lunedì 23 novembre 2015

"Furore" (The Grapes of Wrath), John Steinbeck


“Calma”, disse Ma’. “Devi avere pazienza. Vedi, Tom… noi ci saremo pure quando loro non ci saranno più. Tom, noi siamo quelli che restano. Non riusciranno a spazzarci via. Noi siamo tosti, noi andiamo avanti”.
“E ci pigliamo un sacco di bastonate.”
“Lo so.” Ma’ ridacchiò. “Magari è quello a farci forti. I ricchi germogliano e muoiono, e hanno figli che non valgono niente, sono piante che appassiscono. Ma noi no, Tom: noi non possiamo finire. Sta’ tranquillo, Tom. Ora le cose cambiano”
“Come fai a saperlo?”
“Come non lo so, ma lo so”



Non credo che esista, nella critica letteraria (ma nella critica tutta, direi) una parola più sputtanata di capolavoro. Non vuol dire niente, fa pensare solo a fenomeni di mode e di consenso temporaneo di massa (più che al valore intrinseco del libro), e incastra l’opera una volta per tutte, estremizzando i giudizi tra chi la odia e chi la ama, ingombrando il campo di troppi pregiudizi che distorcono il giudizio.
Una volta mi tenevo bene alla larga da tutto ciò che fosse “capolavoro”. Adesso ho semplicemente imparato a fregarmene: dicano quel che vogliono, saprò poi io se mi è piaciuto o meno.
Anche per questo “Furore”, la parola “capolavoro” si è sprecata. Io non la userò, ma una cosa la posso dire: questo libro ci va maledettamente vicino (quantomeno al senso che do io a quella parola).
Sicuramente, questo libro ha qualcosa in comune con i classici: la capacità di restare attuale e vibrante anche a più di 80 anni dalla sua uscita.
L’ho cominciato a leggere senza sapere cosa aspettarmi, e mi sono stupito di quanto un’opera degli anni ’30, così “politica” nel senso più largo del termine, potesse essere ancora così attuale.
Se questo non è saperci fare con le parole, allora davvero non so cosa lo è.
“Furore” racconta del viaggio della famiglia Joad, costretta ad abbondare la propria terra in seguito alle tempeste di polvere che l’hanno resa incoltivabile, e andare con mezzi di fortuna verso l’Ovest, in California, attratta da lavori ben remunerati, pubblicizzati ovunque. Dopo aver familiarizzato con la famiglia Joad, ne seguiamo le vicende su un camion scalcinato che si inerpica per la Route 66, così diversa dalla strada leggendaria che il rock ci ha fatto conoscere.
Per strada insieme ai Joad, si trovano centinaia, migliaia di altri disperati, come loro costretti ad andare avanti, sempre avanti, perché non esiste più niente dietro. Tutta gente sradicata dal proprio posto nel mondo, dalle proprie abitudini, dai propri valori. Le tre generazioni di Joad imbarcate sul camion, oltre a subire le ristrettezze economiche e i disagi legati al lungo e incerto viaggio, vengono sconvolte fin nel loro nucleo da un cambiamento imposto dall’alto, da quelle banche che agiscono senza avere un volto, senza sporcarsi le mani, appropriandosi di terreni che non hanno mai neanche visto. Perché la narrazione di “Furore” segue due prospettive: quella dei Joad, appunto, e delle loro enormi difficoltà; e quello di chi quelle difficoltà le ha create, o ci ha lucrato sopra. Come tanti avvoltoi lanciati su questa gente costretta all’esilio, Steinbeck non risparmia nessuno: da chi ha comprato e venduto materiale scadente a questi disperati ricamandoci sopra delle fortune, alle banche, ai commercianti e ai poliziotti. Tutti si avventano su questa sciagura, riservandosene una fetta. E ai Joad, che devono subire soprusi su soprusi, non resta, appunto, che un furore che monta sempre di più –specie in Tom, che verrà immortalato decenni dopo anche in un famoso disco del “boss” Springsteen.
Steinbeck punta il dito su tutti coloro che hanno le mani sporche in questa vicenda, vuoi per profitto, vuoi per indifferenza, fino ad alimentare una guerra tra poveri, con migliaia di uomini costretti a lavorare per una miseria e la minaccia costante di essere mandati via, mettendo a rischio l’intera famiglia. Gli abitanti dell’Ovest arrivano a definire la gente come i Joad “Okie” in senso spregiativo, a temerli e discriminarli, a odiarli e tenerli alla larga, in una spirale che non fa che inasprire il conflitto e le condizioni già al limite della sopravvivenza.
Vi ricorda niente tutto questo?
Mentre leggevo, mi rendevo conto di quanto, rispetto ad allora, i nomi siano diversi, ma le dinamiche siano le stesse, intatte. Vi invito, a tal proposito, a leggere questo pezzo della mia amica Laura, pubblicato sulla Yellow House, sul parallelo tra gli Okie di allora e i migranti di oggi.
Steinbeck è bravissimo a far calare il lettore nella parte, a portarlo dal punto di vista dei Joad, a far sentire la loro frustrazione e la loro disperazione in un viaggio epico che a tratti assume toni biblici. Continuando nelle pagine di questo melodrammone, ci si sente in trappola come la famiglia Joad, che passa da una sfortuna all’altra, con i soldi che si esauriscono e le speranze che si consumano, fino alla scena finale dell’alluvione che ti fa sentire in trappola, al di là di ogni possibile salvezza.
Mi è anche piaciuto molto il ritratto che Steinbeck da dell’intera famiglia Joad, di come cambiano le dinamiche di potere, di come i ruoli vengono centrifugati e distrutti dalla macchina della Storia che non guarda in faccia nessuno.
“Furore” è un libro incredibile, denso di strati e significati, schierato dalla parte degli ultimi. Se, come sosteneva Calvino, “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”, l’opera di Steinbeck ci rientra assolutamente, con le sue domande che ancora oggi, nel 2015, rimangono senza una risposta decente.


Marco

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