio molto ricco, suggestivo, che si fa perdonare qualche aggettivo di troppo con la sensazione di esserci passato anche tu, alla fine, per la piccola Winesburg.
Il libro è formato da una serie di racconti che seguono le storie degli abitanti di un piccolo paesino dell’Ohio, all’inizio del secolo scorso. Le storie si intrecciano le une con le altre, i personaggi tornano anche in racconti successivi, ricordando vagamente l’ “Antalogia di Spoon River” di Lee Masters, scritto in tempi simili al libro di Anderson. Avendo come personaggio principale il giovane George Willard, unico giornalista del paese che aspira a lasciare tutto per diventare qualcuno in una grande città e magari, un giorno, anche uno scrittore, seguiamo la storia degli abitanti di questa cittadina attraverso le loro vicissitudini personali e gli eventi storici che da lontano vengono ad influire anche su una cittadina sperduta nel nulla. La Grande Guerra è alle porte e il paesino, da sempre abituato a ritmi semplici, subisce gli effetti dell’industrializzazione che piano piano sta cambiando la fisionomia della città, con gli abitanti che sono al bivio tra il restare agganciato alla vita nella quale sono cresciuti, o fare il grande salto dentro un’epoca che comincia a muoversi veloce, e che da lì in poi non si fermerà più.
Ad una descrizione idilliaca, a volte un po’ datata, della natura circostante (che tradisce lo stesso amore che Anderson doveva avere per i luoghi in cui è cresciuto), fanno da contrasto le storie degli abitanti, un po’ diverse da quelle narrate da altri scrittori dell’epoca. Ad un panorama fatto di tramonti puri e cieli cristallini rispondono uomini e donne che fanno i conti con i loro vizi, con la loro solitudine, con le loro incomprensioni e lotte. Anderson non vuole dipingere un quadretto lirico per noi, spacciandoci i suoi personaggi per onesta gente che lavora la terra ed è felice così. Nelle sue storie ci sono ubriaconi, mogli insoddisfatte, bigotti fuori di testa e preti tentati dai piaceri della carne. I vecchi di Winesburg vivono di rimpianti, come se il loro momento fosse già passato, mentre i giovani sono confusi da quell’epoca di cambiamento, indecisi sul da farsi, preoccupati di non diventare come i loro genitori e incerti sulla strada da intraprendere.
Lo stesso protagonista, George, ci viene mostrato in maniera molto diversa a seconda del racconto e della prospettiva del personaggio di quella storia. Lo vediamo armato di buone intenzioni, schiacciato tra un padre ambizioso e una madre che ha rinunciato a vivere per farlo solo attraverso lui, ma altri personaggi lo vedono come pieno di sè, o stupido, o completamente incapace. Come nella realtà, i giudizi della gente di paese sono taglienti e lasciano cicatrici per la vita addosso alle persone. Perfino l'amore ha difficoltà a venir fuori, a poter essere vissuto con naturalezza.
Dietro George si può intravedere l’autore, che non si nasconde nè glorifica ma trasmette le sue insicurezze, il suo tentennare davanti ai bivi importanti.
Lo si vede, soprattutto, quando George decide di fare il grande salto e partire per la Grande Città. L’eccitazione e la tristezza che si mischiano e confondono fino ad annebbiare la mente mentre si dirige verso la stazione per prendere l’ultimo treno. In quel momento ricorda cose piccole, quasi incomprensibili, come il vecchio pazzo che ogni sera passava dalla strada principale del paese con una carriola e delle assi in bilico –come se l’anima stessa del paesino fosse tutta lì, così come la sua purezza. Chi, come me, ha lasciato da tempo il proprio luogo di nascita, si ritroverà molto in queste ultime pagine, nei ricordi che George deciderà di portare con sè, di cose piccole che però sono soltanto lì, e che probabilmente non ci saranno più al suo ritorno.
Salendo sul treno, George non assolve la città, così come non lo fa Anderson. Ma prima di cadere in un sonno pieno mentre il treno sta cominciando a muoversi, capisce che, al di là delle miserie di quel piccolo centro del mondo, delle sue solitudini, delle sue ingiustizie, c’era della bellezza diversa da quella solo di tramonti e primavere. Quello era anche il suo posto, e in qualche modo lo sarà sempre.

Consigliato a:
chi ama i classici americani, specialmente “Spoon River” e i racconti di Hemingway; chi è per le serie di racconti; chi, come George, è cresciuto in quel tipo di realtà, a prescindere che l’abbia amata o meno.


Marco

venerdì 3 ottobre 2014

Primavera dopo l'estate (dopo un lungo inverno)

Quando avevo mostrato il biglietto alla hostess, lei mi aveva indicato la rampa delle scale. Non avevo nemmeno fatto caso al fatto che ci fossero delle scale in quell’aereo. Qualcuno, con voce dolce e gentile, mi aveva indicato il mio posto, che era immenso e dotato di qualunque comfort, dal frigobar alla sedia massaggiante. Subito dopo era arrivata la mia hostess personale, e si era presentata. Si chiamava Helena ed era spagnola. Mi chiese dove stessi andando, e mi disse che quasi c’era andata anche lei una volta, come fanno le donne quando stanno flirtando. Poi mi chiese, sorridendo, se per caso poteva versarmi un bicchiere di champagne Veuve Clichot. La business class, pensai, è proprio un’altra cosa.
C’ero finito per caso, senza pagare, e di sicuro non ci sarei capitato mai più, ma proprio per questo mi godevo quella sensazione di tizio fuoriposto che per una volta è riuscito a scalare i muri di cinta e a sedersi alla tavolata dei signori. Finchè non mi scoprivano, andava tutto bene. Ordinai un Rusty Nail e pensai a quello che una volta De Andrè, dopo un concerto a Reggio, aveva detto al padre di un mio amico, che gli aveva chiesto com’era tutta quella faccenda di esibirsi e cantare sempre in posti diversi. “Alla fine ti senti come un pacco postale”, aveva detto lui.
Io non mi esibivo, non cantavo e raramente dicevo cose eterne (quasi mai da sobrio), eppure viaggiavo molto anch’io e potevo capire quella sensazione. Quella di essere tirati da una parte all’altra, a volte anche controvoglia, senza molte possibilità di avere un punto fisso, stabile, e nemmeno di capire a cosa si appartiene –o meglio, a quale parte. Interrompi la tua vita e ne riprendi un’altra più o meno da dove l’avevi lasciata, e mentre stai vivendo quella, quasi ti dimentichi che ne avevi un’altra prima. Chiaro che si può fare confusione, e qualcuno di noi pacchi postali a volte non la prende bene. Io ho cercato di farmi piacere questo andirivieni, o forse solo a non oppormi, a lasciar fluire la corrente e vedere poi dove andasse a finire. La vita da pacco postale ha parecchi svantaggi, ma io ci ho visto anche una possibilità: quello di evadere temporaneamente dalla tua esistenza quotidiana (che sia qui o lì, non importa), e sapere che hai questa via di fuga se le cose cominciano a bruciare. E inoltre, quando sei da una parte, puoi guardare all’altra in una maniera più obiettiva, onesta, come non faresti mai se ci fossi immerso ogni giorno. Fai il punto ogni volta, ed è qualcosa che molti non possono fare, rapiti dalla corrente che risucchia giorni ed energie, finchè rialzi la testa dalla scrivania e ti rendi conto che è di nuovo inverno.
Io l’inverno lo stavo lasciando dietro. Ordinai un altro drink e pensai che ogni tanto anche i pacchi postali riescono a sorridere.
Non so perchè, ma ogni volta che torno a casa in Sicilia, nelle prime 12 ore c’è tutto: racconti, risate, litigi, giochi, discorsi seri, scazzi, abbracci e albe storte.
I giorni seguenti non fanno altro che seguire questo modello.
Non è mai una vacanza quando si torna a casa, e penso che questo valga per tutti. A partire dalla mattina dopo, ancora prima di aver smaltito il jetlag, la tua vecchia vita ti torna addosso come una tuta comoda ma che per qualche motivo pensavi non avresti indossato più, mentre la tua vita di là si mette tranquilla ad attendere insieme a valigie e passaporti.
No, non è una vacanza per i pacchi postali. C’è da rivedere tutti, e rivederli bene. Non vado mai in posti nuovi quando torno. Ci metto già abbastanza a ritrovare quelli vecchi, e con essi le persone che ho lasciato e che non mi dimenticano mai. Rivedere bene qualcuno vuol dire sedersi, lasciar perdere i cosa-hai-fatto-quest’anno, guardarsi bene e capire cosa è cambiato e cosa è restato. Quei momenti in cui ti stupisci della rapidità di invecchiamento di alcuni, e ti rallegri per altri che invece sono riusciti a conservare quel qualcosa anche dopo venti e tempeste, e sono sempre lì pronti a fartelo vedere. I discorsi interrotti che vengono ripresi, arricchiti. Vuoi accontentare tutti, pur sapendo che non ci riuscirai mai. Vuoi poter fare tutto, sapendo che il tempo non ti basterà.
E allora? Allora corri, ti sbatti, vivi giornate la cui intensità copre la pigrizia degli ultimi mesi invernali dall’altra parte del mondo, e alla fine di tutto questo ti godi quel che resta di quest’estate che non hai mai lasciato del tutto, e che per te assume un significato che per coloro che non sono mai stati pacchi postali, non ha più.
E quando guardi il tuo mare per l’ultima volta, in un settembre che già parla di partenze e conti da fare, dimentichi lo stress degli ultimi giorni, lasci perdere liste di cose da fare, cerchi di mettere da parte quello stupore che ti prende sempre alla gola nel constatare come il giorno del tuo arrivo sembra sempre troppo vicino a quello dei saluti finali, e ti concentri su quelle onde che aspetteranno la tua prossima estate.
La aspetteranno sempre.
Soltanto dopo che ho lasciato le valigie nella minuscola stanza d’albergo ed io e Rosanna ci siamo seduti in uno dei tanti bistrot all’aperto nei viali alberati della Rive Gauche, mi sono reso conto di quanto mi è diventata familiare Parigi. Attenzione: non ne ho girato che una minima parte (anche qui continuo a tornare negli stessi posti, è più forte di me), non ho mai passato più di 4-5 giorni di fila qui, non spiccico una parola di francese e non leggo mai le guide se non quando sono già tornato a casa.
Eppure è la quarta volta che mi trovo a tornare, e ancora una volta a distanza di otto anni esatti dall’ultima. Non so cosa voglia dire, e di sicuro non è stato voluto. Sentivo che dovevo tornarci e questo è quanto. Magari la cabala o la smorfia napoletana saprebbero dirmi di più. Trovo conforto in questo numero che si ripete, ci rivedo delle fasi della mia vita che sono passate e mi fa tenerezza rivederle mentre passeggio per i quay lungo la Senna e ritrovo panorami che mi hanno visto crescere.
Ci sono migliaia di ragioni per essere qui adesso, alcune le stesse dei milioni di turisti che affollano i boulevard e che mi risvegliano la gentofobia, altre tutte mie. Più delle attrazioni (che ci sono, e ti riempiono gli occhi come poco altro al mondo), mi piace girare senza meta, e vedere quello che puoi vedere solo qui.
Soltanto a Parigi, per esempio, puoi stare in una stanza d’albergo grande quanto il tuo armadio e trovarla perfetta –e in quell’armadio farci l’amore per ore, con la città che fa il tifo per te.
Soltanto a Parigi è accettato, anzi perfettamente normale, sedersi in un bistrot all’aperto anche di mattina e farti una bottiglia di rosso mentre fumi a tutto andare. Solo qui, se vedi qualcuno che beve al tavolo da solo, non sembra socialmente fuoriposto. I parigini sembrano solitari, al di sopra delle cose, come se se ne fregassero e col volto volessero costantamente dire “Embè?”. I parigini hanno belle facce tragiche, e anche quando brutti (e spesso lo sono, specie gli uomini) mantengono un fascino sordido e vissuto, un po’ stereotipo e un po’ dolore.
Parigi è città di grandi solitudini e anche di chi si beve la notte e ci balla sopra. L’umanità in mezzo a questi due estremi torce il collo, si appiglia a tutto e a volte resta schiacciata, persa nelle vastità di questo gigante enorme e spietato.
Nonostante tutto, Parigi riesce a restare umana, o almeno più umana di altre metropoli dove sono stato. Puoi viverti la tua vita. Puoi trovare un portiere di notte che non vede l’ora di sapere tutto quello che hai fatto e commentare con grandi sorrisi e complimenti in un inglese di base che basta a tutto. Puoi rivedere Jim, che mi aspetta ogni 8 anni e al quale ormai parlo da amico. Puoi girare per le strade del Quartiere Latino, entrare nei bar dove sedevano Hemingway e Fitzgerald, Picasso e Sartre e farti spennare per un bicchiere di vino, e anche in queste luccicanti trappole per turisti sederti un attimo e ripensare a chi si è seduto qui prima di te, immaginarti i loro discorsi sbronzi, le loro puttane e le loro aspirazioni, e sentirti piccolo per un po’, per poi rifugiarti nella libreria “Shakesperare & co.” di fronte a Notre Dame e ritrovare un amore per quel tempo e per l’arte che ti sembra di trovare fratelli perduti che vogliono svegliarti dalla tua realtà fatta di bollette, conti e piccole miserie quotidiane.
Ecco perchè ci torno ogni otto anni.
E anche per il vino, ovviamente. ‘Sti cazzo di francesi ci sanno fare.
A Roma non mi importano troppo monumenti e gite. Volevo che Rosanna vedesse l’altra mia casa, quella dove ho quasi dato di matto, che ho preso a calci, che ho odiato di cuore, e nella quale torno ogni volta come un figlio dal padre del quale ormai ha capito gli errori, e quasi li ha perdonati.
Da pacco postale, è stata una tappa importante. C’è qualcosa, nell’aria, nella gente, che non sento completamente mia, ma che mi manca se non la vivo per troppo tempo. Non saprei spiegarlo altrimenti. A Roma posso mettermi comodo, lasciar perdere tutte le stronzate, riempirmi occhi e pancia, farmi la solita sosta di ore alla Feltrinelli, bermi gli sguardi di Rosanna verso quel mondo che è stato il mio per tanto tempo, quando da pacco postale avevo molti meno francobolli, e poi prepararmi a salutare tutti, appena in tempo prima dell’arrivo dell’autunno. Ogni volta che vengo a Roma lascio dei vecchi me stesso in giro, come pelle vecchia che si stacca e che io resto a guardare per un’ultima volta prima di berci sopra e chiamare un taxi per l’aereoporto.

Quando torni a casa dopo un po’ di tempo, stenti a riconoscerla come casa tua. L’odore è familiare, i mobili sono lì che hanno aspettato pazientemente nell’oscurità e tu ti senti confuso, quasi fuoriposto. Metti da parte i vestiti da pacco postale che ha fatto il giro completo (e con 35.000 km alle spalle, direi anche un discreto giro), giri per le stanze e riassorbi quella vita che da domani già ti sembrerà normale. Mediti sul cosa fare prima di sederti fuori, in giardino. Si vede il fiume da qui. Non ha le onde come il mare che ho lasciato di là, eppure l’aria è cambiata in mia assenza. Si sente che l’inverno è finito anche da queste parti.
La mattina dopo salgo sul motorino, diretto al lavoro. Una parte di me è stranamente di buonumore, caricata delle energie raccolte in questo mese, da quelle giornate di “stress costruttivo”, come ormai lo definisco. Torno con nuova voglia di fare, con progetti (alcuni magari li discuterò qui sul Morgana), soprattutto con di nuovo il desiderio di sedermi ad una scrivania a scrivere, e questa è linfa vitale. L’altra parte di me è ancora incredula per questa primavera che mi passa dal casco, come se fosse ancora in viaggio. Ho paura della routine, di ricascarci, di perdere quel fuoco che in qualche modo ho riacceso. Ho paura del mediocre, dopo essermi ubriacato delle bellezze di Parigi e Roma. Mi metto in coda, aspetto, rispetto i limiti. Il sole ce la mette tutta, ma non riesco ancora a credergli. Tornare, per un pacco postale, non è mai facile.
Poi, lungo la strada, vedo questi due tizi che fanno promozione ad una palestra. Si mettono lì ogni mattina, uno a pedalare in una cyclette sul marciapiede, l’altro che regge un cartello a forma di freccia che indica l’uomo in cyclette, con sù scritto il nome della palestra. Ridono entrambi, rivolti verso gli automobolisti, e li salutano con finta allegria. Ci passo anch’io davanti. Nella versione romanzata di questa storia, ho tirato fuori il dito medio e ho proseguito.
Nella realtà li ho solo guardati per un attimo prima di accelerare, lasciarmeli dietro e inspirare primavera, facendo entrare dal casco tutto il sole che potevo.
E mi sono sentito subito meglio.