giovedì 8 ottobre 2015

Giri larghi

Era stato un viaggio allucinante, sudato e stanco, schiacciato contro una madre con la figlia di 3 anni che non aveva smesso di piangere un secondo da Sydney a Dubai, tanto che mi sembrava di averla ancora nelle orecchie nel secondo volo fino a Roma. Avevo dormito un po’, avevo mangiato. Mi ero ritrovato a camminare con piedi pesanti tra i terminal, a togliermi le scarpe al metal detector fingendo lo stupore della prima volta, a pisciare giusto per abitudine, e per ingannare le enormi attese tra un volo e l’altro. Più che arrivato in Italia, mi sentivo sparato fuori da un inverno troppo lungo e troppo freddo.
Perfetto, allora, il passaggio a Roma al terminal per la Sicilia. Il sole di agosto mi ha sbrinato un po’ ossa e cervello, e la prima cosa che ho pensato è –eccomi in Italia da autore pubblicato. Marco Zangari, autore di Latinoaustraliana.
Mi sono guardato intorno, per capire se la cosa stesse avendo effetto sugli altri. Quando ho constatato che il mondo andava avanti benissimo anche senza quella informazione –il sole a cuocere pelli arrossite, i tassisti a fregare turisti, i turisti a farsi fregare, le coppie a riabbracciarsi sudate- mi sono tranquillizzato.
Ero tornato a casa.

Ognuno reagisce in maniera diversa. Non che capiti tutti i giorni di coronare un sogno inseguito da una vita –o da un arco di tempo che potresti definire considerevole. E chiaramente più tempo passa, più ci fantastichi sopra, aggiungi elementi, ti fai sempre più protagonista di questo film che sai benissimo che non uscirà mai nelle sale, e questo non ti ferma ma anzi ti dà la spregiudicatezza, l’impudenza dei sogni che non si avverano, il coraggio sfrontato di osare, di spingerti verso zone che non confesseresti mai a te stesso da sobrio. In fondo, se devi sognare, perchè non farlo in grande?
Poi certo, vedi gli occhi della gente che va al lavoro alle 8 di mattina, e capisci che non si possono/vogliono/riescono a concedere neanche più quello. Porti a spasso degli organi che si logorano e rompono sempre più finchè di te restano oggetti inutili in stanze affittate e aneddoti noiosi.
Io invece sognavo in grande. Ma forse sbaglio: non sognavo, io. Ci credevo, ecco. Fin da quando ho cominciato a imbrattare fogli, prima con la macchina da scrivere che si rompeva sempre, poi con pc che si impallavano puntualmente prima che potessi salvare, lo sapevo che sarebbe successo. Non fraintendetemi: non credevo certo di essere bravo. Più che altro, era una molla naturale, che mi spingeva a fare quello che stavo facendo –e che in fondo, forse non avrei fatto se non ci avessi creduto fin dalla prima riga che ho buttato giù.
«Se lo vuoi con forza, non è un sogno» diceva Walter nel Grande Lebowski.
E allora direi che no, non è un sogno.

Però –dicevo- ognuno la prende in maniera differente. Io sono stato così abituato a coltivare questa aspirazione dentro di me, nel silenzio, coi tempi e modi miei, così che quando è successo davvero, mi sono sentito spiazzato. Come quando passi una vita a fare air-guitar nella tua stanza davanti allo specchio, e poi all’improvviso ti sbattono su un palco VERO e tu devi farci i conti. Immagino ci sia chi si paralizza e non suona più una nota, e chi si innamora di quella situazione, e da quel palco non vorrebbe scendere più.
Io mi sono trovato forse in qualche punto tra i due, un po’ spaventato e un po’ goduto.
Con un largo sorriso idiota, mi sono guardato intorno, ho fatto finta di accordare la chitarra e ho pensato: e adesso che cazzo faccio?

C’è poi da dire che è una cosa che ha un certo impatto –per una volta positivo!- su di te, e praticamente nullo (o quasi) su chi ti circonda. Serve tanta palestra alle spalle, tante ore passate in una stanzetta a scrivere paragrafi immortali e prose penose. Se eri di quelli che già visualizzava la vetrina della Feltrinelli a Roma con la sua facciona, o magari già si preparava il discorso da leggere a Stoccolma prima del Nobel, la situazione poteva essere complicata.
Invece quello che hai davanti è un palchetto artigianale, col legno che quasi sembra cedere sotto i passi, e davanti hai un pubblico che (almeno all’inizio) è inferiore a quello che avevi per certi cenoni di Natale in casa.
Niente di che, a vederlo da fuori.
Meraviglioso, se lo chiedete a me.

È successo in radio. Un amico aveva organizzato tutto. In un afosissimo pomeriggio di fine agosto, mi ero trovato nella sede di una radio messinese. Facendo radio una volta a settimana qui a Sydney, mi sentivo moderatamente tranquillo.
Almeno finchè la ragazza che conduceva mi ha presentato dicendo il mio nome e aggiungendo SCRITTORE.
Cazzo. Quasi mi giravo per vedere con chi stava parlando.
E no, non è modestia. Conosco bene i miei meriti e le mie tare, e so che, di questo, posso essere orgoglioso. Ma lo stesso, non capivo con chi ce l’avesse la presentatrice. Potevo essere io? Mi ero visto in mille modi, ma quello proprio no.
Ma come, non avevi una visione fin dall’inizio?, direte voi (che proprio non ce la fate a farvi i vostri).
Sì, certo –ma un conto è sapere che prima o poi succederà, e farti guidare da questa forza.
Un conto è quando succede veramente.
Durante l’intervista abbiamo parlato di questo mio romanzetto (che voi del Morgana avete praticamente visto nascere, già nel lontano 2008), e quasi mi veniva voglia di proteggerlo fisicamente. Per la prima volta realizzavo che chiunque poteva avvicinarsi, punzecchiarlo, prenderlo in giro, smontarlo, indicarlo, farlo a pezzi sotto i colpi delle prime impressioni. Per un attimo ho pensato di riportarlo in una delle tante stanzette dove è stato composto, in notti e notti di caffè e dubbi e puro piacere –riportarlo dov’era nato e chiudere il mondo fuori.

Qualche giorno dopo c’è stata la presentazione in anteprima del libro a Messina. In fin dei conti ero felice che fosse lì, e che fosse in quel periodo. Da lì era partito il mio viaggio latinoaustraliano, nel 2007, e da lì adesso stava ripartendo questa nuova avventura, diversa ed eccitante.
Ma queste sono riflessioni successive. La realtà è che quella sera ero nervoso da fare schifo. Il locale dove avevo organizzato la serata si era dimenticato della mia presentazione, e così ci eravamo arrangiati a farla in spiaggia. I miei amici –gloria a loro- mi hanno aiutato a riorganizzare tutto in tempo record, poi mi hanno schiaffato una Tennent’s in mano, mi hanno messo su un trespolo e la serata è iniziata. Ho mandato giù un po’ di birra, mi sono guardato intorno. Era fine agosto e davanti a me avevo alcuni dei miei amici più cari, gente a cui tenevo che era venuta a vedermi. La mia famiglia era lì, in prima fila. Erano tutti seduti su dei teli, in spiaggia. Di fronte avevo lo spettacolo dello Stretto, per l’occasione inondato dalla luce di una luna così piena che sembrava quasi ce l’avessimo messa lì noi per l’occasione.
Inspirai. Avevo fatto un sacco di strada per arrivare lì, sia fisica che dell’altro tipo. Mi ero perso svariate volte. Avevo smesso di sognare, forse anche di crederci.
Adesso invece quel giro largo, larghissimo, mi aveva riportato a casa, tra la mia gente.
Quando la (bravissima) Alessandra, che presentava, mi ha chiamato al microfono definendomi di nuovo SCRITTORE (e aggiungendo un GIOVANE per rendere tutto ancora più surreale), ho fatto il vago –ma quando si è trattato di parlare del libro, non ho esitato. In fondo, era per questo che avevo passato quelle notti insonni –perchè quel mio viaggio potesse diventare anche il viaggio di qualcun altro.
Ero pronto a lasciare che quelle parole si alzassero in piedi e si allontanassero da me, cominciando il loro giro per il mondo.
Ero pronto per far finta di guardare da un’altra parte, seguendo però sempre i suoi primi passi di nascosto.
Ero pronto per un nuovo viaggio latinoaustraliano.
Ero pronto.
Più o meno.


(E stasera si presenta nella mia altra casa, Sydney. Vi farò sapere. Intanto cerco di godermela –almeno quanto se la può godere uno che aveva gli occhi sbarrati già alle sei di mattina.
Ma mi piace l’odore del napalm la mattina presto.
Ci vediamo al prossimo giro largo).


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